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Ingerenze della politica nella giustizia: problemi e soluzion

LA PROPOSTA DI “REPUBBLICA PRESIDENZIALE” DI PIERO CALAMANDREI.

4. IL RAPPORTO TRA GOVERNO E MAGISTRATURA IL PENSIERO DI CALAMANDREI SULLA INDIPENDENZA

4.1 Ingerenze della politica nella giustizia: problemi e soluzion

La riflessione di Calamandrei sulla forma di governo, analizzata nel capitolo precedente, era una riflessione che affondava le sue radici nel tempo.

Il pensiero corre a Montesquieu ed al suo grande capolavoro, “Lo Spirito delle leggi” pubblicato nel 1748.

Nella sua opera Montesquieu distingueva tre forme di governo: il repubblicano, il monarchico, il dispotico. Il governo repubblicano era quello nel quale tutto il popolo, o almeno una parte di esso, deteneva il potere supremo; il governo monarchico quello nel quale governava uno solo, ma secondo leggi fisse e stabilite; nel governo dispotico, invece, uno solo senza né leggi, né freni, trascinava tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci.

In particolare in un regime monarchico uno solo governava sulla base di “leggi fondamentali” (oggi diremo costituzionali), in assenza delle quali la monarchia si sarebbe convertita in dispotismo. Ruolo importante veniva riconosciuto anche ai cosiddetti “corpi intermedi”. Queste realtà corrispondevano per Montesquieu ai poteri di aristocrazia, clero e dei parlamenti provinciali, che divenivano funzionali a porre un limite all'assolutismo.

D'altro canto, senza i corpi intermedi non avrebbero avuto alcuna efficacia neppure le “leggi fondamentali” (o costituzionali) in quanto queste presupponevano “dei canali mediani attraverso i quali scorre il potere”1, così affermava Montesquieu nel libro “Lo spirito delle leggi”.

Ciascuno dei tre tipi di governo aveva un proprio principio. Il principio della repubblica era riconosciuto nella virtù, intesa come virtù politica, cioè amor di patria e dell'uguaglianza; il principio della monarchia nell'amore, cioè l'ambizione

personale. Il principio del dispotismo invece era il timore, la paura perché in esso il despota aveva un potere assoluto ed a lui tutti i sudditi dovevano una piena (assoluta appunto) obbedienza.

Il governo dispotico era, per il pensatore francese, il governo immoderato per eccellenza. Ad esso contrapponeva il governo moderato, cioè quello nel quale vi era un corretto equilibrio fra i vari poteri di cui esso si componeva, nel senso che l'uno limitava l'altro senza prevaricazione su di esso. Ciascun potere si muoveva quindi all'interno di confini ben delimitati e delineati.

Per Montesquieu il governo moderato per eccellenza era la monarchia inglese del suo tempo, sorta dopo la “gloriosa rivoluzione” del 1688-89.

Divisione dei poteri dunque: potere legislativo, esecutivo e giudiziario dovevano rimanere divisi posto che la riunione di due di questi nelle stesse mani annullava la libertà del cittadino, perché rendeva possibile l'abuso dei poteri stessi. «Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, perché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito col potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati»2.

Per la verità, per Montesquieu l'ordine giudiziario non doveva avere in sé nessun vero potere. La funzione giudiziaria, scriveva, non deve essere attribuita ad un “senato permanente” ma deve essere esercitata «da persone scelte fra il popolo, in determinati periodi dell'anno, secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale il quale rimanga in vita soltanto per il periodo che la necessità richiede»3. «In questo modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non

2 Ivi p. 8-9 3 Ivi p. 10

essendo legato né a una determinata condizione, né a una determinata professione, diviene, per così dire, invisibile e nullo»4.

Il cittadino quindi doveva essere messo al riparo da tutti gli abusi che potevano essere opera tanto dei poteri dello stato, quanto dell'ordine giudiziario. Quest'ultimo doveva essere pienamente indipendente perché solo l'indipendenza dei giudici poteva garantire l'obiettiva applicazione delle leggi.

