Come accennato in precedenza, all’esposizione milanese si ritrovano artisti e ditte già presenti alla mostra di Torino del 1880. Tra di essi spicca il nome di Antonio Salviati, il quale espone, come già Pompeo Bertini, nella classe XXVIII, dedicata a processi e prodotti dell’arte vetraria. Il Catalogo ufficiale presenta in realtà un elenco piuttosto generico: si citano tra l’altro “vetri soffiati artistici, dipinti, imitazione di vetri antichi ecc.” e “Mosaici in smalto di stile vario figurati per ornato”24. L’allestimento scenografico dello spazio espositivo della
ditta, caratterizzato dalla presenza di una fontana “di stile italiano-lombardesco” interamente in vetro soffiato e mosaico alta 1,75 metri, unitamente alla fama di cui essa godeva, portarono i periodici dell’epoca ad approfondire con alcuni articoli le vicende di Antonio Salviati e la sua produzione artistica25.
Particolare attenzione suscitò un polittico neomedievale, eseguito in mosaico: all’interno di una cornice lignea goticheggiante è raffigurata la Vergine in trono con Bambino, circondata da sei santi. L’opera, di cui i periodici dell’epoca forniscono anche una riproduzione (Tav. 4), risulta composta a partire da diverse fonti di ispirazione, molto eterogenee dal punto di vista stilistico: gli scomparti laterali, rappresentanti due santi ciascuno, hanno il fondo di un colore scuro, mentre gli altri tre sembrano caratterizzati da uno sfondo chiaro. Negli articoli si fa effettivamente riferimento a diversi modelli, e sembra dunque che Salviati abbia scelto alcune opere d’arte di “stile nordico” presenti a Venezia, per poi tradurle in mosaico “a rilievo”, eseguendo in rilievo cioè le parti decorative in oro26. In tali articoli si identificano anche i
dipinti ripresi dalla ditta Salviati, ma non sempre correttamente: sia il Romussi che Bolaffio ad esempio riconoscono i santi negli scomparti adiacenti a quello della Madonna come esemplati sui polittici della cappella di San Tarasio, nella chiesa di San Zaccaria a Venezia, riferendoli a “Giovanni e Antonio da Murano, pittori del secolo XV”, probabilmente da riconoscersi in Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna (Tav. 5)27. L’identificazione del
modello in questo caso si spinge fino all’individuazione dei santi rappresentati, “nel primo
24 Esposizione Industriale Italiana, cit., 1881, p. 254; si veda inoltre l’Appendice documentaria.
Tra le riproduzioni in mosaico della ditta Salviati la Guida del Visitatore cita la copia di un angelo del Beato Angelico, senza fornire ulteriori notizie in merito. Cfr. Esposizione Industriale Italiana del 1881 in Milano.
Guida del Visitatore, Milano 1881, p. 162.
25 Per la fontana in vetro si vedano L. F. BOLAFFIO, Antonio Salviati e la sua industria, in Milano e
l’Esposizione, cit., 1881, pp. 183-187; C. ROMUSSI, Vetri e Musaici del dott. A. SALVIATI, in L’Esposizione Italiana del 1881 in Milano illustrata, Milano 1881, pp. 225-227.
26 BOLAFFIO, 1881, p. 186; ROMUSSI, 1881, p. 227.
27 Cfr. BOLAFFIO, 1881, p. 186; ROMUSSI, 1881, p. 227. Per la cappella di San Tarasio si veda E. CONCINA,
111 Nereo e Achileo e nell’altro Gajo e Marco”28. Non si fa cenno al modello del pannello
centrale, a sua volta tratto da un polittico della cappella di San Tarasio, restaurato e modificato nel 1839 con l’adattamento alla pala di alcune tavole trecentesche, tra cui appunto la Vergine
in trono di Stefano Veneziano (Tav. 6)29.
Gli scomparti laterali prendevano invece a modello due tavole veneziane, attualmente conservate presso le Gallerie dell’Accademia: il San Giacomo apostolo di Marco Basaiti – secondo il Romussi si tratta di un non meglio identificato “Redentore” del medesimo artista – ed il San Giovanni Battista del trittico di San Lorenzo di Giovanni Bellini, attribuito in entrambe le pubblicazioni ad uno dei Vivarini (Tavv. 7-8)30. Al di là di eventuali scorrette
attribuzioni, dovute anche allo stato degli studi critici dell’epoca31, è interessante la scelta
stilistica di Salviati, che inserisce in una cornice “di stile archiacuto” sia opere propriamente definibili medievali – la trecentesca Madonna con Bambino – che lavori del XV secolo come la pala del Bellini, già sotto l’influsso del primo Rinascimento. A connotare stilisticamente questo pastiche contribuisce in maniera determinante la cornice dorata, caratterizzata da elementi tipicamente medievali, dai trafori floreali presenti sulle cuspidi alle arcate polilobate che sormontano ciascun mosaico. Sembra quasi che l’obbiettivo dell’incorniciatura fosse accentuare i tratti medievaleggianti del polittico, posti in risalto già dall’utilizzo della tecnica musiva.
