LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DEL "MEDICO COMPETENTE" E LA RECENTE EVOLUZIONE
3. Caratteri distintivi della responsabilità medica
Una compiuta disamina della responsabilità del “medico competente”
necessita di una preliminare ed articolata ricostruzione del sistema delineato dalla disciplina vigente in materia di responsabilità medica, oltre che di un'analisi dell'evoluzione interpretativa, recentemente posta in essere dalla giurisprudenza, per la configurazione di detta responsabilità.
La delimitazione dell'ambito della responsabilità medica è stata da molto tempo oggetto di vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale, determinato prevalentemente dalla esigenza di individuare la natura giuridica della responsabilità professionale del sanitario, con riferimento all'identificazione delle modalità attinenti al rapporto intercorrente tra il medico ed il paziente.
Per la comprensione dei problemi riguardanti l'attività medica e, soprattutto, per l'individuazione delle relative soluzioni, appare opportuno effettuare la scelta metodologica della valutazione unitaria del fenomeno, con uno studio multidisciplinare, che implichi approfondimenti di diritto costituzionale, civile, penale e di deontologia professionale.
Del resto, appare corretto ritenere che le regole inerenti all’accertamento della responsabilità medica possano avere un fondamento unico, in quanto, pur potendosi verificare molteplici ipotesi di tale responsabilità, esse sono riconducibili ad unità sotto diversi profili, come ampiamente evidenziato dalla dottrina dominante e dall'evoluzione giurisprudenziale sull'argomento.
Com'è noto, il rapporto tra medico e paziente può essere di natura contrattuale, se tra i due soggetti c’è un accordo per la realizzazione della prestazione professionale, o extracontrattuale, se il rapporto tra il medico ed il paziente si realizza attraverso la mediazione di una struttura, avente natura pubblica o privata.
Identificare la natura giuridica del rapporto intercorrente tra i predetti soggetti, non ha una valenza meramente descrittiva, in quanto la diversa configurazione di tale rapporto determina inevitabili ripercussioni, sia in ordine alla disciplina giuridica applicabile al caso di specie, che per la diversa decorrenza del termine prescrizionale e per il diverso regime dell’onere della prova.
A tal proposito, si osserva che le soluzioni ermeneutiche ed operative sul tema in esame sono state condizionate da un diritto di creazione giurisprudenziale in continua evoluzione, che ha rivelato la sua massima espressione con la sentenza della Corte di Cassazione n. 589/1999, la quale ha offerto sull'argomento un riferimento interpretativo chiaro sul piano teorico ed estremamente efficace sul piano applicativo.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha qualificato la natura giuridica della responsabilità professionale del medico quale “responsabilità da contatto”, ritenendola qualificata da un comportamento socialmente tipizzato, che assume rilevanza giuridica anche in mancanza di espressa dichiarazione di volontà.
In tale sentenza, con un articolato e condivisibile percorso motivazionale, è stato evidenziato che l'obbligazione del medico nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto ma sul "contatto sociale", ha comunque natura contrattuale, ed è derivante da un'"obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", ossia da rapporto contrattuale di fatto.
Infatti, recependo la tesi della più recente ed autorevole dottrina (Castronovo, L'obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995), è stato rilevato che l'art. 1173 c.c., secondo il quale le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di
inserire tra le fonti anche un principio di rango costituzionale, tra cui può annoverarsi il diritto alla salute, che trascende le singole proposizioni legislative.
Inoltre, è stato precisato che tale soluzione possa adottata anche per i rapporti, che nella previsione legale sono di origine contrattuale, mentre in concreto vengono costituiti senza una base negoziale, talvolta solo con riferimento al semplice
"contatto sociale", inteso come "rapporto contrattuale di fatto".
Ciò detto, poiché il medico è l'operatore di una professione cosiddetta
"protetta", cioè una professione per il cui esercizio è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, e considerato che gli effetti di detta professione incidono sul bene della salute, costituzionalmente protetto (art. 32 Cost), "la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in ogni momento", in quanto "la prestazione…sanitaria del medico nei confronti del paziente non può che essere sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d'opera professionale tra i due", proprio in considerazione della qualifica di "pubblica necessità" dell'attività sanitaria, che non può svolgersi senza una speciale abilitazione dello Stato, da parte di soggetti di cui il "pubblico è obbligato per legge a valersi" (art. 359 c.p.).
