Il Pivetti non era il solo artista che esponeva riproduzioni di edifici in filigrana, due orefici romani – Stefano Beretta e Franzone – presentavano un oggetto analogo: la riduzione in filigrana del campanile di Giotto48. Anche quest’edificio, come quelli precedentemente citati, godeva di una discreta fama, legata soprattutto al suo autore; la riscoperta di Dante e della sua produzione letteraria avevano portato alla consacrazione definitiva del pittore, celebrato dal poeta nella celebre terzina dell’undicesimo canto del Purgatorio (versi 94-96):
Credette Cimabue ne la pittura
Tener lo campo, e ora ha Giotto il grido Sì che la fama di colui è scura.
Questi versi, unitamente alla rivalutazione della cultura pittorica medievale, portarono ad un nuovo apprezzamento della figura di Giotto, oggetto della produzione artistica ottocentesca. Se il Tommaseo in Bellezza e civiltà inserisce tra i temi da affrontare nella pittura storica l’incontro di Giotto e Cimabue, la fortuna dell’artista è legata anche a quella di Dante: si consideri a tal proposito l’acquerello di Dante Gabriel Rossetti, rappresentante Giotto dipinge
il ritratto di Dante, nel cui studio preparatorio sono presenti la sopracitata terzina ed i due
versi successivi49. Tale legame risulta ancora più evidente se si considera che l’opera in questione alluderebbe alla scoperta del ritratto dantesco presso il Palazzo del Podestà di Firenze, del quale Seymour Kirkup aveva spedito una copia al padre di Dante Gabriel Rossetti lo stesso anno della sua scoperta50.
Una simile fortuna coinvolgeva ovviamente tutti gli aspetti dell’attività artistica di Giotto, compreso il campanile. È sicuramente interessante la scelta dell’architettura da esporre da parte dei due orefici romani: come già i colleghi torinesi, non si mostrano interessati a riproporre edifici della loro tradizione locale, sembrano anzi alla ricerca di quei caratteri medievali che non era possibile rinvenire nelle rispettive città di provenienza. È possibile che l’arte della filigrana venisse percepita come precipua del Medioevo, e che quindi i soggetti per eccellenza dovessero ascriversi a tale epoca.
Purtroppo non si hanno altre informazioni sull’attività orafa di Beretta e Franzone, risulta quindi difficile scoprire se si tratta di casi isolati o se fosse una vera e propria tendenza della
48
IV Esposizione Nazionale, cit., 1880, p. 137; si veda anche l’Appendice documentaria.
49 Cfr. TOMMASEO, 1838 [1857], p. 208; per il dipinto di Dante Gabriel Rossetti si vedano Mc LAUGHLIN, 2010, pp. 30-31 e C. HARRISON, 17. Studio per Giotto dipinge il ritratto di Dante, 1852, in ID., NEWALL, SPADONI (a cura di), 2010, p. 91 per il disegno preparatorio.
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filigrana ottocentesca. In realtà l’esposizione torinese non è l’unica che vede la partecipazione dei due orefici: nel 1886 difatti, alla mostra dedicata agli oggetti artistici in metallo, erano presenti alcune opere di Stefano “Berretta” di Roma, da identificarsi con ogni probabilità con il Beretta51. Oltre ad un cofanetto “con ornati di fiori di filigrana di argento dorato” l’artista presentava una riproduzione del campanile di Giotto in filigrana d’argento, dunque la stessa opera esposta a Torino o una sua replica: si può quindi supporre con una certa sicurezza che la copia di edifici medievali in filigrana costituisse un tratto caratteristico della produzione artistica dei due orefici52. L’ipotesi sembra trovare conferma nella Relazione del Comitato
Esecutivo, che premiò il Beretta proprio per “l’applicazione della filigrana alla riproduzione
dei monumenti”, indicando di fatto l’alto livello qualitativo raggiunto dall’artista in questa tipologia di oggetti53.
