Giochi con la clessidra
21. Sinergie transmedial
I social network rivestono, come è ormai noto, un ruolo sempre più cen- trale nel regolare la popolarità dei programmi televisivi. La cosa è certifica-
ta da più aziende di ricerca. Ad esempio, Networked Insights usa i social media per aiutare gli investitori e le agenzie pubblicitarie a prendere deci- sioni di marketing. Attraverso l’osservazione di miliardi di interazioni da blog, forum e altre fonti, compone rapporti sulle visioni, condivisioni e di- scussioni con argomento televisivo che accadono online, per assegnare un
reale valore agli spazi pubblicitari durante gli show. Ad esempio la serie Lost ha, nel suo social media rating, un indice di 131.4, che traduce oltre
1.314.000 interazioni alla settimana. Così lo show, pur essendo decimo nel- la classifica Nielsen, risulta primo in quella stilata da Networked Insights: SocialSenseTV (maggio 2010).
Anche Famecount stila classifiche e statistiche studiando i social
network, cercando e monitorando il traffico delle pagine ufficiali – in Face-
book, Twitter e YouTube – dei più importanti personaggi, show, marchi, giochi, ecc. In Famecount, la serie House – ventesima nella classifica Niel- sen e settima in quella di SocialSenseTV – è quinta per ammontare di Fa- cebook fan, Twitter follower e YouTube subscriber (agosto 2010), mentre
Lost risulta, invece, trentunesima, a mostrare ancora qualche sfumatura fra
coloro che semplicemente “si iscrivono” e quelli che, invece, si impegnano sia pur minimamente ad uno scambio con altri spettatori e/o con i gestori delle pagine: tra semplici “seguaci” e fan veri e propri.
Un’audience attiva e partecipativa ma infedele a mezzi e canali, deve essere “impegnata” attraverso la relazione. Come si è visto nel paragrafo precedente, le industrie radiotelevisive compiono grandi sforzi per creare e mantenere una comunicazione e una relazione con i propri utenti ma anche per creare e sostenere, oltre che per riflettere, comprendere e imbrigliare (O’Reilly, 2005), le relazioni fra gli utenti di una stessa stazione o pro- gramma, in modo da costruire in maniera collaborativa e condivisa il senso dell’esperienza di fruizione. In breve, gli apparati cercano di stimolare gli utenti a creare tra loro legami che li apparentino alle comunità di fan, e co- operano al mantenimento e al sostegno di queste relazioni.
La “coltivazione” degli utenti allo scopo di ibridarli con i fan può essere interpretata da un doppio punto di vista: a) come un modo per fidelizzare al prodotto; b) come un modo per trarre vantaggio economico anche dalle conversazioni che si creano intorno agli show più seguiti.
Così si potrebbe rispondere a Gladwell che «paying people to get other people to write» è necessario perché il prodotto delle aziende culturali è cambiato. I processi e le organizzazioni produttive stanno cambiando per- ché non si produce più (soltanto) merce audience, ma si comincia a produr- re un nuovo tipo di active audience che – se non è proprio l’aggregato di
media producer immaginato da Jenkins e Green (2008) – quanto meno po-
una audience che acquista molte caratteristiche della produmer commodity. La consueta strategia di segmentazione e frazionamento dell’audience – per centrare target precisi – che governa le tradizionali logiche dei media, si perfeziona con l’uso dei social netwok (o/e con l’uso delle logiche da social
netwok), che rende possibile una selezione preliminare di quegli individui
che lavorano con efficienza ed efficacia virale (o, meglio – come suggeri- rebbe Jenkins – con buone spreadability e drillability) e, nello stesso tem- po, costruiscono e migliorano i loro propri capitali sociali e reputazionali, a loro volta destinati a concorrere al valore di merce dell’aggregato che an- dranno a costituire sommandosi agli altri user.