A tal proposito, si ritiene che l'assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione per il "medico competente" nei confronti del lavoratore, non è in grado di ridurre qualitativamente l'entità della professionalità richiesta a detto sanitario, che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui.
Inoltre, la pronuncia in esame ha evidenziato un ulteriore aspetto della responsabilità medica, meritevole di approfondimento e riguardante l’identità del fondamento di tale responsabilità, che è di natura contrattuale, come quella attribuibile alla struttura organizzativa in cui si svolge l'attività medica.
E' stato precisato, infatti, che la natura contrattuale di entrambe le responsabilità deriva non “dalla fonte dell’obbligazione" ma dal "contenuto del rapporto” paziente-medico.
Del resto, con la sentenza Cass. 8 gennaio 1999, n. 103, in una fattispecie analoga a quella esaminata dalla precedente pronuncia, la Suprema Corte aveva già precisato che la responsabilità della casa di cura è di natura contrattuale ex art. 1218 c.c., anche nell’ipotesi in cui il medico che ha determinato il danno non sia inserito stabilmente nell’organizzazione aziendale della medesima struttura.
Inoltre, con la sentenza n. 9198/1999 la Suprema Corte ha chiarito ulteriormente gli effetti derivanti dalla natura contrattuale della responsabilità medica, precisando che la responsabilità da inadempimento contrattuale comporta un’obbligazione di risarcimento che copre non solo il danno patrimoniale ma anche il danno biologico e, nell’ipotesi in cui il fatto si configura oggettivamente come reato, anche il danno morale.
L'effetto rilevante e conseguente al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità medica “da contatto”, è, ovviamente, l'applicazione della disciplina riguardante l'inadempimento contrattuale, il relativo regime dell'onere della prova e l'applicazione del termine prescrizionale decennale.
In ogni caso, nella verifica di un eventuale inadempimento contrattuale da parte del medico, va evidenziato che l’obbligazione assunta da quest'ultimo deve considerarsi obbligazione di mezzi e non di risultato, senza alcuna differenza in ordine allo status del sanitario (libero professionista, dipendente ospedaliero, etc.), ma con riferimento alla circostanza che il rapporto intercorrente con il destinatario della sua prestazione professionale è di natura professionale e, come tale, è disciplinato dagli artt. 2229 e seguenti del codice civile.
Ciò detto, è evidente che l'accertamento della peculiare natura della prestazione medica quale “obbligazione di mezzi” comporti rilevanti conseguenze ai fini della verifica dell’avvenuto adempimento dell’obbligazione stessa da parte del sanitario.
Infatti, per il controllo della esigibilità della prestazione (quantum respondeatur) è sufficiente che il sanitario provi di aver impiegato tutti i mezzi necessari indicati dalla diligenza professionale, non essendo indispensabile che garantisca il risultato e cioè la guarigione o, nel caso del "medico competente", l’assoluta certezza dell’eliminazione del rischio lavorativo.
Del resto, come è enunciato nell'art. 1176 c.c., la condotta del medico deve essere improntata innanzitutto alla diligenza specifica del debitore qualificato, in quanto "il richiamo alla diligenza ha la funzione di ricondurre la responsabilità contrattuale alla violazione di obblighi specifici", derivanti da regole disciplinari precise, riguardanti l'attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione (Cass. 11743/98 e Cass. 4852/99).
Infatti, a conferma di questo consolidato orientamento giurisprudenziale, con la recentissima sentenza n. 3492/2002, la Cassazione ha ribadito che il medico,
"nell'adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176 comma 1°, c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall'art. 1176, comma 2°, c.c., la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica".
La conseguenza immediata di tale previsione normativa è riscontrabile nella circostanza che, nel caso in cui la condotta non sia stata adeguata a tale livello medio di comportamento, e cioè qualora il medico non abbia osservato quelle regole precise, acquisite per consolidata sperimentazione alla scienza ed alla pratica, il professionista sarà responsabile per i danni arrecati, anche nel caso di colpa lieve, salva la diminuzione del limite qualitativo della colpa quando il riferimento oggettivo alla natura dell'attività esercitata comporti l'individuazione dell'ipotesi specifica della "particolare difficoltà", di cui all'art. 2236 c.c.(Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705).
