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3. L’art 2049 c.c nel nostro ordinamento

3.2 Il fatto illecito del preposto

Il secondo presupposto che deve sussistere affinché il preponente possa essere ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. del fatto illecito del preposto è la commissione di un fatto illecito produttivo di un danno risarcibile. Si tratta di una locuzione particolarmente dibattuta in dottrina, in quanto si discute se sia necessario interpretare il fatto illecito alla luce dell’articolo 2043 c.c. o se sia sufficiente l’antigiuridicità del fatto, quindi senza che il soggetto che si ritiene danneggiato debba provare il dolo o la colpa del danneggiante.

La dottrina maggioritaria72, seguita dalla giurisprudenza73, ritiene necessario che il

fatto illecito sia ascrivibile al preposto almeno a titolo colpa: questo significa che se

App. Venezia, 19 luglio 2016, n.1691, in Redazione Giuffrè 2016: “il principio dell'apparenza del diritto, mediante il quale viene tutelato l'affidamento incolpevole del terzo che abbia contrattato con colui che appariva legittimato ad impegnare altri, trova operatività alla duplice condizione che sussista la buona fede di chi ne invoca l'applicazione e un comportamento almeno colposo di colui che ha dato causa alla situazione di apparenza”; in senso conforme, Trib. Alessandria, 29 giugno 2010, in Red. Giuffrè 2010.

72 Tra gli altri, M. Franzoni, Fatti illeciti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993;

P.G. Monateri, Manuale della responsabilità civile, cit.; M.C. Bianca, La responsabilità, Milano, 1994; Barbero, Criterio di nascita e criteri di propagazione della responsabilità per fatto illecito, in Riv. Dir. Civ. 1960, I, pp. 572 ss.

73 Tra le altre, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 14 novembre 1997, n. 11264, in

Foro it.,1998, I, 2505, che specifica, dopo aver elencato gli altri presupposti per aversi responsabilità ex 2049: “infine, il «fatto illecito» – e, quindi, colpevole – dell’autore immediato del danno: indicazione che per comune opinione va intesa nel senso che il preponente risponde solo del fatto doloso o colposo del preposto. La disposizione in esame infatti consente di attribuire al preponente, senza richiedere il dolo o la colpa di quest’ultimo e per il solo fatto di essersi avvalso del preposto, il fatto illecito da questi commesso; ma ciò non significa che si possa prescindere dalla verifica dell’esistenza dell’elemento psicologico –

viene dichiarato esente da colpa in quanto incapace, per caso fortuito o forza maggiore, nemmeno il preponente potrà essere dichiarato responsabile.

La questione risulta essere essenziale per una serie di ragioni74: in primis, in quanto la

norma in esame espressamente richiede la commissione di un fatto illecito affinché si abbia la responsabilità del preposto; inoltre, in quanto la questione viene a interessare il problema relativo al “raggio di applicazione” della norma stessa: sono risarcibili c.d. danni anonimi, ovvero quei danni che, per le dimensioni dell’organizzazione in cui si vengono a determinare, non possono essere ricondotti a un soggetto individuato? Le ripercussioni si hanno anche sul piano probatorio: per la vittima, dover provare la colpa o il dolo del soggetto può essere particolarmente difficile e questo lederebbe una delle funzioni proprie del 2049 c.c. ovvero quella di garantire un risarcimento; se, invece, è sufficiente l’antigiuridicità del fatto, il preponente non potrà dimostrare che il dipendente ha comunque mantenuto un comportamento non colpevole, quindi non censurabile.

La critica a un’impostazione volta alla ricerca dell’elemento soggettivo emerge soprattutto in relazione alla teoria del rischio d’impresa: se il fondamento della responsabilità del preponente consiste nel semplice fatto che costui con la sua attività ha creato un rischio per la società, allora è sufficiente l’antigiuridicità del fatto per sancirne la responsabilità75, anche perché “una volta che il datore di lavoro risponde senza

colpa propria, il principio della responsabilità per colpa è irrimediabilmente abbandonato, e non vale a salvarlo il richiedere che il danno sia dovuto a una colpa altrui”76.

Un’altra parte della dottrina, nel ritenere il preposto un semplice “strumento”, conclude in tal senso, ovvero nel non ritenere necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al preposto, potendosi equiparare il “cattivo funzionamento dello

doloso o quanto meno colposo – del preposto, considerato che è proprio la colpevolezza che consente di qualificare il fatto dannoso da lui prodotto in termini di illiceità”.