L’opera riscosse un discreto successo all’esposizione, Antonio Salviati ottenne difatti un diploma d’onore per la produzione artistica della sua ditta, con particolare attenzione “per il suo bellissimo mosaico con piccoli rilievi”32. Una menzione onorevole fu ottenuta inoltre da
Francesco Novo – collaboratore della ditta veneziana già citato in occasione dell’Esposizione Romana del 187033 – per “l’applicazione del rilievo nel trittico a musaico”34. Nonostante la
fortuna riscossa si ignorano le vicende del polittico successive all’esposizione, del quale si
28 BOLAFFIO, 1881, p. 186. 29 Cfr. CONCINA, 1995, p. 245.
30 BOLAFFIO, 1881, p. 186; ROMUSSI, 1881, p. 227. Per i due dipinti si veda S. MOSCHINI MARCONI,
Gallerie dell’Accademia di Venezia, vol. I – opere dei secoli XIV e XV, Roma 1955; A. TEMPESTINI, Giovanni Bellini, Firenze 1992; G. NEPI SCIRÈ, F. VALCANOVER (a cura di), Gallerie dell’Accademia di Venezia,
Milano 1985; EAD. (a cura di), Gallerie dell’Accademia di Venezia, Milano 1998; M. LUCCO, “La primavera
del Mondo tuto, in ato de Pitura”, in ID., G. C. F. VILLA (a cura di), Giovanni Bellini, cat. della mostra, Roma
2008, pp. 19-38.
31 Solamente nel 1932 fu posta in discussione dal Fogolari l’attribuzione al Vivarini, tramandata dal Boschini nel Seicento e da Zanetti nel secolo successivo. Cfr. TEMPESTINI, 1992, p. 28.
32 G. CORONA, Sezione XII – Classi 27.ª e 28.ª, in Esposizione Industriale Italiana del 1881 in Milano.
Relazioni dei giurati, Milano 1885, pp. 3-42.
33 Il Novo aveva fornito il disegno in stile bizantino per l’Ultima Cena eseguita in mosaico dalla suddetta impresa. Si veda a tal proposito il capitolo relativo all’Esposizione romana delle opere di ogni arte eseguite pel culto cattolico.
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perdono completamente le tracce: probabilmente l’opera entrò a far parte di una collezione privata, e per questo non si è individuata nelle principali collezioni museali italiane.
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“Vetri e mosaici”, Compagnia Venezia-Murano.
Nella XXVIII classe era presente un altro espositore incontrato nella mostra di Belle Arti di Torino del 1880, la Compagnia Venezia-Murano, con una selezione di vetri e mosaici “di vari stili ed epoche”35. Tra le tipologie di oggetti citati nel catalogo sono presenti riproduzioni di
“vetri fenici, murrine, cristiani, bizantini, medioevali e del Rinascimento” e mosaici stilisticamente eterogenei, ma non vengono fornite ulteriori notizie circa l’aspetto delle opere36.
Fortunatamente è stato possibile reperire altre notizie in proposito dalle fonti contemporanee, il periodico L’Esposizione Italiana del 1881 dedica difatti alla ditta un lungo articolo, oltre ad un’incisione rappresentante i principali oggetti esposti (Tav. 9)37. La ditta probabilmente
godeva di una discreta fama, dovuta sia all’operazione di rinascita del vetro muranese di cui si fece promotrice che al passato che la legava alla figura di Antonio Salviati, a sua volta presente all’esposizione38.