Gli individui che accedono ai contenuti e li “usano”, ri-usano e remixa-
no attraverso una molteplicità di dispositivi tecnologici, possono essere produttivi anche nei rari momenti in cui non ne usano nessuno, e proprio
perché abitualmente li usano tutti.
Che i pubblici siano produttivi soprattutto nei momenti in cui non frui- scono dei media è cosa ormai assodata, grazie alla osservazione dei proces- si di valorizzazione del watching time e, anche, della costruzione intersog- gettiva, cooperativa, relazionale del valore delle merci (delle merci culturali e di quelle che vengono offerte alla “culturalizzazione” dei consumatori at- traverso le merci e i prodotti culturali).
Ma i pubblici non diventano produttivi soltanto quando “imparano ad acquistare” ed acquistano beni o, come scrive Jenkins, «through the mar- keting of ancillary goods from t-shirts to games with promises of enabling a deeper level of involvement with the program content» (Jenkins, 2002).
L’imprenditoria culturale cerca e trova sempre nuove formule per im-
brigliare le attività dei pubblici. Per esplorare alcune delle modalità con cui
ciò avviene, vorrei usare un piccolo ma interessante esempio di media im- presa italiana: Accademia dei Telefilm, che Leopoldo Damerini e Fabrizio Margaria hanno fondato nel 2002.
Damerini, che lavora in Mediaset dal 1999, e Margaria – dal 2001 pro-
gramming manager in Mediaset (ItaliaUno), in particolare per le serie cartoon – stanno sviluppando una nuova modalità di gestione delle «promi-
ses of (fans’) involvement with the program content» e, nello stesso tempo, raccogliendo i frutti di ogni possibile forma di consumo collaborativo. Se la crescita spontanea del fenomeno fandom è in evidente collegamento con l’offerta televisiva, Accademia dei Telefilm, iniziativa nata in continuità di- retta con il quotidiano lavoro televisivo dei due fondatori, comincia ad atti- vare una sorta di “coltivazione del fandom” o, meglio, di contaminazione fra generico consumo televisivo e modalità e attività fandom.
Nel 2003, Accademia dei Telefilm inizia ad organizzare Telefilm Festi-
tre 6 milioni di lettori periodico leader in Italia nel settore dei televisivi, di proprietà Fininvest (che, come è noto, è la holding che possiede Mediaset), ed ottimo veicolo per l’ibridazione fra generalismo e fandom.
Il bacino raggiungibile dalle iniziative di Accademia dei Telefilm è sti- mabile dai dati dei visitatori del sito Il Portale dei Telefilm (www.telefilm- magazine.org, con circa 13.000 visitatori mensili) dei forum e del blog (Te-
lefilm Cult, www.telefilmcult.blogspot.com, dal 2006 circa 20.000 visitato-
ri al mese) e dei visitatori di Telefilm Festival, che nel 2010 ha ospitato 20.000 persone in tre giorni. In più, vi sono i lettori di «Telefilm Maga- zine», mensile che nasce nel 2004, come l’impresa editoriale che lo produ- ce insieme a «Retro» e «Cartoni», suoi spin off. Vale a dire la Press
Factory, fondata da Antonio Visca (un passato in Mediaset, Disney Chan-
nel e Universal McCann) e Alessandro Miglio. Il solo Telefilm Magazine distribuisce attualmente circa 70.000 copie in un target di riferimento tra i 13 e i 35 anni. La concessionaria pubblicitaria dei tre periodici è Emotional
Advertising, specializzata in pubblicazioni di nicchia: riviste dell’area ga- mes; periodici dedicati al mondo dei golfisti; «Freccia», il magazine di Fer-
rovie dello Stato distribuito ai passeggeri dell’Alta velocità e degli Euro- star, e così via.