74 In tal senso, F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p. 295.

75 P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 78: “(…) un’interpretazione dell’articolo

2049 c.c. la quale dia un senso oggettivo al termine “fatto illecito” (…) sarebbe più opportuna, per evitare la pratica necessità della deformazione del concetto di colpa e per addossare all’imprenditore la responsabilità di fatti pertinenti al rischio d’impresa, senza dovere necessariamente affermare anche la responsabilità del prestatore di lavoro. (…) la colpa del dipendente non sarebbe presupposto necessario della responsabilità del datore di lavoro, ma sarebbe sufficiente la antigiuridicità del fatto dannoso. L’imprenditore risponderebbe allora anche del danno causato dal dipendente incapace, purché causato in relazione all’esercizio delle incombenze: si tratta (…) di un’interpretazione perfettamente compatibile con il testo della legge, e assai meglio adeguata alla funzione della norma. Tale interpretazione non viene tuttavia adottata a causa della riluttanza ad abbandonare completamente il linguaggio che collega la responsabilità alla colpa”.

strumento-committente” a un semplice difetto di “costruzione o di manutenzione”

77.

Se si ritiene, invece, necessaria l’integrazione del fatto illecito con gli elementi richiesti dall’articolo 2043 c.c., allora il risultato è una “soluzione mista”78: abbiamo una

responsabilità soggettiva, ascrivibile al commesso e una oggettiva propria del preponente. Il problema di una tale impostazione è che si viene a ledere la funzione della norma: la vittima deve dimostrare l’elemento soggettivo in capo al preposto e solo una volta dimostrato si potrà sancire la responsabilità indiretta del preponente. Tuttavia, occorre evidenziare che i cosiddetti “danni anonimi” vengono invece attribuiti al preponente, che quindi ne risponderà anche se non è stato possibile identificare il fautore materiale dell’illecito. In tal senso, la giurisprudenza ha, per esempio, riconosciuto la responsabilità di un’esercente di una mescita di liquori per il fatto di un proprio commesso, che aveva collocato una bottiglia piena di veleno insieme ad altre bottiglie, intossicando così un cliente79. È sicuramente interessante

una sentenza che ha riconosciuto la responsabilità della società anche nel caso di

mobbing senza che fosse stato possibile individuare il soggetto che aveva posto in essere

la condotta80.

Dunque, orientamento preponderante in dottrina e in giurisprudenza è che il fatto illecito dev’essere sorretto dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa del

77 U. Ruffolo, La responsabilità vicaria, cit., pp. 77-79: “cessa così, in tema d’illecito del

committente, ogni autonoma rilevanza dei requisiti soggettivi, i quali, ove chiamati in causa, interverranno come elemento del nesso causale più che della imputabilità: la colpa o il dolo ex art. 2043, che dovessero eventualmente caratterizzare la dinamica del cattivo funzionamento dello strumento-committente, concorrendo alla imputazione causale del danno, si porrebbero, quindi, in posizione non dissimile dal difetto di costruzione o di manutenzione rispetto al guasto meccanico del veicolo (art. 2054, comma 4) od al crollo dell’edificio (art 2053). D’altronde, poiché il “commesso” nell’articolo 2049 viene in rilievo come strumento di attività e non come soggetto di diritto, il fatto che egli sia un uomo, invece che un animale od una cosa, interviene solo a determinare quale tipo di cattivo funzionamento -l’“illecito” - possa alla sua stessa natura essere imputabile, cessando a questo punto ogni ulteriore rilevanza della natura umana dello strumento”.

78 In tal senso Monateri, Manuale della Responsabilità civile, cit., p. 335: “la soluzione italiana al

problema della strict liability si pone, allora, come soluzione mista. Il datore di lavoro non deve internalizzare tutti i costi degli incidenti provocati inevitabilmente dalla sua attività, ma solo quelli derivanti dalla sua incapacità di aver fatto adottare ai suoi ausiliari uno standard di due care, salvo il caso della causa ignota”.

