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3. L’art 2049 c.c nel nostro ordinamento

3.1 Il rapporto di preposizione

Il primo presupposto da verificare affinché possa instaurarsi la responsabilità ex art. 2049 c.c. in capo al preponente è l’esistenza di un rapporto di preposizione tra i due soggetti, da un lato i “padroni e committenti” e dall’altro i “domestici e commessi”. Come sottolineato dalla dottrina in merito60, l’arcaicità dei termini utilizzati non deve trarre

in inganno, non essendo riferibile a una mera economia preindustriale. In realtà, un criterio indefinito ha permesso alla giurisprudenza di ricomprendere, in senso estremamente ampio ed evolutivo, anche le nuove forme d’impiego raramente inquadrabili nel binomio lavoro subordinato-contratto indeterminato.

seguenti presupposti: il rapporto di preposizione tra responsabile e autore del danno, il fatto illecito del dipendente ed il nesso di occasionalità necessaria tra le mansioni svolte e l’evento dannoso verificatosi”.

59 Tra gli altri, R. Mazzon, La responsabilità civile. Responsabilità oggettiva e semioggettiva, in P.

Cendon (a cura di), Il diritto italiano nella giurisprudenza, Torino, 2012, p. 524: “in tema di responsabilità civile derivante da fatto illecito, la norma dell’articolo 2049 c.c., che pone a carico dei padroni e dei committenti la responsabilità per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi, nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti, trova applicazione limitatamente al danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito del domestico o commesso (è cioè una fattispecie di responsabilità prevista a favore di terzi, una norma che opera verso l’esterno, non operando, invece, nel rapporto interno tra committente e preposto nel caso di danno provocato all’uno e/o all’altro (Cass. civ., 22 marzo 2011, n. 6528, GCM, 2011)”.

60 F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., pp. 54 ss.; S. Pellegatta, La responsabilità dei padroni e dei

La dottrina ha quindi fatto ricorso a diversi criteri, quali, tra gli altri, quello del “controllo”61, dell’“utilizzazione strumentale”62. La giurisprudenza, come anticipato,

ha inteso tale concetto in termini estremamente ampi: pur individuando quale “nucleo fondamentale” il rapporto che si instaura tra imprenditore e lavoratore dipendente, ovvero il lavoro subordinato per eccellenza, la stessa si è servita di tale concetto per andare oltre tali “limiti”, individuando rapporti di preposizione anche al di fuori dell’ambito d’impresa e considerando quali rilevanti anche altri rapporti, anche non contrattuali e non limitati al lavoro subordinato.

Il criterio, dunque, al quale la giurisprudenza tende a ricorrere è quello della sussistenza di una sorta di dipendenza intesa quale “sottoposizione di un soggetto alle

direttive di un altro (il preponente) che si appropria dei benefici o più in generale dell’utilità dell’operato del suo preposto” 63, quindi un’esplicazione da parte di un soggetto di

un’attività per conto di un altro soggetto della cui opera quest’ultimo si serve64. In

61 Si trattava di un criterio che era connesso con il potere del datore di lavoro di impartire

ordini e istruzioni e quindi solo ove egli aveva il diritto di controllare il modo in cui veniva compiuto il lavoro, allora poteva dirsi sussistente la responsabilità. Si tratta di un criterio criticato, soprattutto da P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., pp. 83 ss., in quanto in primis fortemente ancorato a una concezione di presunzione assoluta di colpa nella sorveglianza e, in secondo luogo, in quanto un tale potere di controllo non sussisterebbe in relazione a chi compie un “lavoro di carattere professionale o altamente tecnico”, per esempio nel caso di chirurghi o ingegneri altamente professionalizzati.

62 In tal senso si esprime U. Ruffolo, La responsabilità vicaria, cit., pp. 89-90; secondo questo

autore, il rapporto di preposizione si ha solo in presenza di altrui utilizzazione strumentale, ovvero solo “ove il fare agire altri per sé giunga a far ravvisare nel preposto una mera longa manus, o, più esattamente, una propaggine strumentale dell’attività”. Particolarmente oggettiva, la sua tesi prevede tra i criteri quello della “cessione delle energie o di locazione del proprio corpo”, specificando che, se non si accetta l’equiparazione uomo-strumento “comunque si configuri, infatti, il lavoro subordinato, i rapporti fra tale fenomeno e quello costituito dalla utilizzazione strumentale non mutano, dovendosi appunto individuare in quest’ultima ogni ipotesi di potere giuridico in ordine all’utilizzazione di quel particolare tipo d’altrui attività latamente definibile “lavoro” e caratterizzata da subordinazione tale da presentarsi come compatibile, anche se non coincidente, rispetto allo schema del “lavoro subordinato”. Essendo la categoria del lavoro subordinato troppo ampia, è essenziale, in ogni caso, “l’obbligarsi a compiere un’attività definibile come “lavoro”, quindi suscettibile di valutazione economica, eventualmente anche episodica, prestata con un certo grado di subordinazione”. Come esempio di autonomia, dunque di “autorganizzazione” l’autore riporta le professioni intellettuali, mentre in relazione al concetto di subordinazione, inteso quale “oggetto di altrui utilizzazione, riporta le professioni manuali.