Tra le opere presentate dalla Compagnia spiccavano alcune riproduzioni di pezzi celebri, come lo scrigno di San Luigi, attualmente conservato al Louvre (Tav. 10). Di manifattura limosina e databile agli anni Trenta del XIII secolo – più precisamente tra il 1234 ed il 1237 – era stato scoperto nel 1853 presso la chiesa di Dammarie-les-Lys, ed acquisito dal museo pochi anni più tardi, nel 1858: si trattava quindi di un’opera nota, probabilmente al centro del dibattito critico francese per datazione e provenienza39. La scelta dell’opera da riprodurre
risulta quanto meno curiosa, considerando che è in legno ed è decorata da medaglioni smaltati: l’imitazione non è del tutto fedele all’originale, gli artigiani della Compagnia Venezia-Murano avrebbero difatti riprodotto tutta la componente decorativa in vetro40. “Lo si
può guardare quanto si vuole”, riporta un cronista dell’epoca, “e il metallo è metallo, non c’è che dire! Eppure, il metallo qui non è che un ingannatore dalle false apparenze. Venne trasformato in vetro. Come? Sicuro e, toccando, presto lo si vede! […] Il bronzo, gli smalti, le borchie e ogni altra decorazione formano un insieme ricco di tanta verità, bello per tanta armonia, che siete, volere o non volere, obbligati a piegarvi e a credere, quand’anche uno dei
35
Esposizione Industriale Italiana, cit., 1881, p. 253; si veda inoltre l’Appendice documentaria. 36 Cfr. Esposizione Industriale Italiana, cit., 1881, p. 253.
37 Ω, Vetraria. La Compagnia Venezia-Murano, in L’Esposizione Italiana del 1881, cit., 1881, pp. 154-156. 38 Sulla Compagnia Venezia-Murano si vedano BAROVIER MENTASTI, 1978; MARACHIER, 1982, pp. 11- 14; LEIFKES, 1994, p. 287; BOVA, 1997, p. 30; ID., 2008, p. 150; si rimanda inoltre al capitolo sull’Esposizione di Belle Arti del 1880.
39 Per lo scrigno si veda B. DRAKE BOEHM, M. PASTOUREAU, 124. Coffret de saint Louis, in L’Œuvre de
Limoges. Emaux limousins du Moyen Age, cat. della mostra, Paris 1995, pp. 360-363.
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vostri migliori sensi, la vista, continui a protestare, evidentemente senza ragione”41.
L’obbiettivo era ingannare l’occhio del visitatore grazie al virtuosismo raggiunto dalle maestranze della ditta, stupendo il pubblico per le capacità mimetiche sfoggiate. Inoltre il riferimento ad un modello celebre come lo scrigno di San Luigi sembra indicare la volontà di porsi a confronto con l’opera originale, riuscendo ad eguagliare l’abilità degli artieri limosini se non a superarli, ottenendo il medesimo effetto con una tecnica diversa. Tale ipotesi trova conferma nella segnalazione, da parte della ditta espositrice, dell’opera di riferimento; secondo l’articolo sopracitato, il cofanetto era difatti corredato da una didascalia che ne segnalava la provenienza: “Cofano di S. Luigi riprodotto dal Museo del Louvre”42.
Sicuramente era presente anche una finalità didattica, ma non mancava l’intento auto- celebrativo per la proprie capacità, esplicate dall’opera esposta.
L’incisione de L’Esposizione Italiana del 1881 che illustra parte degli oggetti presentati dalla Compagnia Venezia-Murano comprende anche alcuni vetri, eseguiti negli stili storici. Si è individuato in particolare, sul lato destro dell’immagine, vicino allo scrigno di San Luigi, un calice dalla forma particolare, che presenta, a differenza degli altri oggetti simili, una ricca decorazione. Una possibile direzione di ricerca è costituita dall’articolo su L’Esposizione
Italiana del 1881, che, parlando delle opere esposte dalla ditta, cita un “bicchiere della
Regina”, evidentemente acquistato da Margherita di Savoia43. Si tratterebbe della copia, “per
la forma e per la montatura”, di un calice proveniente dal tesoro di San Marco a Venezia; la riproduzione sarebbe così fedele che avrebbero perfino utilizzato delle gemme antiche nella decorazione.
Effettivamente il calice dell’incisione sembra riprendere da vicino un lavoro in agata, conservato presso il tesoro di San Marco, databile al X-XI secolo (Tav. 11)44. Le due opere
presentano numerosi punti di contatto: la forma del piede e la sua decorazione, il nodo schiacciato e liscio, la montatura in argento che percorre in verticale la coppa, nonché la forma di questa. Sono presenti altri pezzi assimilabili per aspetto e decorazione, ma a mio giudizio è con questa coppa che l’opera ottocentesca presenta più elementi in comune; ovviamente bisogna presupporre che la riproduzione del periodico sia veritiera, e che l’incisore non abbia fornito dell’oggetto una sua interpretazione. Lo scrigno di San Luigi era
41
Ω, 1881, p. 155. 42 Ω, 1881, p. 155. 43 Cfr. Ω, 1881, p. 155.