79 Cass. civ., 1952, n. 1951, in Resp. civ. prev., 1953.

80 Cass. civ., 21 novembre 1995, n. 12023, in Giust. civ. Mass.,1995, fasc. 11: “la società

risponde delle conseguenze giuridiche, compreso il risarcimento del danno non patrimoniale, della condotta (…)dei propri dipendenti che configuri un reato e sia stato commesso nell'esercizio delle incombenze cui essi sono adibiti (…), anche nel caso in cui sia rimasta ignota la persona fisica autrice dell'illecito, in difetto di domande, anche di rivalsa, nei confronti di questa; qualora il giudice penale non sia stato investito del fatto-reato, la qualificazione di questo va effettuata incidenter tantum dal giudice civile”.

preposto, indipendentemente dal fatto che ponga in essere una condotta attiva od omissiva. La dottrina sottolinea che la colpa del preposto può essere anche presunta81:

è quello che può determinare la responsabilità dell’amministrazione scolastica nel caso in cui vi sia culpa in vigilando ex art. 2048, 2 dei docenti, che, a ben vedere, sono dipendenti, dunque preposti.

Generalmente, nel caso degli Istituti privati la responsabilità dell’Istituto per il fatto illecito dei propri dipendenti sorge ex art. 2049 c.c.82, mentre per gli Istituti pubblici è

prevista la surroga dell’amministrazione scolastica, dunque una responsabilità diretta della stessa, ex art. 61 Legge 1980. Alla fine, i risultati sono identici, nel senso che il preponente, sia esso l’ente che controlla l’Istituto privato o il Miur, risponderanno del fatto illecito dei propri dipendenti consistente nell’aver violato quel dovere di vigilanza richiesto ex art. 2048, 2. La presunzione di colpa, in particolare, fa si che, mentre il danneggiato ha solo l’onere di dimostrare che il fatto è avvenuto durante l’affidamento, colui che doveva vigilare dovrà provare non solo di non aver potuto impedire il fatto (“caso fortuito”), ma anche di aver posto in essere quelle misure preventive ed organizzative volte ad evitare il prodursi del danno. Solo nel caso in cui si raggiunga tale prova “positiva”, allora l’amministrazione scolastica non risponderà della presunzione di colpa in capo al docente.

In particolare, la giurisprudenza ritiene che in capo al MIUR si possa prospettare una duplice responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c.: “una responsabilità contrattuale ex art.

1218 c.c. se la domanda è fondata sull’inadempimento all’obbligo specificatamente assunto di vigilare; b) una responsabilità extracontrattuale per fatti imputabili ai propri dipendenti, se la domanda è fondata sulla violazione del generale dovere di non recare danno ad altri che può attenere da un lato all’omissione rispetto all’obbligo di vigilanza sugli alunni minori, ex artt. 2047 e 2048 c.c. e, dall’altro, all’omissione rispetto agli obblighi organizzativi, di controllo e di custodia, ex artt. 2043 e 2051” 83. In tal senso, le regole probatorie non cambiano: il soggetto che si ritiene

danneggiato dovrà solo dimostrare che l’evento si è verificato mentre era sotto la vigilanza del danneggiante, ovvero del docente, mentre a quest’ultimo spetterà l’obbligo di dimostrare di aver adottato quelle misure preventive idonee a impedire il verificarsi dell’evento.

Nel caso di molestie sessuali, invece, l’impostazione accolta dalla giurisprudenza è nel senso di considerare solo “l’effetto” della molestia, quale comportamento indesiderato da parte del soggetto che lo riceve, non rilevando la consapevolezza

81 F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p. 307.

82 In tal senso, Cass. civ., 18 luglio 2003, n.11241, in Rep. Foro it., 2003, voce Responsabilità

civile, n. 225; nella specie, siccome le insegnanti non avevano provato il “caso fortuito” in relazione a un alunno che era stato ferito dal lancio di un sasso da parte di un compagno di classe, la Corte ribadisce: “dalla ravvisata responsabilità ex art. 2048, comma 2, delle due insegnanti, per omessa vigilanza nel corso dell'adempimento delle loro mansioni, consegue infatti necessariamente quella dell'Istituto con il quale intrattenevano il rapporto di lavoro. Responsabilità che trae fondamento dalla rigorosa previsione dell'art. 2049, che non ammette prova liberatoria da parte del datore di lavoro, sul quale grava il rischio di impresa”.