Alla rassegna romana era presente però solamente Stefano Beretta, mentre non è citato il collega: l’unica notizia reperita sulla coppia di artisti in questione è l’indirizzo della loro bottega romana – situata in via del Corso –, riportato nel catalogo dell’Esposizione di Belle Arti torinese54. Sono inoltre presenti in tutte le annate delle Guide Monaci esaminate, ovvero negli anni 1879, 1881, 1886 e 1891, sia nella categoria “Filigrana in oro e argento” – nelle edizioni comprese tra il 1879 ed il 1886 – che in quella di oreficeria – tra il 1881 ed il 1891 –
55
. Dalle suddette fonti è stato possibile individuare i corretti nominativi dei due orefici – Franzone è in realtà un errore di trascrizione di Fransone – e gli anni della loro comune attività: se nella guida del 1879 sono entrambi attivi nella sede di via Condotti 63, due anni dopo risulta solo Stefano Beretta, trasferitosi nella bottega di via del Corso 155-156, mentre manca qualunque riferimento al Fransone56. Tra il 1880 ed il 1881 deve quindi situarsi il suo ritiro dall’attività o il suo decesso, nel catalogo dell’Esposizione di Belle Arti di Torino egli è difatti ancora citato insieme al Beretta, presso la bottega di via del Corso: ciò spiegherebbe la presenza del solo Beretta all’esposizione romana del 188657
. Nel medesimo anno il Beretta inserì, all’interno della Guida Monaci, un “annunzio speciale”, un’inserzione pubblicitaria posta in un’apposita sezione all’inizio della guida: in essa si definiva specializzato in “articoli di Fantasia”, vantandosi inoltre di essere stato premiato ad un’esposizione di Londra del 1870 ed a quella Universale parigina del 187858.
51 Esposizione del 1886. Oggetti artistici di metallo. Relazione del Comitato Esecutivo, Roma 1886, p. 82. 52 Ibid.
53 Ivi, p. L. 54
Cfr. IV Esposizione Nazionale, cit., 1880, p. 161.
55 Si veda MONACI, 1879, p. 343; ID., 1881, pp. 397, 425; ID., 1886, pp. 575, 610; ID., 1891, p. 801. 56 Cfr. MONACI, 1879, p. 343; ID., 1881, pp. 397, 425.
57 Cfr. IV Esposizione Nazionale, cit., 1880, p. 137. 58 MONACI, 1886, p. 162.
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L’Esposizione Generale di Milano, 1881: modelli celebri
come mezzi per i Revival stilistici.
Vent’anni dopo la prima esposizione nazionale si ritenne opportuno bandirne una nuova edizione, per tracciare un consuntivo della situazione economico-commerciale del neonato Stato1. Se l’evento di Firenze era stato definito di carattere politico, questo era, secondo le fonti dell’epoca, eminentemente industriale, divenendo così un’iniziativa auto-celebrativa della borghesia imprenditoriale2.
Al di là delle motivazioni dietro l’allestimento delle due esposizioni, quella milanese marca una certa distanza dal precedente toscano: le pubblicazioni periodiche ad essa relative sono più numerose e maggiormente illustrate, fornendo in molti casi riferimenti figurativi per le opere esposte. Fu pubblicato anche un Album-ricordo dell’Esposizione, formato da numerose riproduzioni fotografiche illustranti l’allestimento dell’evento3
.
La mostra si articolava in due parti, industriale ed artistica, ma la totalità degli oggetti esaminati appartengono alla prima categoria: a differenza dell’esposizione fiorentina del 1861 sembra che le due sezioni fossero ben separate, non si hanno casi di oggetti citati in entrambe, quasi a sancire la definitiva separazione tra arti “maggiori” e decorative.
1 Sulla nascita e l’organizzazione dell’esposizione milanese si vedano G. LOPEZ (a cura di), Esposizione
nazionale di Milano 1881 : documenti e immagini 100 anni dopo, cat. della mostra, Milano 1981; M. PICONE
PETRUSA, 1881. Milano Esposizione nazionale (5 maggio-1 novembre), in EAD., PESSOLANO, BIANCO, 1988, pp. 88-91.
2 PICONE PETRUSA, 1988, p. 88.
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“Finestra a vetri colorati”, di Pompeo Bertini.
Se si considera che la mostra in questione si svolse un anno dopo quella di Belle Arti torinese, non stupisce la partecipazione ad essa di artisti come Pompeo Bertini, già citati nel capitolo precedente. Anche in quest’occasione la sua partecipazione è segnalata in modo generico dal
Catalogo ufficiale, che riporta semplicemente l’esposizione da parte sua di una “Finestra a
vetri colorati, dipinta a fuoco”4. La fama dell’espositore e dell’impresa a cui apparteneva
portarono la stampa specializzata ad interessarsi dell’opera in questione, fornendo così ulteriori informazioni sul suo aspetto. Ronco, collaboratore di Milano e l’Esposizione Italiana
del 1881, parla ad esempio di una vetrata esposta dal Bertini rappresentante una Madonna con
Bambino, “nello stile dell'epoca fra Cimabue e Giotto”5. L’opera sarebbe stata eseguita con la
tecnica della “cottura ad encausto dei colori sul vetro” – probabilmente l’autore intendeva riferirsi alla pittura a smalto, che appunto prevede la vetrificazione degli smalti tramite cottura – procedimento che gli sarebbe stato trasmesso dal padre6
. Nonostante la fama del Bertini la vetrata non fu particolarmente apprezzata dal Ronco, per il quale “non è gran cosa”, ma nell’insieme riconosce che si tratta di un lavoro “buono e armonioso”, ispirante “raccoglimento e devozione”7
.