Dunque Montesquieu nella sua teoria sulla forma di governo attribuiva un ruolo fondamentale al potere giudiziario. In particolare era da salvaguardare l'indipendenza dei giudici rispetto agli altri poteri dello stato, legislativo ed esecutivo, poiché solo quest'ultima avrebbe garantito un'imparziale applicazione della legge, garanzia della uguaglianza e della libertà di tutti i cittadini.

La situazione di mancata indipendenza della magistratura, considerata come una delle principali cause di disfunzione del sistema giudiziario di quel tempo, fu denunciata da Calamandrei che s'impegnò per eliminare le ingerenze della politica nella giustizia e dar vita così ad una giustizia veramente funzionale alla tutela dei diritti, delle libertà e del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Nel discorso pronunciato all'Università di Siena nel 1921, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 1921-1922, Piero Calamandrei, a quel tempo docente di diritto giudiziario proprio in quella “gloriosa Università” (così la definì), individuava quattro «tortuose vie che...la politica segue per fare sentire il suo influsso sull'amministrazione della giustizia»5.

Ed è proprio il problema delle relazioni tra la giustizia ed il governo e la condizione di disagio morale in cui si trovava, a causa di tali relazioni, la magistratura, l'argomento su cui Calamandrei, richiamava l'attenzione dei giovani universitari. Gli studenti che studiano diritto nella facoltà giuridiche, affermava il docente, imparano che il nostro ordinamento costituzionale si basa sul principio della “separazione dei poteri” e che pertanto il giudice, in attuazione di tale principio, si trova in una condizione di assoluta indipendenza da altri poteri dello Stato. Ma proprio in quegli ultimi tempi, ricordava, la magistratura andava sempre più

4 Ibidem

5 Calamandrei P., Governo e magistratura in Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, Morano editore, Napoli, 1966, V. II, p. 202

denunciando inquietanti ingerenze della politica nella giustizia, dimostrando al tempo stesso «la indistruttibile integrità morale di quest'ordine, che trova in sé stesso la forza per denunciare i tentativi di inquinamento di cui è continuamente oggetto»6. Calamandrei sottolineava che condizione essenziale affinché possa esservi giustizia è proprio la indipendenza dei giudici; nello Stato democratico, in forza della separazione dei poteri, la funzione giurisdizionale non è una emanazione del potere esecutivo ma una funzione diretta dello Stato che si svolge in coordinazione e in parallelo accanto alle funzioni legislativa ed esecutiva .

Ciò dovrebbe assicurare, nella teoria, la indipendenza del magistrato dalla politica. Ma la separazione tra giustizia e politica non era, secondo il giurista, così netta e sicura come la teoria voleva.

Fatte tali premesse, Calamandrei indicava, come scritto, quattro vie attraverso le quali la politica esercitava il suo condizionamento sull'amministrazione della giustizia.

La prima via attraverso cui si manifestava una ingerenza, che Calamandrei chiamava preventiva, della politica nella giustizia, consiste in ciò: «che l'autorità governativa, sebbene si siano verificati in concreto i precisi presupposti di fatto che richiederebbero senz'altro, in virtù di una norma giuridica preesistente, l'intervento della autorità giudiziaria, impedisce o ritarda, per considerazioni essenzialmente politiche, l'entrata in azione di questa»7.

Tutto ciò, sottolineava l'illustre docente, non poteva avvenire nel campo della giustizia civile, poiché in questo ambito della giurisdizione è attribuito alla libera iniziativa dei privati il compito di mettere in moto gli organi giurisdizionali; ma poteva accadere nel campo della giustizia penale, in cui l'azione viene esercitata dallo Stato, titolare del diritto di punire, per il tramite del pubblico ministero, organo «posto nel nostro ordinamento alla dipendenza gerarchica del Ministro della giustizia»8.

In un ordinamento giudiziario in cui il giudice è sfornito di iniziativa propria e non si

6 Ivi, p. 198 7 Ivi, p. 202 8 Ibidem

può mettere in moto se a richiederlo non sia un funzionario dipendente del potere esecutivo, ne deduceva Calamandrei, il potere esecutivo si fa arbitro della giustizia, annullandola di fatto.

