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3. L’art 2049 c.c nel nostro ordinamento

3.3 Il nesso di “occasionalità necessaria”

Terzo presupposto necessario affinché possa sussistere la responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c. è che tra le mansioni esercitate e il fatto illecito del preposto sussista quello che viene individuato con la locuzione di nesso di “occasionalità necessaria”. Infatti, è dalla lettera della disposizione stessa che è possibile individuare il limite oltre il quale il preponente non è tenuto a rispondere: i padroni e i committenti sono responsabili non di ogni evento dannoso che viene cagionato dal fatto illecito del preposto, ma solo di quelli che vengono realizzati “nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Si è concordi, infatti, nel ritenere che il preponente non sia tenuto a rispondere di quei fatti illeciti che il preposto abbia compiuto nell’ambito della sua “azione privata”93. Tuttavia, si tratta di un limite

sfumato, in quanto le due sfere confinano e interferiscono: “quali attività rientrano

nell’esercizio delle incombenze? Solo quelle espressamente comandate o anche altre? Può un atto espressamente proibito rientrare nell’esercizio delle incombenze? E un atto doloso? E un atto compiuto per scopi personali estranei all’impresa? E un atto compiuto fuori del luogo e fuori dell’orario di lavoro?”94

A queste domande il testo dell’articolo non fornisce alcuna risposta, quindi è stata essenzialmente la giurisprudenza, coadiuvata dalla dottrina, a fornire un criterio per

92 In senso conforme, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 12 aprile 2011, n. 8306,

in Giust. civ. Mass. 2011, 4, 586: “affinché ricorra la responsabilità della p.a. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e, cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all'amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la p.a.”; in senso conforme, Cass. 30 gennaio 2008, n. 2089, in Foro amm. CDS 2008, 2, I, 365; Cass. 22 maggio 2000, n. 6617, in Giust. civ. Mass. 2000, 1079 (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello che aveva escluso il collegamento con l'attività d'istituto e con i fini istituzionali della p.a., relativamente al comportamento di un agente di P.S. consistente nell'imprudente uso dell'arma in un colloquio del tutto privato).

93 Tra gli altri, F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p. 257 ss.; P.G. Monateri, Manuale della

Responsabilità civile, cit., p. 345; G. Alpa, La responsabilità civile, cit., p. 453.

poter stabilire il limite tra quella condotta che viene ad integrare un’azione privata e un’azione compiuta nell’esercizio delle funzioni. In tal senso, l’orientamento giurisprudenziale conforme in materia ritiene che “ai fini dell'applicabilità della norma di

cui all'art. 2049 c.c., non è richiesto l'accertamento del nesso di causalità tra l'opera dell'ausiliario e l'obbligo del debitore, nonché della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l'autore dell'illecito ed il proprio datore di lavoro e del collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente. È infatti sufficiente (…) un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purché sempre nell'ambito dell'incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro”95.

Si tratta dell’impostazione più corretta alla luce della funzione che svolge la norma in esame: una funzione di garanzia nei confronti della vittima e una funzione confacente con la teoria del “rischio d’impresa”, ovvero spetta al preponente internalizzare tutti i rischi, compresi i danni che il preposto può causare a soggetti terzi all’impresa, assumendosi la responsabilità per la “fallibilità umana” dello stesso preposto.

Possiamo, quindi, esaminare gli elementi: innanzitutto, non viene richiesto un nesso di causalità come quello che si instaura ex art. 40 e 41 cod. pen.96, ma semplicemente

che il fatto abbia “agevolato” o comunque “reso possibile” la realizzazione del fatto illecito. Affinché sussista quindi un rapporto di occasionalità necessaria non è necessario che l’evento dannoso trovi nelle mansioni un’origine diretta, ma è sufficiente che esso sia stato appunto agevolato o reso possibile dalle mansioni

95 Nella giurisprudenza di legittimità, in senso conforme, si vedano, tra le altre, Cass. 24

gennaio 2007, n. 1516, in Giust. civ. Mass. 2007, 1; Cass. 4 giugno 2007, n. 12939, in Giust. civ. Mass. 2007, 6; Cass. 12 aprile 2011, n. 8306; Cass. 22 settembre 2017, n. 22058, in Rep. Foro it.,. 2017, voce Responsabilità civile, n. 130 (nella specie, l’ASL è stato ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. per il fatto illecito del preposto consistente in violenza sessuale a danni di una paziente); Cass. 22 agosto 2007, n. 17836, in Giust. civ. Mass. 2007, 7-8 (in un caso di violenze subite da un militare di leva, in virtù del vincolo di superiorità gerarchica); Cass. civ., 10 ottobre 2014, n. 21408, in Giustizia Civile Massimario 2014 (nel caso di un poliziotto che, coinvolto in una discussione fuori dell'orario di servizio, aveva esploso un colpo d'arma da fuoco); Cass. 4 novembre 2014, n. 23448, in Giustizia Civile Massimario 2014 (agente di un'impresa di assicurazioni ritenuto responsabile dei danni arrecati a terzi dalle condotte illecite del subagente, suo diretto preposto, in ipotesi di condotte riconducibili alle incombenze a quest'ultimo attribuite); Cass. 7 gennaio 2002, n. 89, in Giust. civ. 2003, I, 524.