La vetrata in realtà non costituisce un’opera del tutto originale: come rilevato dall’autore dell’articolo, esistevano già altre versioni della Madonna con Bambino realizzate dalla ditta Bertini. Egli cita a tal proposito una variante presentata all’Esposizione Universale di Londra del 1862, “somigliantissima” a quella esposta a Milano, menzionata anche dal Boito in un articolo apparso su “Il Politecnico” nel 18668. In tale sede lo studioso ricorda che l’opera
londinese, “che fa tornare nella memoria il famoso Cristo bianco vestito, dipinto dal Beato da Fiesole”, fu acquistata dal Kensington Museum alla suddetta mostra9. I Bertini risultano
effettivamente presenti all’Esposizione Universale con una non meglio specificata “Painted glass window”10. Sono inoltre citati nella classe XXXVIII – “Paintings in oil and water-
4 Esposizione Industriale Italiana del 1881 in Milano – Catalogo ufficiale, Milano 1881, p. 252; si veda inoltre l’Appendice documentaria.
5 Cfr. G. A. RONCO, Fra Vetri e Cristalli, in Milano e l’Esposizione Italiana del 1881, Milano 1881, pp. 135, 147-150.
6 Cfr. RONCO, 1881, p. 150. 7 Ibid.
8 RONCO, 1881, p. 150; per l’articolo di Camillo Boito si veda C. BOITO, Artisti italiani contemporanei.
Giuseppe Bertini pittor milanese, in “Il Politecnico”, fasc. V, maggio 1866, pp. 774-790.
9 BOITO, 1866, p. 785. Il brano è riportato anche in SILVESTRI, 2006, p. 99. Nell’articolo di Boito in realtà la vetrata esposta a Londra è attribuita a Giuseppe Bertini, mentre Ronco la ascrive al fratello Pompeo, ma, lavorando nella medesima ditta, è naturale che sussistano dei problemi attributivi.
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colours, and drawings” – con una pittura su vetro rappresentante una Madonna con Bambino, grazie alla quale ottennero una medaglia di riconoscimento all’interno della categoria “Stained Glass and Glass used for Decoration”11. La vetrata in questione riscosse un tale
successo che una sua riproduzione a colori fu inserita nel volume dedicato ai capolavori d’arte industriale presenti all’Esposizione (Tav. 1), corredata da una scheda storica sulla tecnica della vetrata ed i precedenti dei Bertini in Italia12.
La vetrata acquistata dal South Kensington Museum è tuttora conservata presso i depositi del Victoria and Albert Museum di Londra, ma purtroppo le condizioni dell’opera non sono delle migliori: la superficie è completamente annerita da una patina di sporco, e nel corso degli anni è andata persa la parte di vetrata corrispondente alla figura del Bambino13. Nonostante il
cattivo stato conservativo il disegno è ancora leggibile, e mostra numerose analogie con la riproduzione presente nella pubblicazione già ricordata: è certo dunque che la vetrata nei depositi del Victoria and Albert Museum corrisponde a quella esposta a Londra nel 1862.
Come rilevato dalla Silvestri, sembra che il modello in questione goda di una discreta fortuna nella produzione artistica dei Bertini: fu riprodotto con diverse tecniche a partire da un primo disegno, pubblicato dal Carotti nel 1899, al quale, stando alla documentazione fotografica fornita da Luigi Sacchi, Giuseppe Bertini riservava una posizione privilegiata nel suo studio (Tav. 2)14. In particolare il cartone fu utilizzato per la Madonna con Bambino al centro della
vetrata di San Lorenzo a Genova, per il finestrone di San Petronio a Bologna, per una chiesa di Aquisgrana e per la vetrata acquistata dal Kensington Museum15. Le due figure compaiono,
con minime variazioni, anche in una vetrata attualmente conservata presso i Musei Vaticani, pubblicata per la prima volta dalla Silvestri (Tav. 3): donata nel 1922 dal milanese Cesare Ponti a Pio XI, è conservata in una cornice lignea di gusto gotico, completa di predella e cuspidi, una scelta che richiama l’allestimento de Il trionfo di Dante nel Museo Borgogna16.
11 International Exhibition, 1862. Kingdom of Italy. Official descriptive catalogue, London 1862, p. 367. Per la premiazione si veda International Exhibition 1862. Medals and honourable [sic] mentions awarded by the
International Juries, London 1862, p. 364.