Pertanto, denunciava, «affermare da una parte che la legge è uguale per tutti, e dall'altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare soltanto nei casi in cui ciò non dispiace al partito che è al governo, è tale un controsenso, che non importa spendervi su molte parole»; concludeva dunque che la facoltà lasciata al governo di decidere, sulla base di libere considerazioni politiche, se la giustizia debba o meno proseguire il suo corso, porta chiaramente a ritenere che la giustizia non è indipendente dalla politica.

Vero è, evidenziava ai giovani studenti, che il pubblico ministero, gerarchicamente subordinato al Ministro della giustizia, deve esplicare il suo ufficio nel rispetto del principio di legalità, che pertanto dovrebbe renderlo indipendente dal Ministro stesso; vero è che proprio per rispetto di questo principio di legalità, il Ministro della giustizia non ha facoltà di ordinare al pubblico ministero di procedere nel singolo caso, né di arrestare o ritardare l'azione penale già promossa.

Ma nella pratica, rammentava Calamandrei, tutto è ben diverso. Infatti, il pubblico ministero, a differenza di quanto avveniva per i magistrati giudicanti, non godeva della garanzia della inamovibilità ed era pertanto, sotto il punto di vista della carriera, abbandonato alla volontà del Ministro.

Dunque poteva accadere che il pubblico ministero non sempre si trovava nella possibilità di fatto di resistere o ribellarsi alle istruzioni e suggerimenti del Ministro, tutte le volte che quest'ultimo discretamente gli chiedesse di ritardare o sospendere l'azione promossa.

Tutto ciò scatenava una drammatica incertezza, ed in special modo in relazione ai reati politici, nell'opera accusatrice del pubblico ministero.

Tanto che, denunciava Calamandrei, talvolta si aveva l'impressione che la funzione della pubblica accusa non si svolgesse secondo il criterio fermo e costante della legge superiore ai partiti ed ai ministeri, ma al contrario, «procedesse a sbalzi, saltuariamente, ora chiudendo gli occhi dinanzi al notorio, ora dando corpo alle ombre, in ossequio ai vari criteri ai quali i Ministri, via via susseguitesi al potere,

intendevano ciascuno ispirare la propria politica»9. E l'ingerenza del potere esecutivo

sulla giustizia attraverso il pubblico ministero non si limitava solo ad impedire l'esercizio iniziale dell'azione penale ma poteva giungere a turbare il normale andamento della giustizia, anche successivamente all'inizio del procedimento.

A questa forma di intromissione della politica nella giustizia, che consisteva nell'impedire preventivamente al potere giudiziario di intervenire e prendere provvedimenti nei casi in cui la legge lo richiederebbe, il celebre professore contrapponeva una seconda forma di ingerenza che consisteva nel lasciare che la giustizia si mettesse in moto e seguisse il suo corso fino alla fine, per poi, al momento in cui la pronuncia giudiziaria doveva essere eseguita, toglierle efficacia mediante un atto di governo.

Calamandrei riteneva questa seconda forma di ingerenza più esecrabile della prima e più feroce ai danni della dignità della magistratura: nel primo caso il potere esecutivo si limitava ad impedire alla magistratura di intervenire e procedere agli atti del proprio ufficio. In tale secondo caso invece, si voleva che il magistrato compiesse sino alla fine la propria opera, per poi distruggerla appena conclusa.

Dunque, ad una prima forma di “preventiva” ingerenza della politica nella giustizia Calamandrei ne aggiungeva un'altra, che veniva detta “successiva”.

Affermava il giurista, che il suo intento non era quello di mettere in discussione il fondamento giuridico del diritto di grazia, inteso in senso lato e quindi comprendente anche le forme speciali dell'amnistia e dell'indulto, che lo Statuto Albertino riservava al sovrano in materia penale; anche se, rilevava, come l'uso generoso di questa prerogativa sovrana concorreva a ridurre sempre più, nella pubblica coscienza il prestigio della magistratura e dello stesso Stato.