63 In tal senso, F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p.188.

64 In termini analoghi, G. Alpa, M. Bessone, La responsabilità civile, cit., p.338: “occorre

sottolineare che non si ritiene necessario che il rapporto di lavoro del preposto presenti i caratteri della stabilità e della continuità: l’imprenditore è ritenuto responsabile anche del fatto illecito commesso da dipendenti che solo temporaneamente ed occasionalmente facciano parte dell’organizzazione aziendale, purché essi abbiano agito su richiesta, per conto e sotto la vigilanza dello stesso imprenditore”.

generale, il criterio che viene preferito è l’inserimento anche solo temporaneamente od occasionalmente dell’agente all’interno dell’organizzazione economica predisposta dal preponente, anche alla luce di un mero “rapporto effettuale” 65, non oneroso, e

anche nel caso in cui vi sia solo l’“astratta” possibilità di esercitare un potere di supremazia o di direzione66.

Il riferimento a un concetto di “rischio” risponde pienamente alla funzione attribuita all’articolo 2049 c.c., di allocazione dei rischi, quindi di deterrence e compensation: il soggetto che, nell’espletamento della propria attività si avvale dell’opera di terzi “assume il rischio connaturato alla loro utilizzazione e, pertanto, risponde anche dei fatti dolosi o

colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze” 67, anche se l’intervento è stato

“volontario”68. Altre volte la giurisprudenza ricorre al criterio del cuius commoda eius

65 Tra le altre, Cass. civ., 9 agosto 1991, n. 8668, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 8, Cass. civ.,

15 giugno 2016, n. 12283, in Rep. Foro it., 2016, voce Responsabilità civile, n. 162; nella giurisprudenza di legittimità, Trib. Roma, 11 gennaio 2018, n. 613, in Leggi d’Italia (nella specie, è stata riconosciuta la responsabilità del MIUR nel caso di molestie sessuali subite da uno studente ad opera di un insegnante di sostegno scelto da un Ente esterno in quanto comunque agiva per e sotto la vigilanza del primo).

66 Tra le altre, Cass. civ., 9 agosto 1991, n. 8668, in Giust. Civ. Mass., 1991, fasc. 8; Cass. civ.,

24 maggio 1998, n. 3616, in Giur. merito, 2006, 9, 1932.

67 Il riferimento alla teoria del “rischio” si vede espressamente da una serie di decisioni; nella

giurisprudenza di legittimità, tra le altre, Cass. civ., 12 ottobre 2018, n. 25373, in Rep. Foro it., 2018, voce Responsabilità civile, n. 126: “in tema di responsabilità dei padroni e dei committenti (…) il soggetto che, nell'espletamento della propria attività, si avvale dell'opera di terzi assume il rischio connaturato alla loro utilizzazione e, pertanto, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze (nella specie, la S.C. ha ritenuto inidoneo ad escludere la responsabilità del custode della linea elettrica per la folgorazione occorsa ad un proprio dipendente durante un intervento di riparazione, il fatto che il materiale - cd. "cavallotto" - all'origine del sinistro fosse stato dimenticato sulla linea elettrica da un appaltatore dello stesso custode).

68 In tal senso, Cass. civ., 9 novembre 2005, n. 21685, in Foro it., 2006, I, 1454; nella specie,

un impianto di risalita è stato ritenuto responsabile del danno causato da un volontario del servizio di soccorso a una sciatrice; in particolare si legge: “la circostanza che i soggetti i quali svolgevano nell’interesse dell’impresa il servizio nei confronti degli infortunati fossero dei volontari non esclude la responsabilità dell’imprenditore (…), essendo irrilevante il titolo in base al quale gli stessi agivano per conto e nell’interesse dell’imprenditore e rilevando, diversamente,(…),la circostanza dell’inserzione nell’organizzazione aziendale” (va premesso che la predisposizione di un servizio di soccorso risultava essere comunque un obbligo per l’imprenditore, imposto dalla Disciplina delle linee funiviarie, per la quale si era servito di un ente di volontariato; di conseguenza l’agente “svolgeva un esercizio di assistenza per conto della medesima società, sulla quale incombeva pertanto l’obbligo di organizzare l’impresa in modo da assicurare il servizio stesso nel rispetto delle specifiche disposizioni regolamentari contemplate in materia e ricadeva, pertanto, il derivante obbligo di vigilanza e la responsabilità per l’operato dell’addetto, ancorché espletato a titolo di volontariato”).

incommoda, inteso quale espressione del “rischio” che il soggetto si è appunto assunto

nello svolgimento della propria attività69.

