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Le citazioni non identificate e il «linguaggio spezzato».

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

IV.2. Le citazioni non identificate e il «linguaggio spezzato».

Per chiunque intenda studiare l’arte allusiva come l’arte di riusare testi del passato, le pagine di Giorgio Pasquali costituiscono un riferimento classico, dove egli stabilisce che l’allusione va a compimento solo se viene riconosciuta dal lettore:

«Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l’effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono»195.

La concezione che Montaigne ha riguardo alla riconoscibilità delle proprie allusioni è complessa. Il filosofo francese vuole che il lettore riconosca l’eterogeneità enunciativa delle citazioni, e per questo le trascrive in latino e le isola tipograficamente; al contempo, però, sembra non volere che il lettore riconosca autori e tradizioni cui allude riportando determinati enunciati.

Non solo Pasquali, ma Conte, Barchiesi e Schiesaro criticano l’arte allusiva nei contesti della Grecia e della Roma antiche, dove la dimensione letteraria e mnemonica della cultura porta ogni autore ad inscriversi in un ciclo tradizionale di conoscenze - da confermare o da emulare - che il ristretto pubblico di letterati non ha difficoltà a riconoscere196. Anche se ammettiamo che Montaigne maturi lo stile allusivo in seno ad una cultura altrettanto mnemonica, intendiamo, tuttavia, evidenziare che è proprio l’inefficacia educativa dell’aspetto mnemonico che egli intende contestare.

195 G. P

ASQUALI, Pagine Stravaganti d’un filologo, a cura di C.F. Russo, Firenze 1994, pp. 275. Per la necessità di riconoscere l’allusione, e per i limiti che comporta considerare la pratica dell’intertestualità come una tecnica allusiva, cfr. F.GOYET, Imitatio ou intertextualité (Riffaterre revisited), «Poetique» LXXI (1987), pp. 313-20. Per un’opinione che, invece, giudica la riconoscibilità dell’allusione opzionale al suo successo, cfr. W.IRWIN, What is an Allusion?, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», LIX/3 (2001), p. 290. 196 Sull’arte allusiva come arte di riusare testi, modi espressivi e luoghi comuni codificati dalla tradizione, cfr. G.B.CONTE E A.BARCHIESI, Imitazione e arte allusiva , cit.., pp. 81 e sg. Cfr. anche G.B.CONTE, Memoria

dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino 1985; A. SCHIESARO, L’intertestualità

e i suoi disagi, «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», XXXIX(1997), pp. 75-109; D.

FOWLER, On the shoulders of Giant: Intertextuality and Classical Studies, «Materiali e discussioni per

99 Pensiamo, infatti, che egli evochi intertesti autorevoli e non identificati per sfidare i lettori ad ammettere l’inutilità di un acculturamento erudito che non permette loro di distinguere gli enunciati altrui all’interno dei Saggi:

«Eppure so bene con quanta audacia io stesso mi accinga sovente ad eguagliarmi ai miei furti, ad andare al passo con essi, non senza una temeraria speranza di poter ingannare gli occhi dei giudici tanto che non li distinguano. Ma questo dipende tanto dalla mia destrezza e dalla mia capacità».

«Dei ragionamenti e delle idee che trapianto sul mio terreno e confondo ai miei, a volte ho omesso appositamente di indicare l’autore, per tenere a freno la temerarità di quei giudizi affrettati che si danno di ogni sorta di scritti: particolarmente scritti giovanili di uomini ancora viventi, e in lingua volgare, cosa che permette a tutti di parlarne e che sembra accusarne di volgarità anche il concetto e il disegno. Voglio che diano un buffetto a Plutarco sul naso mio, e che si accalorino a ingiuriare Seneca in me. Bisogna che nasconda la mia debolezza sotto quelle grandi autorità. Vorrei che qualcuno sapesse strapparmi le penne non mie»197.

E che, lasciando anonime le citazioni, non solo intenda sollecitare i lettori a comprenderle e interpretarle piuttosto che a riconoscerle, ma, soprattutto, che intenda valorizzare la loro capacità di intravedere i contenuti impliciti alla superficie verbale delle frasi:

«E quante storie vi ho disseminato che non dicono nulla, ma chi vorrà spulciarle con un po’ di acume potrà trarne infiniti saggi. Né esse, né le mie citazioni servono sempre solamente di esempio, di autorità o di ornamento. Non le considero soltanto per l’utile che ne traggo. Esse portano spesso, al di là del mio discorso, il seme di una materia più ricca e più ardita, e danno in sottofondo un suono più delicato, sia per me che non voglio dirne di più, sia per quelli che intenderanno la mia canzone»198.

Secondo noi, quindi, Montaigne costella i Saggi di citazioni non identificate per sollecitare l’impegno ermeneutico e l’attenzione dei lettori piuttosto che la loro memoria.

197 Saggi I 26, pp. 263 e sg. e II 10, p. 725. 198

100 Difatti, quando vuole comprendere il significato di una citazione riconosciuta, il lettore può ricordare e riferirsi al quadro di valori del suo autore originario. Al contrario, Montaigne non intende affidare la comprensione dei Saggi al bagaglio culturale dei propri lettori, sia perché non può prevedere il numero dei libri che i lettori hanno letto199, sia perché vuole frenare la tentazione di isolare le citazioni dalla trama complessiva del discorso.