96 Si tratta della teoria condizionalistica, facente perno sul principio della condicio sine qua non;

sul punto si veda G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale, Parte generale, V edizione, Milano, 2015, pp. 206 ss., alla luce della quale “causa dell’evento è ogni azione che non può essere eliminata mentalmente senza che l’evento concreto venga meno”; due sarebbero le condizioni, F. Farolfi, Rischio e preposizione, cit., p. 261: “la condotta deve da un lato porsi quale antecedente necessario dell’evento, nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto; dall’altro, l’antecedente medesimo non deve essere neutralizzato, sotto il profilo eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto idoneo, di per sé, a determinare l’evento”.

esercitate97. Inoltre, tale nesso sussiste anche qualora il soggetto abbia agito al di là

delle incombenze e delle direttive che gli erano state affidate, anche potendo aver realizzato quindi un illecito penale. L’unico limite è rappresentato dall’ “azione privata”, ovvero quando il fatto viene commesso dal preposto nella sua personale autonomia. Per capire quando si ritiene configurata una tale azione possiamo considerare due esempi spesso riportati dalla dottrina98.

Il primo riguarda il caso di un autista che, richiesto attraverso un’agenzia di viaggi da un cliente, con mansioni quindi di guidatore, aveva ferito seriamente agli occhi il cliente mentre insieme svolgevano attività di pesca durante una sosta99. In tal senso,

l’agenzia non è stata ritenuta responsabile del fatto illecito del preposto, in quanto costui era stato assunto come conducente, mentre la decisione di fermarsi e pescare con il cliente era stato il frutto di una sua azione privata, dunque non riconducibile alle mansioni esercitate. Il secondo caso riguarda, invece, una domestica, che, nello sporgersi dal balcone mentre lavava i vetri, era caduta atterrando su un ignaro passante, al quale aveva cagionato lesioni100. La responsabilità del committente è stata

esclusa in quanto la stessa era caduta non nell’intento di lavare i vetri, ma in quanto si era sporta per comunicare con un conoscente. Viene invece ritenuta sussistere la responsabilità in un altro caso alquanto singolare101: un aiutante chef, nel fare uno

scherzo al cuoco, aveva finito per pugnalare lo stesso a morte con il coltello. Nella specie, l’applicazione letterale della norma aveva infatti individuato il nesso di occasionalità necessaria nel fatto che fossero in cucina e nell’esercizio delle proprie mansioni, quelle di cuochi.

97 Una parte della dottrina ritiene, invece, che in realtà un tale nesso venga a costituire un

criterio ancora più rigido della condicio sine qua non. In tal senso, G. Monateri, Manuale della Responsabilità civile, cit., p. 346: “il datore di lavoro crea una situazione, nell’ambito di tale situazione la condotta del dipendente dà origine all’evento: fuori di queste ipotesi si sarebbe restii ad ammettere l’esistenza di un nesso causale tra ciò che è riconducibile al datore e l’evento produttivo del danno. In questo caso (…) contrariamente alle declamazioni sull’accertamento non rigoroso della causalità, viene invece senz’altro fatto giocare la più rigorosa teoria della causalità intesa come but for test o condicio sine qua non: il datore di lavoro ha posto in essere un antecedente minimo senza il quale l’autore del danno non si sarebbe trovato in quella specifica situazione, di tempo e di luogo, in cui ha recato il danno. Solo comprendendo come, nonostante le declamazioni, la doctrine della occasionalità necessaria sia una versione ultra-rigorosa della teoria del nesso causale, si possono comprendere le difficoltà in cui finisce per dibattersi la giurisprudenza”.

98 Tra gli altri, M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, Artt. 2049-2053, Milano, 2009,

pp. 126 ss.

99 Cass. civ., 11 luglio 1975, n. 2766, in Rep. Foro it., 1975, voce Responsabilità civile, n. 151. 100 Cass. civ., 10 ottobre 1957, n. 3725, in Giur. It Mass. 1957, p. 367.