Secondo tale norma, nei casi straordinari ed eccezionali, ancora non adeguatamente studiati e sperimentati nella pratica e nei casi per i quali vi sia contrasto tra le varie scuole mediche in relazione ai diversi sistemi diagnostici ed ai possibili metodi terapeutici, è prevista una diversa valutazione dell'imperizia, che assume un significato rilevante solo se manifestata con dolo o colpa grave.
Tale previsione normativa non comporta un'attenuazione della responsabilità, ma contiene una indicazione per l'interprete, al fine di valutare le particolari difficoltà tecniche per l'accertamento della colpa in concreto e non con riferimento al parametro astratto della diligenza ordinaria.
In ogni caso, appare evidente che l'esercizio della professione medica, per la costante evoluzione scientifica in atto, comporti necessariamente, ai fini dell'individuazione del grado di responsabilità, un più variegato metro di valutazione in ordine alle diverse soluzioni sanitarie adottabili, che potrebbero essere di speciale difficoltà per il medico generico, mentre potrebbero non esserlo per lo specialista del particolare settore di intervento.
Inoltre, si osserva che, il grado di diligenza richiesto al medico, per quanto in termini astratti ed oggettivi, va considerato anche in relazione alle circostanze concrete in cui il sanitario ha svolto la propria attività professionale.
Infatti, notevole rilievo deve essere attribuito anche alla valutazione delle dotazioni della struttura sanitaria in cui il professionista ha operato o, nel caso del
"medico competente", alla verifica delle strutture organizzative, messe a disposizione dal datore di lavoro, che assumono una valenza decisiva ai fini
della sussistenza e della identificabilità di una ipotetica responsabilità professionale del sanitario.
In tal caso, dunque, la diligenza di quest'ultimo va valutata in relazione alle potenzialità di dette strutture ed alla capacità del medico di essere in grado di scegliere di effettuare in sede solo gli interventi diagnostici che possono essere ivi effettuati, disponendo lo svolgimento delle indagini mediche sul lavoratore in altra struttura, ove ciò sia tecnicamente possibile, per non esporre quest’ultimo a più gravi inconvenienti (Cass. n.7336/98 e Cass. 589/99).
Ciò detto, per completare l'approfondimento degli elementi necessari ad un corretto accertamento della responsabilità medica, appare opportuno fare un breve cenno al problema relativo alla prova del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l'evento dannoso.
Secondo l’orientamento prevalente in dottrina (Bilancetti, “La responsabilità penale e civile del medico”, Cedam 1998) ed in giurisprudenza (Cass.n.11087/93 e Cass. n 2009/97) devono considerarsi “conseguenza immediata e diretta” della condotta quei danni che non si sarebbero verificati senza quella specifica condotta umana, a condizione che non siano concorsi fattori eccezionali, che siano stati idonei a determinare l’evento dannoso.
Con la sentenza n. 632/2000 la Corte di cassazione ha affrontato nuovamente i complessi problemi interpretativi riguardanti l’accertamento del nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’esecuzione di terapie mediche, con l’enunciazione di affermazioni di principio in ordine all’onere della prova del nesso di causalità, come sopra illustrato.
La motivazione della sentenza rileva che la responsabilità è fondata su una presunzione dichiarata, essendo sufficiente, ai fini della imputazione della predetta responsabilità, la probabilità scientifica e non già la certezza assoluta, in base ai principi di patologia medica e medicina legale, che quella condotta abbia determinato l'evento dannoso.
Del resto, per l'accertamento della responsabilità del medico spesso si è fatto ricorso ad una concezione di causalità flessibile, intesa non più in termini di certezza assoluta, ma di conclusioni probabilistiche, essendo stata considerata sufficiente, per l'affermazione della predetta responsabilità, la dimostrazione di un’evidente probabilità statistica tra evento e condotta (Cass.n.10780/2000, Cass.n.12103/2000, Cass.n.13212/2000 e Cass.n. 4006/2000).
Tuttavia, in una recentissima sentenza la Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n.30328/2002), in tema di reato omissivo improprio e con riguardo alla responsabilità professionale del medico chirurgo, ha precisato che “il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente, infatti, di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria…”, tuttavia “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che…risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.