Come dice Tournon, infatti, il lettore deve adottare una «prospettiva sinottica», e interpretare le frasi dei Saggi confrontandole fra loro e con il contesto complessivo del capitolo che le accoglie200. Pertanto, pensiamo che Montaigne impedisca a chi legge di risalire alle fonti delle citazioni proprio per obbligarlo ad attenersi alla rete dei significati che ha costituito nei Saggi.

Ciononostante, notiamo che, affermando di amare un linguaggio dove «ogni pezzo fa corpo a sé», Montaigne sembra tradire il progetto di dare ai lettori un libro che «è sempre uno»201, al punto che è possibile documentare fin dai tempi di Pascal la forte tentazione di leggere i Saggi come l’insieme di pensieri separabili a causa della densità e della forma in cui sono scritti:

«La maniere d’écrire d’Epictète, de Montaigne et de Salomon de Tultie est la plus d’usage qui s’insinue le mieux, qui demeure plus dans la memoire et qui se fait le plus citer, parce qu’elle est tout composé de pensées néés sur les entretiens ordinaires de la vie».

«Il modo di scrivere di Epitteto, di Montaigne e di Salomon de Tultie è quello più facile all’uso, quello che si insinua meglio, che rimane maggiormente nella memoria e si fa citare di più, essendo composto di pensieri nati dai discorsi comuni sulla vita»202.

In particolar modo, Pascal imputa al contenuto dei Saggi la facilità di riflettere isolatamente sulle sue singole frasi. Infatti, secondo l’autore dei Pensieri, Montaigne

199 Sulla capacità di percepire gli intertesti a seconda del bagaglio culturale, cfr. M.R

IFFATERRE, La trace de

l’intertexte, «La Pensée», CCXV (1980), p. 5. Sui problemi che comporta far dipendere l’intertestualità di

un’opera dalla variabile aleatoria della cultura del lettore, cfr. A.C. GIGNOUX, De l’interrtextualité à

l’écriture, «Cahiers de Narratologie», 16 (2003), p. 2-4. 200 A.T

OURNON, Montaigne en toutes lettres, cit., p. 122. 201 Saggi I 26, p. 311 e III 9, p. 1789.

202 Vista la complessa vicenda editoriale e di traduzione dell’opera di Pascal, ci riferiamo all’edizione francese di Louis Lafuma, dove il frammento è registrato al numero 745. La traduzione è mia.

101 permette al lettore di comprendere e memorizzare le sue riflessioni svolte su tematiche di comune interesse umano, senza bisogno di ricordare il loro intero tracciato logico.

Pertanto, ammettiamo che Montaigne sembri esporre se stesso ad essere citato, e che, riportando citazioni altrui, sembri favorire nel lettore la tendenza a individuare nei Saggi brani di discorso estranei e autosufficienti rispetto alla trama discorsiva - quindi, isolabili. Tuttavia, però, precisiamo che Montaigne tratta e usa le citazioni come microcosmi semantici non per la loro autosufficienza esplicativa, bensì per la loro forza evocativa. Ritorniamo, per questo, alla preferenza dichiarata verso i discorsi dove «ogni pezzo faccia corpo a sé», che Montaigne concepisce all’insegna di un linguaggio ideale caratterizzato da concisione espressiva e da copiosità contenutistica:

«Il linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta quale sulle labbra. Un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto delicato e leccato quanto veemente e brusco: il miglior modo di parlare è quello che colpisce. Piuttosto difficile che noioso. Lontano dall’affettazione. Sregolato, scucito e ardito. Ogni pezzo faccia corpo a sé. […]. Non mi piacciono i tessuti in cui sono evidenti le aggiuntature e le cuciture, così come in un bel corpo non si devono poter contare le ossa e le vene. Il discorso che mira alla verità deve essere semplice e senz’arte. Chi parla accuratamente se non colui che vuole

parlare leziosamente? L’eloquenza fa ingiuria alle cose, quando ce ne storna per attrarci a sé. […]. Gli Ateniesi (dice Platone) hanno dal canto loro la cura dell’abbondanza e

dell’eleganza nel parlare, gli Spartani, della brevità, e quelli di Creta, della fecondità delle idee più che del linguaggio: questi sono i migliori»203.

Ammettiamo che dichiarare di prediligere lo stile conciso possa sembrare in contraddizione rispetto all’affermare di aver «preso una strada per la quale, senza posa e senza fatica, andrà finché ci sarà inchiostro e carta al mondo»204. Eppure egli stesso confessa alla destinataria dell’Apologia di Raimond Sebond di aver derogato alle proprie abitudini scrivendo un così lungo discorso205. Difatti, adottando il metodo filologico di Brody e comparando i passi in cui Montaigne parla del proprio modo di scrivere, possiamo facilmente intuire che la prolissità apparente dei Saggi non contraddice la volontà di

203 Saggi I 26, p. 313.

204 Saggi III 9, p. 1753. La frase è in realtà formulata alla prima persona e alla forma interrogativa. 205

102 scrivere in modo conciso, e che, anzi, essa costituisce la cornice ideale alla sua realizzazione:

«Qu’il n’est rien si contraire à mon style qu’une narration étendue: Je me RECOUPE si souvent à faute d’haleine, Je n’ai ni composition ni explication qui vaille».