Portale, blog, riviste, sono tutti strumenti dedicati a una piccola nicchia di seguaci motivati e impegnati, da “vendere” agli investitori pubblicitari, agli sponsor del Festival (che, nel 2010, sono: «TV Sorrisi e Canzoni», In- tesa San Paolo e Invicta) e da “giocare” con i partner televisivi. Tutte le te- levisioni, da RAI a Mediaset, da MTV a Sky sono in partnership con Tele-
film Festival, a sottolineare il fatto, che alla fine del “ciclo di lavorazione”,
gli spettatori tornano alla televisione, a compiere il loro lavoro di audience
specializzata: attrezzata, motivata, fedele.
Telefilm Festival riunisce e concentra tutte le attività tipiche del fandom:
dai “raduni” alle competizioni fra fan club, ai concorsi per aspiranti sce- neggiatori o registi («il lettore è sempre pronto a diventare scrittore», Ben- jamin, 1934). Quasi tutte le persone coinvolte nell’organizzazione dell’e- vento lavorano volontariamente (vi sono, anzi, selezioni per reclutare i vo- lontari), nella speranza di incontrare e avvicinare i protagonisti delle serie più amate. In sintesi, Accademia dei Telefilm mostra come sia possibile convertire l’aggregazione e le attività dei fedeli e dei fan (spontanee, auto- nome, libere e volontarie, persino resistenti se si vuole) in una “forma- merce” da vendere nei mercati dello sponsoring e dell’advertising. Una merce che – quando si riaggrega per lo spettacolo televisivo – è anche più preziosa della vecchia audience.
Questo caso, dove i numeri sono troppo ridotti per generare quote di pro- fitto significative, ma che sottolinea il nuovo valore della fedeltà nelle au-
dience, mi sembra tuttavia notevole soprattutto per l’attenzione che il merca- to pubblicitario e televisivo gli hanno tributato e che (al di là delle soggettive capacità e influenza dei due animatori) è tale da far intravedere nuovi margini di sfruttamento per questa forma di active audience, composta da individui che lavorano su contenuti mediali, attraverso reti di relazioni sociali, in au-
tonomi processi di interazione produttiva (Arvidsson, 2007), molto spesso
ma non necessariamente potenziati e serviti dai media (quanto meno non in tutti i momenti dell’attività comune). Attorno a loro si strutturano strategie aziendali e logiche industriali che cercano di dirigere e regolare i flussi degli utenti o, quanto meno, di seguire e sfruttare i movimenti e le attività degli u- tenti mentre seguono i flussi dell’informazione, usano differenti mezzi e di- spositivi tecnologici, ed interagiscono tra loro. Gli user liberamente e pro- fondamente impegnati a valorizzare le proprie scelte di consumo, a diffon- derle e a condividerle, dimostrano di avere – nella loro aggregazione di mer-
ce – un effettivo e reale valore d’uso. E di essere, quindi, un buon acquisto
per gli investitori pubblicitari. In questo modo, ogni volta che essi si aggre- gano nell’uso di un media o in una forma di consumo culturale, possono es- sere convenientemente “venduti” sul mercato pubblicitario dai soggetti che posseggono o gestiscono il mezzo di comunicazione (e/o il contesto comuni- cativo) di cui stanno fruendo (Stazio, 2010).
Questo piccolo esempio si segnala per il sostegno attento alle diverse at- tività del consumo, per le modalità e gli strumenti comunicativi differenzia- ti e modellati sui momenti e sulle occasioni della fruizione, a loro volta ca- ratterizzati da “attività” e “intensità”diversificate. E per l’evidenza di una “economia affettiva” che costruisce ideologie e mitologie interattivamente, cooperativamente e intertestualmente, fra pratiche sociali, pratiche testuali e pratiche di consumo.
Se, però, Telefilm Festival ha attirato la mia attenzione è soprattutto per- ché vi ho riconosciuto, anche se in un primo momento soltanto vagamente e quasi “inconsciamente”, una certa wittgensteiniana somiglianza di famiglia: «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono ed incrociano a vicenda» con alcuni aspetti intrinsecamente connessi al successo di “pub- blico” di un fenomeno – quello della canzone napoletana – incontrato in una occasione e collocato in un tempo decisamente molto più “antichi”.