44 Per l’opera in questione si rimanda a A. GRABAR, Opere bizantine, in H. R. HAHNLOSER, Il tesoro di San
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riproposto in maniera alquanto fedele, lo stesso dovrebbe quindi potersi affermare per il calice in questione.
Come detto in precedenza, fu acquistato dalla Regina Margherita nel corso dell’esposizione; purtroppo gli elenchi degli acquisti dei sovrani non riportano alcuna informazione in merito, al momento si ignora quindi la sua attuale ubicazione.
La riproduzione di opere veneziane comprende anche una croce in vetro, in stile neomedievale. Nell’articolo sulla Compagnia Venezia-Murano de L’Esposizione Italiana del
1881 è citata difatti, “fra i lampadari e i lampioni mirabilissimi”, una copia della croce di San
Marco, eseguita in metallo e vetro rosso45. Essa è visibile anche nell’incisione presente nel
periodico, nella parte destra dell’immagine: sebbene sia rappresentata solo in parte, e secondo una prospettiva quantomeno arbitraria, è sufficientemente simile al modello da permetterne il riconoscimento (Tav. 12). Purtroppo non esiste alcuno studio in proposito, l’opera non è ancora stata schedata ed è scarsamente citata nelle pubblicazioni dedicate all’oreficeria veneta. L’unico riferimento rinvenuto è in Venezia e dintorni, la guida del Touring Club dedicata alla città: descrivendo la basilica di San Marco, l’autore segnala che “nel mezzo della navata mediana pende dal soffitto un enorme lampadario a doppia croce greca, ricchissima opera d’oreficeria bizantina”46.
La croce della Compagnia Venezia-Murano sembra differenziarsi in parte dal modello: nell’incisione appare difatti decorata da una serie di ganci terminanti con delle specie di borchie, che l’originale non possiede: secondo le fonti dell’epoca si tratterebbe in realtà di “novantasei orcioletti di vetro per lumi”, realizzati in vetro rosso come il resto dell’opera47.
D’altronde essa è citata dall’autore dell’articolo tra i lampadari esposti dalla suddetta ditta, ed anche la croce di San Marco era in origine utilizzata come candeliere, anche se la versione ottocentesca sembra leggermente diversa dall’originale. In realtà l’immagine de L’Esposizione
Italiana del 1881 non è chiaramente leggibile, come accennato in precedenza i bracci della
croce non sembrano ortogonali tra loro; inoltre, secondo la descrizione contenuta nell’articolo, i suddetti “orcioletti” dovevano trovarsi lungo i lati, mentre nell’incisione essi sono presenti su buona parte della superficie dell’opera. Risulta quindi difficile capire quanto fedelmente la Compagnia Venezia-Murano abbia imitato la croce di San Marco, risulta tuttavia interessante l’idea della ditta di riproporre un oggetto di area veneziana – come già il calice del tesoro di San Marco – adattandolo alle sue esigenze di produzione. L’opera viene difatti copiata per
45 Cfr. Ω, 1881, p. 155; si veda inoltre l’Appendice documentaria. 46 Cfr. Venezia e dintorni, Milano 1969, p. 87.
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quanto riguarda il suo aspetto, in modo da agevolarne l’identificazione, ma è eseguita con tecniche e materiali diversi, ottenendo risultati completamente differenti. In questo caso l’utilizzo del vetro “rosso-rubino” doveva probabilmente contribuire a dare all’opera un aspetto maggiormente “bizantino” rispetto all’originale realizzato solo in metallo, accentuando l’idea di magnificenza e sontuosità che si credevano propri di tale stile.
Sarebbe possibile avere un’idea più precisa del risultato che si voleva ottenere se si avessero ulteriori testimonianze figurative dell’opera. Sfortunatamente dopo l’esposizione milanese si perdono completamente le tracce della croce: probabilmente sarà stata acquistata da un privato ed in seguito donata ad una chiesa, o acquisita direttamente da un ente religioso, per essere utilizzata come arredo liturgico.
Nonostante il successo riscosso dalla Compagnia Venezia-Murano, insignita del diploma d’onore e di una medaglia di collaborazione per il suo direttore artistico, non si hanno molte notizie sui pezzi sopracitati48. A parte il calice ispirato a quello del tesoro di San Marco,
presumibilmente entrato a far parte delle collezioni private della regina Margherita, delle altre opere si ignorano le vicende successive all’esposizione, ed anche di esso non si conosce l’attuale ubicazione.
48 Cfr. CORONA, 1885, p. 36-37.
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