«Che non c’è nulla di più contrario al mio stile quanto una narrazione estesa: mi

INTERROMPO spessissimo per mancanza di fiato, e non ho né forma né esposizione di qualche valore».

«J’ai naturellement un style comique et privé, Mais c’est d’une forme mienne, inepte aux négotiations publiques, comme en tout façons est mon langage: Trop serré, désordonné,

COUPÉ, particulier.»

«Ho per natura uno stile medio e familiare. Ma con una forma tutta mia, inadatta alle relazioni di società, come in tutti i modi è il mio linguaggio: troppo conciso, disordinato,

SPEZZATO, personale».

«<C’e>st un LANGAGE COUPÉ / qu’il n’y espargne les pouincts e lettres maiuscules. Moimesme ai failli <sou>uant a les oster e a mettre des comma ou il faloit un poinct».

«È un LINGUAGGIO SPEZZATO / che non lesina punti e lettere maiuscole. Io stesso sono stato spesso sul punto di toglierli e di mettere delle interruzioni dove occorreva un punto»206.

In questi passi Montaigne ripete in modo significativo il termine coupé, avanzando in modo implicito la concezione del discorso discontinuo come luogo ideale per ammassare frammenti che il lettore pensa di poter comprendere prescindendo dal tessuto complessivo. Ma solo i lettori disattenti lo pensano, mentre i lettori diligenti - attenti ad una visione «sinottica» di tutti i capitoli dei Saggi - ricordano che Montaigne ha detto di odiare i tessuti con cuciture evidenti, e sanno che egli ama produrre discorsi fra loro sconnessi per evitare che la parvenza di logicità consequenziale saturi le aspettative dei lettori senza averli prima

206 Saggi I 21, pp. 186 e sg.; I 40, pp. 454; l’ultima citazione è prelevata dalle raccomandazioni manoscritte e autografe che Montaigne lascia allo stampatore sul frontespizio dell’Esemplare di Bordeaux. Per la raccomandazione autografa, la traduzione è mia.

103 impegnati a controllare se i discorsi siano realmente deducibili l’uno dall’altro207. Pertanto, pur vigilando affinché le proprie reticenza e discontinuità non rendano impercorribile l’itinerario dei propri pensieri208

, il filosofo francese vi conforma la scrittura dei Saggi per riconoscere i «lettori perspicaci» fra la massa di lettori distratti e mediocri, che seguono in modo superficiale solo quei discorsi di cui l’autore ha esplicitato il tracciato logico e concettuale, e che non sono in grado di beneficiare dei contenuti più profondi:

«Io voglio che la materia si distingua per se stessa. Essa mostra a sufficienza dove varia, dove conclude, dove comincia, dove riprende, senza intrecciarla di parole di legame e di cucitura, introdotte ad uso degli orecchi deboli e indolenti, e senza glossare me stesso. Chi non preferisce non essere letto piuttosto che esserlo dormendo o di sfuggita? Non c’è niente

di tanto utile che possa essere utile di passaggio. […]. Dato che non posso fermare

l’attenzione con il peso, manco male se mi accade di fermarla con il garbuglio»209.

207 Per la discontinuità come tecnica espressiva per eliminare la logicità apparente dei discorsi, cfr. A. COMPAGNON e C.FRECCERO, A long short story: Montaigne’s Brevity, «Yale French Studies», LXIV (1983), p. 37. Sulla valenza antidogmatica della discontinuità, come tecnica per impedire la formulazione e la fissazione di giudizi di verità, cfr. A.TOURNON, L’énergie du “langage coupé”, cit., pp. 131 e sg. Sul modo in cui Montaigne concepisce le frasi, come unità di significato slegate fra loro, cfr. F.GRAY, Le style de

Montaigne, Parigi 1958, pp. 23-32.

208 «Del resto il mio linguaggio non ha niente di facile né di rifinito; è aspro e sdegnoso, la sua disposizione è libera e sregolata. E mi piace così, se non secondo il mio giudizio, secondo la mia indole. Ma mi accorgo che qualche volta mi ci lascio troppo andare, e che a forza di voler evitare l’arte e l’affettazione, vi ricado per un altro verso: cerco di essere breve, e divento oscuro», Saggi II 17, p. 1183. Il corsivo è Orazio, Ars poetica, vv. 25-26.

209 Saggi III 9, p. 1851. Il corsivo è Seneca, Epistole, 2. Si segnala la metafora dell’assenza di cuciture per la sua ricorrenza. Cfr. anche Saggi II 10, p. 735, dove Montaigne concepisce lo stile scucito come uno dei maggiori pregi degli «Opuscoli di Plutarco e delle Lettere di Seneca».

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