Tuttavia, più che dalle amnistie, le quali vista la loro efficacia collettiva, potevano apparire giustificate da esigenze di carattere generale, l'autonomia della funzione giurisdizionale veniva lesa dall'abuso delle grazie individuali, delle quali, denunciava, il governo aveva fatto ampia distribuzione. Di modo che, si attendeva che il giudice desse al reo la giusta condanna, unicamente allo scopo di dar domani

all'onorevole amico del condannato la soddisfazione di ottenergli la grazia dal compiacente Ministro.

Ma, proseguiva, il fenomeno più impressionante di quegli anni non si verificava tanto nel campo della giustizia penale quanto in quello della giustizia civile; quest'ultima era fino a quel momento più immune da intromissioni politiche, considerato anche il carattere privato degli interessi che in essa si fanno valere. In tale ambito si andava sempre più introducendo «il sistema di concedere ad organi amministrativi la facoltà di togliere vigore nel periodo esecutivo alle sentenze passate in giudicato dell'autorità giudiziaria»10.

Un tempo, ricordava Calamandrei, i più dotti giuristi enunciavano tra i canoni fondamentali della nostra costituzione quello della insindacabilità degli atti del potere giudiziario da parte di organi appartenenti ad un diverso potere: ma ecco che saltava fuori, nel primo dopoguerra, «quel meraviglioso fenomeno vivente, mostro di tre nature in un sol corpo, un po' legislatore, un po' amministratore, un po' giudice, che si chiama il Commissario per gli alloggi»11, il quale cumulava tra i suoi

molteplici poteri, anche quello di sospendere gli sfratti regolarmente ordinati con sentenza dall'autorità giudiziaria. Così poteva accadere che un padrone di casa otteneva dal Pretore lo sfratto di un inquilino inadempiente; quest'ultimo appellava ma il Tribunale confermava la sentenza del Pretore; l'inquilino ricorreva in Cassazione la quale rigettava il ricorso riconoscendo definitivamente il diritto del proprietario. La questione dopo tre sentenze di tre organi giudiziari sempre più autorevoli doveva dirsi ponderata a sufficienza; doveva ritenersi che la pronuncia desse sufficiente garanzia di giustizia. Ma ciò non era tuttavia vero poiché al padrone di casa, ormai sicuro del suo buon diritto consacrato nella sentenza, nel momento in cui andava per farla eseguire, ecco che gli si parava davanti il “Commissario per gli alloggi”, figura che di fronte ai giudici che si erano pronunciati tre volte non appariva di certo dotata di altrettanta indipendenza e finezza giuridica, il quale senza alcun contraddittorio o istruttoria in un attimo annientava la pronuncia giudiziaria lungamente meditata e riesaminata dagli organi competenti.

10 Calamandrei P., Governo e magistratura in Opere giuridiche, cit., V. II, p. 203 11 Ibidem

Tutto ciò, avvertiva, minava la dignità della giustizia.

Le due descritte forme di intromissione della politica nella giustizia agivano l'una prima che il giudizio iniziasse, l'altra una volta terminato il giudizio. Queste dunque, secondo l'illustre fiorentino, non minacciavano l'indipendenza dei magistrati durante lo svolgimento della loro funzione giudicante.

Calamandrei tuttavia si chiedeva, se poteva dirsi esistente anche una terza forma di ingerenza che tendesse a fare pressioni sui giudici nel momento in cui questi erano chiamati a decidere.

Dal punto di vista costituzionale la funzione del giudice è indipendente da qualsiasi volontà che non abbia forza di legge; nessun giudice dunque dovrebbe sentirsi giuridicamente tenuto a uniformarsi alle direttive provenienti dal potere esecutivo e con le quali questo pretendesse di prescrivergli il contenuto da dare alla sentenza. «Ma se di diritto la funzione è indipendente, essa rischia di perdere di fatto questo suo requisito, quando il governo, pur protestando tutto il suo rispetto per la intangibile santità della funzione, non ha tuttavia scrupolo di disporre a suo arbitrio della carriera del funzionario»12.