Un’applicazione alla lettera del nesso di occasionalità necessaria non sembra essere particolarmente apprezzata, soprattutto da parte della dottrina102, che individua limiti

alla responsabilità ex art. 2049 c.c. nel caso di fatto illecito doloso del preposto103. I

limiti che vengono individuati fanno spesso riferimento alle finalità del preponente, ovvero si richiede che la condotta del preposto, pur illecita, abbia comunque cercato di realizzare le finalità del preponente e lo scopo da questo perseguito104. Si tratta di

una posizione spesso utilizzata dalla giurisprudenza in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per fatto illecito dei preposti: il non aver perseguito il “fine istituzionale” dell’ente pubblico di appartenenza spesso induceva a interrompere il rapporto di immedesimazione organica che si instaura ex art. 28 della Costituzione tra lo Stato e i suoi funzionari. Oppure, viene richiesto che la condotta illecita si inserisca comunque nell’insieme delle mansioni che sono attribuite al soggetto. In tal senso, una recente sentenza ha escluso la responsabilità del datore di lavoro in un caso di molestie sessuali in quanto “il datore di lavoro non è responsabile ex art. 2049 c.c. per molestie

sessuali sul luogo di lavoro allorché le circostanze ambientali non consentano di considerare il

102 Tra gli altri, U. Ruffolo, La responsabilità vicaria, cit., p. 163; nel proporre un concetto di

“concausa occasionale” con il quale intende “in conseguenza della circostanza- concausa sine qua non- rappresentata dall’esercizio delle incombenze”, afferma: “il vano tentativo di costringere le tradizionali premesse ad una forzata quanto incompatibile conclusione, si cela nella giurisprudenza francese sotto il ricorso al concetto di “affidamento incolpevole”, mentre presso le nostre corti il medesimo assume le sembianze di assai sorprendente riferimento ad una “occasionalità necessaria”, della quale permangono indeterminate natura e portata; e neppure sommariamente accennato, al di là di una generica (e inaccettabile) dichiarazione di estraneità, risulta uno sviluppo del concetto sul terreno del nesso causale, che pur dovrebbe essere il solo congeniale. Osta, invero, a tale concezione, l’illustrata impossibilità di costruire il nesso occasionale fuori da quello concausale; mentre, come si è in precedenza per altri sguardi sottolineato, deve qui parlarsi di mera occasionalità (riconducibile al concetto di concausa occasionale) e non di occasionalità necessaria”.

103 S. Pellegatta, La responsabilità dei padroni e dei committenti, cit., pp. 216 ss.

104 Tra le altre, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 10 dicembre 1998, n. 12417, in

Giust. civ. Mass. 1998, 2559: “impedisce la configurabilità della responsabilità in esame l’assoluta estraneità della condotta del preposto alle sue mansioni e compiti, quand’anche deviate o distorte, esigendosi in ogni caso almeno la possibilità di ricollegare, anche solo indirettamente, la condotta dannosa del preposto alle attribuzioni proprie dell’agente o all’ambito dell’incarico affidatogli. Occorre, cioè, che il preposto abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non finalità proprie alle quali il committente non sia neppure mediamente interessato o compartecipe” (nella specie, il MIUR è stato ritenuto responsabile ex art. 2049 c.c. in quanto il gioco del “tocco”, promosso dalla maestra e che aveva causato ad un’alunna la perdita degli incisivi davanti non si poneva in contrasto con le “finalità educative” dell’istituto, tra le quali rientrano anche lo svago); in senso conforme, Cass. civ., 9 giugno 2016, n. 11816, in Danno e Resp., 2016, 11, 1134.

comportamento del molestatore rientrante tra le incombenze di dipendente, né costituiscono un prolungamento delle stesse incombenze” 105.

La stessa teoria del rischio d’impresa, come già visto, non si presta ad un’applicazione così estensiva: essa, infatti, prevede che il preponente possa essere chiamato a rispondere solo di quei danni che corrispondono al “maggior rischio” creato dall’impresa nella società, e non quelli che invece “sono espressione di rischi del tutto

indipendenti dall’esistenza dell’impresa in cui il dipendente svolge le sue mansioni”106. Di

conseguenza, rischi che il preposto potrebbe considerare in quanto prevedibili, e quindi di cui potrebbe rispondere, sono quelli che almeno presentano un collegamento eziologico con l’attività esercitata dal preponente. È qui che in giurisprudenza più spesso si registra consenso: il caso del dipendente di un’assicurazione che si impossessa dei premi dei clienti107, o l’intermediario

finanziario che sparisce con i soldi degli investitori108, il caso dei dipendenti di una

banca che commettono illeciti all’interno della stessa109.