12 Nella scheda posta a corredo dell’immagine si specifica che fu quest’opera a spingere la commissione a premiare Giuseppe Bertini, indicato come autore della vetrata. Cfr. Masterpieces of industrial art & sculpture at
the International Exhibition, 1862. Selected and described by J. B. Waring, architect, London 1863, plate 23.
13 Colgo l’occasione per ringraziare la dottoressa Terry Bloxham, del Victoria and Albert Museum, per la collaborazione, permettendomi di avere accesso ai depositi del museo e alla vetrata.
14 Il bozzetto nel 1899 era di proprietà di Giulia Molteni. Cfr. CAROTTI, 1899, p. 168; SILVESTRI, 2006, pp. 99-100.
La fotografia dello studio del Bertini, a cui fa riferimento anche il Carotti, è pubblicata in R. MAGGIO SERRA,
I sistemi dell’arte nell’Ottocento, in La pittura in Italia. L’Ottocento, Milano 1991, vol. 2, pp. 629-652.
15 Per l’identificazione del modello comune si veda SILVESTRI, 2006, pp. 99-100.
16 SILVESTRI, 2006, p. 100; per la vetrata del Museo Borgogna si veda il capitolo relativo all’esposizione fiorentina del 1865.
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Le vetrate ricalcano fedelmente il disegno preparatorio, e sono a loro volta molto simili tra di loro: l’opera londinese e quella romana si differenziano solamente per la gamma cromatica – dai toni caldi la prima, dominata da colori freddi la seconda –, mentre sono completamente sovrapponibili per la composizione. La forma del trono, i motivi fitomorfi sullo sfondo, perfino la pavimentazione ed i ricami della veste della Vergine coincidono perfettamente: entrambe deriveranno dal medesimo cartone preparatorio, sicuramente più dettagliato del disegno pubblicato dal Carotti. Considerando la sostanziale identicità delle due opere, e che il Ronco definisce la vetrata del 1881 “somigliantissima” a quella del 1862 non si può che sostenere che la versione conservata presso i Musei Vaticani coincida con quella presentata a Milano, e che sia stata acquistata da un parente di Cesare Ponti, e donata da questi al Papa successivamente17.
Come accennato in precedenza, la vetrata è stata ascritta dai periodici dell’epoca ad uno stile compreso tra la maniera di Giotto e di Cimabue; tuttavia difficilmente si possono riconoscere elementi medievaleggianti: il trono è semmai riferibile al Rinascimento, considerando i due delfini stilizzati che coronano la parte superiore e le due anfore ai lati di questi, così come non sembrano medievali i motivi decorativi sullo sfondo mentre la figura della Vergine è avvicinata dalla Silvestri alla pittura leonardesca di area lombarda18. Anche il Boito però, a
proposito della vetrata in questione, sostiene che la figura della Madonna sia riconducibile ai lavori del Beato Angelico, mentre per le finestre del San Petronio di Bologna, che nella figura centrale riprendono da vicino la sopracitata Vergine con il Bambino, loda l’abilità del Bertini nel “tenersi […] ad un fare semplice e puro, senza cascare peraltro nell’istecchito e nell’aspretto dello stile gotico”19. Il Caimi a sua volta legge nella vetrata esposta a Londra un
riferimento all’arte del passato, la Vergine ricorderebbe difatti “le più geniali e caste creazioni del quattrocento”20.
Se da una lato la definizione stilistica sembra legata almeno in parte alla tecnica con la quale è stata eseguita l’opera, non manca sicuramente una connotazione in senso ideologico dello stile medievale. La vetrata in questione è definita neomedievale per evidenziarne gli elementi puristi, in un’ottica prettamente spirituale dell’arte medievale21. Come già sostenuto dalla
Silvestri, si potrebbe dire che l’artista volesse semplicemente richiamarsi a quei valori spirituali caratterizzanti, secondo la critica ottocentesca, l’arte del Trecento e Quattrocento,
17 RONCO, 1881, p. 150.
18
Cfr. SILVESTRI, 2006, p. 100. 19 BOITO, 1866, p. 785.
20 A. CAIMI, Delle arti del disegno e degli artisti nelle provincie di Lombardia dal 1777 al 1862, Milano 1862, p. 133.
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ma senza rifarsi fedelmente al Medioevo22. D’altronde la ricerca di purezza stilistica e la
semplicità compositiva sono elementi rintracciabili sia nella produzione vetraria che pittorica del Bertini, il quale al tempo stesso si mostra notevolmente interessato alla pittura storica contemporanea23.
22 SILVESTRI, 2006, pp. 83-84.
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