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Un caso particolare di discriminazione fondata sul sesso: la minigonna in ufficio

2. Le molestie sessuali sul luogo di lavoro

2.1 La definizione di “molestia sessuale” nell’ordinamento internazionale, comunitario e

2.1.1 Un caso particolare di discriminazione fondata sul sesso: la minigonna in ufficio

In mancanza di una disposizione interna che prevedesse una definizione vincolante di molestia sessuale sul luogo di lavoro equiparata a una vera e propria discriminazione fondata sul sesso, la giurisprudenza italiana ha dovuto svolgere un ruolo fondamentale: essa stessa ha infatti dato alla luce un sistema di principi e di tutele effettive alle vittime, permettendo al tempo stesso il consolidarsi di una coscienza giuridica e sociale circa la gravità di tali condotte che, ad un’analisi più approfondita, non sono altro che il riflesso di consolidate asimmetrie di potere.

Merita in tal senso di essere presa in considerazione una decisione della Pretura di Milano concernente un episodio che i giudici stessi definiscono “banale”, ma che, in realtà, è il riflesso di un ambiente di lavoro discriminante e ostile249. Il fatto è alquanto

è il seguente: il dirigente di una società rimprovera una dipendente della stessa per il fatto di indossare una minigonna, e, considerandolo un abbigliamento non consono al luogo di lavoro in quanto idoneo a suscitare i fischi e gli apprezzamenti dei colleghi, la invita a indossare un qualcosa di più coprente, come una “tuta”. Il colloquio si svolge alla presenza di altri due colleghi. La donna considera un tale comportamento lesivo della propria dignità, basato su una vera e propria discriminazione fondata sul sesso, in quanto è lei, vittima di un comportamento molesto da parte dei colleghi, ad essere rimproverata e non loro. I giudici, lamentandosi apertamente dell’arretratezza del sistema di tutele apportato dal nostro ordinamento in quanto, a differenza di quello europeo, non prevedeva l’equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni fondate sul sesso250, le danno ragione: “il datore di lavoro il cui dirigente, piuttosto che

248 Art 38, 1: “qualora vengano poste in essere discriminazioni (…), su ricorso del lavoratore

o per sua delega delle organizzazioni sindacali, associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso, o della consigliera o del consigliere di parità\ provinciale o regionale territorialmente competente, il Tribunale (…) nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.

249 Pret. Milano, 12 gennaio 1995, in Foro it., 1995, I, 1985.

250 Infatti, la giurisprudenza tendeva a riconoscere rilevanza ai comportamenti molesti solo

ove venisse integrato il reato di molestie ex art. 660 c.p.; si richiedeva, pertanto, una “condotta “petulante”, cioè pressante e vessatoria, o rivolta a fini “riprovevoli”, e quindi particolarmente disturbante per la persona offesa, come per la normalità dei soggetti”; nel

censurare quei lavoratori maschi che al passaggio in reparto di una impiegata vestita con minigonna le abbiano indirizzato apprezzamenti con fischi e battute, abbia ripreso la stessa, peraltro senza particolare riservatezza, invitandola ad indossare un abbigliamento più adatto all’ambiente, è tenuto al risarcimento del danno ex art. 2049 c.c., da liquidarsi equitativamente, essendo ad esso implicitamente ricollegabile la condotta per aver affermato, nel difendersi in giudizio, che l’invito ad usare un abbigliamento meno appariscente aveva avuto lo scopo di evitare il protrarsi di turbative sul lavoro da parte degli operai”.

A parte la rilevanza ai fini della presente tesi di quella che è la funzione prettamente preventiva della responsabilità indiretta del datore di lavoro ex art. 2049 c.c., che viene qui quasi trasformata in diretta per aver la società stessa assunto la posizione discriminante del dirigente, confermando nella difesa quanto da lui detto251, le ragioni

della Pretura di censurare come discriminazione fondata sul sesso un tale invito fanno sicuramente riflettere. Infatti, anche i comportamenti all’apparenza più banali possono nascondere, in realtà, una cultura profondamente maschilista252, fondata su

una concezione discriminatoria del ruolo femminile nella società e che determina una lesione pertanto risarcibile, indipendentemente dal fatto che il comportamento sia inidoneo o meno a integrare una fattispecie di reato. È sicuramente un caso che fa sorridere, ma che non è lontano da pratiche tutt’oggi presenti: si pensi solo a quei

vedere la mancanza di tutela, la Corte riconduce il comportamento a una discriminazione fondata sul sesso: “certamente deve attribuirsi ad esso quel carattere di illiceità, che consiste nella lesione di diritti di non discriminazione fondata sul sesso, diritti che trovano tutela generale negli art. 2 e 3 Cost. e specifica nelle leggi che vietano atti discriminatori, in quanto produttivi di effetti pregiudizievoli in danno alle lavoratrici, in ragione del loro sesso (art. 1 l. 903/77 e 4 l. 125/91)”.

251 In tal senso, “quanto alla pure eccepita non riconducibilità della condotta alla datrice di

lavoro, è appena il caso di osservare che tale collegamento è implicitamente riconosciuto dalla stessa società (e dal dirigente) nel momento in cui afferma che l’“invito” ad usare un abbigliamento meno appariscente ha avuto lo scopo di evitare il protrarsi di turbative sul lavoro da parte degli operai del reparto. Il dirigente, quindi, è intervenuto quale preposto (art 2049 c.c.) per ripristinare ordine nell’ambiente di lavoro” e quindi “è tenuto al risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente (…), essendo ad esso implicitamente ricollegabile la condotta per avere affermato, nel difendersi in giudizio, che l'invito ad usare un abbigliamento meno appariscente aveva avuto lo scopo di evitare il protrarsi di turbative sul lavoro da parte degli operai”.

252 Dalle parole dei giudici:“come giustamente rilevato dalla difesa della ricorrente, solo

valutando i fatti in una più ampia configurazione, che tenga conto di come ancora le relazioni sociali non siano improntate ad una effettiva parità ed al rispetto della identità del genere femminile, può comprendersi come un episodio che appare banale ed insignificante, sia al contrario emblematico di valori culturali negativi”.

contratti contenenti clausole aberranti e dal carattere ricattatorio (“clausola del fidanzato”, “divieto di matrimonio” e “obbligo di minigonne”) 253.