105Trib. Venezia, 15 gennaio 2002, in Foro pad., 2002, I, 404.

106 P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 160; in termini analoghi, A. Torrente,

P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XXIII edizione, Milano, 2017, p. 951: “essenziale è solo che la connessione fra esercizio delle incombenze ed illecito dannoso non sia del tutto anomala e casuale (come sarebbe, ad. es., nel caso in cui il dipendente dell’azienda del gas, inviato al domicilio dell’utente per una riparazione, abusi sessualmente della padrona di casa), ma sia in qualche modo collegata alla natura e alle modalità dell’incarico affidato”.

107 Nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 4 novembre 2014, n. 23448, in Rep. Foro it.,

2015, voce Responsabilità civile, n. 182; nella giurisprudenza di merito, Trib. Vicenza, 9 aprile 2018, n. 975, in Redazione Giuffrè 2018 (nella specie, la compagnia di assicurazioni è stata ritenuta responsabile in solido ex art. 2049 c.c. per il fatto illecito del preposto (appropriazione di denaro dei clienti), anche se lo stesso in quel momento era privo di rappresentanza); Trib. Arezzo, 17 ottobre 2017, n. 1159 in Redazione Giuffrè 2017.

108 Nella giurisprudenza di merito, Trib. Mantova, 10 maggio 2016, n. 562, in Redazione Giuffrè

2016.

109 Si veda, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 23 marzo 2018, n. 7241, in Foro it.;

Cass. 29 settembre 2005, n.19167, in Giust. civ. Mass. 2005, 7/8 (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente la responsabilità della banca in un caso in cui il direttore della filiale, all'interno dell'istituto bancario, aveva assunto l'iniziativa personale di far versare una somma ai risparmiatori assicurando alla scadenza dell'operazione la restituzione della stessa con un interesse netto del 10%, mentre la banca ne aveva rifiutato la corresponsione); per un caso in cui non è stata riconosciuta la responsabilità dell’istituto bancario, si veda Cass. 6 luglio 2017, n.16663, in Redazione Giuffrè 2017 (nella specie, il giudice ha considerato che il fatto illecito del dipendente, consistente in prelievi non autorizzati con firma apocrifa e distrazione di somme di denaro, fosse ascrivibile al solo dipendente, in quanto ha agito a titolo personale e in quanto il denaro gli era stato consegnato per private finalità); nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 4 giugno 1990, GM, 1992, 54 (nella specie, il datore di lavoro, l’istituto di vigilanza, è stato chiamato a

Possiamo, pertanto, cercare di giustificare perché una teoria del rischio d’impresa si possa applicare anche nel caso di molestie e violenze sessuali, anche se considerati “impulsi egoistici” e, come tali, estranei alle finalità proprie e agli scopi del preposto. A tal fine la giurisprudenza fa normalmente ricorso a due disposizioni: l’articolo 2087 c.c. nel caso in cui, venutone a conoscenza, il datore di lavoro non abbia adottato quelle misure idonee a garantire l’integrità fisica e morale dei propri dipendenti. Si tratta, in questo caso, di una responsabilità per colpa (anche se, come vedremo, è particolarmente oggettivizzata) che, nel caso in cui le molestie siano perpetuate da un dipendente ai danni di un altro dipendente, si aggiunge a quella extracontrattuale ex

art. 2043 c.c. del preposto; nel caso in cui, invece, sia lo stesso datore a commettere

molestie, sarà lui stesso ritenuto responsabile ex art. 2087 c.c. per violazione dei diritti nascenti dal contratto lavorativo. Più raramente, invece, si fa ricorso all’articolo 2049 c.c., in quanto la tendenza giurisprudenziale è volta a considerare le molestie quali condotte esorbitanti lo scopo del datore di lavoro. Spesso, infatti, si cerca alla base comunque una pregressa conoscenza da parte del datore di comportamenti integranti molestie sessuali o comunque una sua mancanza sul piano organizzativo, con lesione della funzione di prevenzione e risarcimento della norma in questione.

Nei casi di bullismo, invece, non vi sono particolari problemi perché quasi sempre viene riconosciuta la responsabilità del Miur, dato che la presunzione di culpa in

vigilando ex art. 2048, 2 c.c. rare volte consente ai docenti di riuscire a fornire la prova

di aver adottato le misure preventive ed organizzative idonee a evitare il prodursi dell’evento dannoso. Occorre, pertanto, verificare se è possibile parlare di “rischio” di molestie sessuali e “rischio” di bullismo, al fine di coordinare quella che è la responsabilità civile e l’istituto dell’assicurazione civile, una relazione fondamentale alla luce della teoria in esame.