dell’autore di aver posto in essere un comportamento molesto. I rischi di una tale impostazione si possono verificare nel caso di “ipersensibilità” della vittima o nei casi limite: quand’è che un comportamento scherzoso può essere definito molestia? Per la giurisprudenza, comunque, non ha alcun rilievo giuridico il fatto che il soggetto non si sia reso conto della lesività del proprio comportamento, ma semplicemente viene preso in considerazione il punto di vista soggettivo della vittima che l’ha percepito in quanto tale84. In merito a tali fattispecie anche penalmente rilevanti sorgerà quindi il

problema di stabilire se il comportamento doloso del preposto possa determinare una responsabilità ex art. 2049 c.c. in capo al preponente. In generale, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il dolo del preposto non venga a ledere quello che è il cosiddetto nesso di “occasionalità necessaria” che deve sussistere tra le mansioni esercitate e il fatto illecito, a meno che non si venga porre quale “azione privata”, come sarà esaminato in seguito trattando del terzo presupposto.

Un ultimo cenno merita la responsabilità del preponente nel caso di fatto illecito da parte di un incapace, ove viene in luce un’altra “apertura” giurisprudenziale che sembra ritenere sufficiente la mera antigiuridicità del fatto. In tal senso, si ritiene configurabile in capo al datore una responsabilità per culpa in eligendo, qualora abbia assunto il preposto pur essendo quest’ultimo incapace di intendere e di volere; per

culpa in vigilando, invece, se ha omesso il controllo successivo85.

La “scelta mista”, consistente in una responsabilità per colpa in capo al preposto e una responsabilità oggettiva in capo al preponente, impone, inoltre, un’ulteriore osservazione: in giurisprudenza è consolidato l’orientamento alla luce del quale preponente e preposto rispondono in solido ex art. 2055 c.c. del fatto dannoso e che quindi il preponente, che abbia risarcito il danno, possa esercitare l’azione di regresso anche per l’intero nei confronti del preposto86. Infatti, si è concordi nel ritenere che

84 Nella giurisprudenza di merito si veda, tra le altre, Trib. Torino sez. lav., 19 dicembre 2011,

n. 3270, in Redazione Giuffrè 2011: “L'art. 26 del Codice delle Pari Opportunità, come modificato dal D. lgs. 5/2010, prevede che gli elementi costitutivi della molestia di genere siano rappresentati dal verificarsi di un comportamento indesiderato e correlato al sesso, nonché dalla finalizzazione della condotta alla violazione della dignità della lavoratrice. In questo quadro, resta del tutto irrilevante l'elemento soggettivo in capo all'autore della molestia. Può quindi concretizzarsi la fattispecie della molestia anche se l'autore della condotta non abbia intenzioni moleste ovvero offensive, poiché ciò che rileva è la circostanza che la condotta posta in essere sia indesiderata ed idonea a ledere la dignità della vittima”.

85 In tal senso, F. Galgano, Trattato di diritto civile, Volume 3, Milano, 2010, p. 193, nota 12, cita

Cass. civ., 12 novembre 1979, n. 5851, in Giust. civ., 1979, I., p. 2582: “ha invece affermato la responsabilità del datore di lavoro per il fatto illecito del dipendente incapace, argomentando che la responsabilità ex art. 2049 c.c. si basa sulla culpa in vigilando del preponente. Ma è pura finzione: se il dipendente commette il fatto dannoso perché colto da improvvisa follia, nulla può sorreggere una presunzione di culpa in vigilando del datore di lavoro. Del danno cagionato dal folle, che non sia affidato all’altrui sorveglianza (art. 2047 c.c.), nessuno risponde”.

86 Tra le altre, Cass. civ., 19 ottobre 1961, n. 2231, in Resp. civ. prev, 1962, p.175; Cass. 23

la diversità di titoli non incida sul fatto che in realtà sussista un unico fatto dannoso, per esempio, nel caso di specie, un comportamento ascrivibile a una molestia sessuale o una violazione del dovere di vigilanza in capo al docente. Il fatto che sia previsto un regime di responsabilità solidale è sicuramente fondamentale, in quanto consente una piena realizzazione della funzione risarcitoria dell’articolo 2049 c.c., permettendo al danneggiato di poter agire su due patrimoni, quello del preponente e quello del preposto, e della funzione di prevenzione, in quanto rende comunque responsabile un soggetto che poteva gestire le condizioni di rischio. Nella pratica, tuttavia, l’azione di regresso nei confronti del preposto non viene quasi mai esercitata, essenzialmente per insolvibilità dello stesso. Nei casi di dipendenti pubblici, nei casi di bullismo quindi nei confronti del personale docente, la Corte dei Conti applica, nei giudizi di rivalsa, il limite del dolo o della colpa grave, ovvero nei casi di responsabilità per culpa in

vigilando, l’insegnante può essere oggetto di rivalsa solo ove la condotta sia stata

caratterizzata da dolo o colpa grave, non rilevando, invece, la colpa lieve.