A coloro che esaminano le leggi che regolano la carriera giudiziaria, affermava agli studenti Calamandrei, non sfuggirà che questa continua a svolgersi sotto la ingerenza celata ma sempre presente del potere esecutivo. Ciò valeva non tanto per il modo in cui avveniva l'ammissione alla magistratura, e cioè con nomina regia secondo quanto previsto dallo Statuto Albertino; in verità, in questo momento iniziale della carriera dei magistrati non si poteva parlare di ingerenza vera e propria del potere esecutivo, giacché in tale momento non si aveva altro che la consacrazione formale di una selezione fatta da organi tecnici all'infuori di ogni criterio politico. Molto più pericolosa era l'ingerenza che il governo poteva esercitare sulla carriera giudiziaria nel periodo successivo alla nomina; proprio di questo potere che aveva sulla carriera del magistrato il governo poteva servirsi per sottomettere la funzione giudiziaria alla politica.

Osservava che, per garantire l'indipendenza dei magistrati e per privare i governi di

quell'insopportabile strumento di asservimento della giustizia che è l'intimidazione dei giudici, le costituzioni moderne hanno posto tra i canoni fondamentali dello Stato moderno la garanzia della inamovibilità dei magistrati, intesa in duplice modo: come diritto del magistrato a non essere rimosso dall'ufficio, ma anche come diritto a non essere contro la sua volontà trasferito di sede al di fuori dei casi espressamente contemplati dalle leggi.

Sembrerebbe che questa garanzia che vige anche nel nostro ordinamento sia tale da porre la funzione giudiziaria interamente al sicuro da ingerenze governative, liberando il giudice da ogni timore di rappresaglie politiche da parte del potere esecutivo. Ma Calamandrei invitava a non ragionare con eccesso di ottimismo e sottolineava, riferendosi al giudice, che «non basta liberarlo dal timore che il suo atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarlo, ma bisogna altresì togliergli ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla sua carriera futura»13. In altre parole, se dal

governo dipendono premi, nomine, promozioni, la garanzia della inamovibilità non salva il giudice dalla soggezione. «Se il nostro ordinamento giudiziario riesce a proteggere il giudice contro le vendette, non riesce a proteggerlo contro un'arma assai insidiosa e più penetrante, cioè contro i favori dei governanti»14.

La carriera dei magistrati, proseguiva, le promozioni di grado, il trasferimento ad una sede migliore, il conferimento di incarichi speciali, non si svolgono automaticamente, secondo regole rigidamente fissate dalla legge; accanto al criterio di anzianità, si tiene conto anche del criterio del merito personale: dunque, tutta la carriera giudiziaria è subordinata al potere discrezionale degli organi che sono chiamati a valutare tale merito. Fin qua, ad avviso di Calamandrei, niente di male se il potere si esercitasse in base a criteri tecnici, al solo scopo di mandare avanti i migliori; il male iniziava quando si pensava che l'ultima parola dovesse essere quella del Ministro della giustizia, quest'ultimo organo non tecnico ma politico.

Pertanto questa magistratura vedeva la sua carriera affidata al potere discrezionale del Ministro, il quale, ad esempio, non poteva trasferire un magistrato ad un tribunale

13 Ivi p. 208 14 Ibidem

peggiore, ma poteva, qualora avesse voluto giovare ad un suo protetto, trasferirlo da un tribunale peggiore ad uno migliore, a dispetto dei colleghi più anziani e meritevoli che a tale sede aspiravano; oppure poteva sottrarre i suoi favoriti ai duri sacrifici dei gradi inferiori in sedi disagiate e remote, ed affidare loro speciali missioni ben retribuite; poteva ancora, accelerare una promozione o variare una graduatoria. Seppur un sentimento di lealtà politica frenava i Ministri dall'utilizzare tali poteri discrezionali, sottolineava il giurista, era deplorevole che questi poteri non fossero esclusi di diritto in modo da evitare ai Ministri anche solo la lontana tentazione di farvi ricorso.

E Calamandrei richiamava, nel suo discorso ai giovani studenti, anche quella che lui stesso definiva la “mala pianta” della vita politica italiana: ossia la “raccomandazione”.

Ricordava che vi era una legge15 la quale esplicitamente vietava ai magistrati di ricorrere a raccomandazioni presso i membri del governo o presso le persone da cui