L’unico rapporto che verrebbe escluso è quello nel quale il soggetto agisce con “autonomia”70, intesa quale autonomia decisionale, di organizzazione di persone, di

mezzi, di rischio d’impresa, ovvero i rapporti di mera “cortesia”. Inoltre, anche la mera “apparenza” e quindi l’affidamento che si instaura nei terzi circa la sussistenza del rapporto viene tenuta in considerazione per stabilire la responsabilità del preposto, qualora sussistano due condizioni, ovvero la buona fede del terzo e un comportamento almeno colposo del soggetto che ha fatto sorgere la situazione di affidamento71.

69 Cass. civ., 6 giugno 2014, n. 12833, in Giustizia Civile Massimario, 2014: “la responsabilità

che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa invero sul principio cuius commoda et incommoda, o, più precisamente, dell’appropriazione o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino” (nella specie, la S.C. ha ritenuto il Comune direttamente responsabile in quanto l’evento dannoso, ovvero il ferimento di una bambina, era da ascriversi alla condotta colposa del terzo prestatore (vigilatrice) della cui attività si è comunque avvalso per l’adempimento delle prestazioni ricreative oggetto del contratto stipulato con i genitori del minore); in senso conforme, Cass., 12 ottobre 2018, n. 25373, in Rep. Foro it, 2018, voce Responsabilità civile, n. 126.

70 In tal senso si fa riferimento all’appalto, ex art. 1655 c.c.: “l’appalto è il contratto con il

quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”. La giurisprudenza ritiene comunque rilevante l’articolo 2049 c.c. quando viene meno il carattere di indipendenza e autonomia propria dell’appaltatore, quindi quando le direttive dell’appaltante sono talmente vincolanti da non lasciargli alcuna autonomia (è il cosiddetto “nudus minister”; tra le altre, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 14 maggio 2018, n. 11671, in Rep. Foro it., 2018, voce Appalto, n. 12) o quando sussiste una culpa in eligendo, concretatasi nella scelta di un soggetto non idoneo (in tal senso, Cass. 23 aprile 2008, n.10588, in Giust. civ. Mass. 2008, 4, 624, Cass. civ., 21 giugno 2004, n. 11478, in Giust. civ. Mass. 2004, 6; Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7273, in Mass. Giust. civ., 2003, 5). Invece, la culpa in eligendo viene ricostruita ex art. 2043 c.c. in Cons. di Stato 28 ottobre 2010, n.7635, in Foro amm. CDS 2010, 10, 2210, secondo il quale: “la responsabilità del committente per danni derivati a terzi dall'appalto non si basa soltanto sull'art. 2049 c.c., secondo cui la particolare autonomia contrattuale di cui gode l'appaltatore esclude la possibilità di configurare in genere l'esistenza di un rapporto di preposizione che giustificherebbe la responsabilità del committente stesso (…), ma si basa, in talune ipotesi, come appunto quella in esame, sulla clausola generale dell'art. 2043 c.c. e cioè sulla c.d. colpa "in eligendo", potendo il committente essere eccezionalmente corresponsabile in via diretta con l'appaltatore per i danni derivati a terzi dall'esecuzione dell'appalto”).

71 Tra le altre, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 19 dicembre 1995, n. 12945, in

Danno e Resp., 1996, 522, che specifica che il convincimento del terzo deve essere “giustificato da un comportamento ispirato alla normale prudenza e non rimesso alla mera apparenza”; Cass. civ., 26 maggio 2011, n.11590, in Redazione Giuffrè 2011; nella giurisprudenza di merito,

L’allargamento effettuato dalla giurisprudenza, nel senso di andare “al di là” della teoria del rischio d’impresa, che si adatta essenzialmente ove vi sia espletamento di attività economica e una continuità organizzativa, ha permesso di riconoscere la responsabilità ex art. 2049 c.c. in ambiti ove si possono sicuramente verificare molestie sessuali e bullismo e che non rispondono essenzialmente al criterio del “rischio- profitto”. In questo senso, come vedremo, è stata riconosciuta la responsabilità ex art. 2049 c.c. nei casi di abusi commessi all’interno degli enti ospedalieri da parte dei medici o degli infermieri; in capo alla Diocesi e alla Parrocchia per abusi commessi a danno di minori da parte di un prete alla luce di un rapporto di preposizione risultante dalle stesse norme canoniche e alla luce di un oggettivo nesso di “occasionalità necessaria”; per il fatto illecito degli insegnanti, quindi sia nel caso di violazione del dovere di vigilanza, che rileva nel caso di bullismo, sia nel caso di danno agli alunni stessi.