Come sottolinea la dottrina87, l’azione di regresso evidenzierebbe, in realtà, una “falla”

nella teoria del rischio d’impresa. Se alla luce di questa il preponente è colui che si accolla i rischi e quindi subisce i costi relativi, come potrebbe rifarsi sul preposto riuscendo al tempo stesso a conservare il profitto? In realtà, nella pratica molto spesso il preponente si trova con le “mani legate”, dovendo rinunciare alla rivalsa in quanto ignoto il soggetto, in quanto insolvibile, in quanto eventuali contratti assicurativi negano la garanzia per certi tipi di illecito da parte dei terzi88.

Nella colpa grave o nel caso di dolo, invece, nulla esclude che possa rivalersi anche per esercitare una funzione preventiva di efficacia particolare, in quanto induce il datore di lavoro a “una buona scelta e una attenta sorveglianza, e infine perché questi, colpito nel

patrimonio, può applicare una sanzione, quella del licenziamento, che è veramente efficace, laddove alla minaccia della responsabilità civile il lavoratore è spesso insensibile a causa della propria insolvenza”89. Si tratta di un elemento che ha trovato applicazione sia in casi di bullismo

sia in casi di molestie sessuali.

In un caso di bullismo recente, il MIUR ha agito in rivalsa contro un’insegnante che era rimasta inerte davanti alle continue vessazioni e agli insulti che si stavano

87 F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p. 343.

88 In tali termini si esprime P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 77: “tuttavia,

anche se l’azione diretta del danneggiato contro il preposto, o il regresso del preponente contro il preposto, sono considerati oggi, in linea di diritto, sempre possibili, sia l’una che l’altro non vengono quasi mai praticamente esercitati. Il danneggiato preferisce rivolgersi direttamente contro l’imprenditore, che dà maggiori garanzie di solvibilità, e questi normalmente non esercita l’azione di regresso contro il prestatore di lavoro, non solo a causa della frequente insolvenza di quest’ultimo, ma anche perché gli imprenditori sono i primi a comprendere l’inevitabilità e la scusabilità di certe “colpe di servizio” (...). Gli imprenditori considerano tali danni come elemento del rischio necessariamente collegato con l’esercizio dell’impresa e coprono il rischio mediante contratti di assicurazione che normalmente escludono il regresso dell’assicuratore contro il prestatore di lavoro”.

verificando in classe, davanti ai suoi stessi occhi, nei confronti di un ragazzo disabile. Successivamente, i video delle aggressioni erano finiti in rete, causando un danno ancora maggiore allo studente90.

In materia di molestie sessuali nel pubblico impiego, merita a sua volta un cenno una sentenza particolarmente recente nella quale i giudici ribadiscono da un lato la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. per non aver provveduto a rimuovere il fatto lesivo, dall’altro il diritto dello stesso a rivalersi contrattualmente nei confronti del dipendente con un’azione di manleva 91. In particolare, la lavoratrice aveva subito, nel

corso del rapporto lavorativo, una serie di comportamenti vessatori da parte di colleghi e superiori ascrivibili alla fattispecie di mobbing; inoltre, aveva subito una molestia sessuale da parte dell’autista del sindaco. In relazione a tale episodio, la donna aveva sporto denuncia “senza che però che l’Amministrazione si fosse attivata per perseguire

disciplinarmente il dipendente e per prevenire il compimento di ulteriori condotte dello stesso carattere”.

Pertanto, il Tribunale aveva dichiarato la responsabilità del Comune ex art. 2087 c.c. con obbligo di rifondere i danni alla lavoratrice. Successivamente, il Comune aveva chiamato il dipendente in “manleva” e la Corte d’Appello, accogliendo la domanda, aveva condannato l’aggressore a rifondere al Comune il 60% delle somme già versate