II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO
IV.6. Un modo allusivo di delineare il nuovo linguaggio scettico.
Celandosi dietro la consueta lamentela di smemoratezza, Montaigne ci suggerisce la possibilità di rintracciare costanti riflessive all’interno dei Saggi:
«In queste sciocche fantasticherie temo ancora il tradimento della mia memoria, che per inavvertenza mi abbia fatto annotare una cosa due volte. Detesto rileggermi, e non rivedo che controvoglia quello che una volta mi è sfuggito. Ora, non porto qui nulla che costituisca una nuova acquisizione. Sono idee comuni, avendole forse pensate cento volte, ho paura di averle già registrate»233.
Alla «costanza di opinioni» che dichiara di avere, infatti, corrisponde sul piano riflessivo una certa costanza di tematiche trattate, di cui gli interpreti devono tenere conto.
Come abbiamo detto, al contrario di quello che può sembrare leggendo i passi dove dichiara di rimettersi completamente agli sforzi interpretativi dei lettori, pensiamo che Montaigne non solo sappia rendere conto dei propri pensieri, bensì che intenda anche indicare ai lettori i percorsi da usare per interpretarli in modo appropriato.
Anche in questo caso, però, non può usare la forma prescrittiva; dunque, pensiamo che, invece di indicare in modo esplicito l’atteggiamento ermeneutico da adottare, il filosofo si limiti a screditare gli atteggiamenti da evitare, nonché l’esegesi e il commento di singoli frammenti.
Abbiamo già parlato dei problemi cui incorrono i lettori con ambizioni esegetiche, i quali, non disponendo di passi in cui Montaigne espone in modo sistematico le proprie concezioni, non possono riscontrare l’eventuale appropriatezza delle loro interpretazioni. Adesso, però, intendiamo porre in evidenza una situazione altrettanto problematica, e dovuta proprio a tale mancanza di quadri sistematici di riferimento:
«Chi ha visto dei fanciulli mentre cercano di ridurre a un certo volume una massa di argento vivo? Più lo premono e lo impastano, e si studiano di costringerlo a modo loro, più irritano la libertà di quel generoso metallo. Esso sfugge alla loro destrezza e va sminuzzandosi e sparpagliandosi al di là di ogni previsione. È lo stesso, perché suddividendo quelle sottigliezze, si insegna agli uomini ad accrescere i dubbi. […]. Seminando le questioni e ritagliandole, si fruttificare e proliferare il mondo in incertezza e in vertenza: come la terra si
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117 rende più fertile quanto più e sbriciolata e profondamente rimossa. […]. Ma si prova per
esperienza che tante interpretazioni dissolvono la verità e la distruggono. Aristotele ha scritto per essere compreso: se non ci è riuscito, uno meno abile e un terzo ci riuscirà ancor meno di colui che tratta un’idea sua propria. Noi spianiamo la materia e la dilatiamo stemperandola. Di un argomento ne facciamo mille. E ricadiamo, moltiplicando e suddividendo, nell’infinità degli atomi di Epicuro»234.
Dunque, Montaigne si pronuncia sia contro le interpretazioni che presuppongono auto- identità del soggetto enunciativo ed esistenza di un contenuto oggettivo del testo, sia contro le interpretazioni che rinunciano completamente a riscontri e a punti di riferimento. Contro la prima, il filosofo francese ha constatato che le opere di commento alimentano domande e incomprensioni invece di risolverle; e contro la seconda, ha evidenziato gli esiti dispersivi cui essa può condurre. Infatti, le glosse rimandano a chiarificazioni sempre più precise, differendo a tempo indeterminato la soluzione; e i commenti concentrati su singoli frammenti rendono impossibile la comprensione definitiva di un testo.
D’altronde, il lettore che concepisce i Saggi come l’«affastellamento di pezzi diversi»235
trascura la visione d’insieme dei capitoli e ignora i legami impliciti che sussistono fra ogni frase. Al contrario, colui che adotta una lettura globale e «sinottica» scongiura il rischio di frammentare i discorsi interpretandone ogni frase isolata dall’altra; e non solo riesce a individuare una certa coerenza di fondo fra le riflessioni di Montaigne, ma riesce addirittura a costituire un plausibile piano di riscontro cui verificare le proprie interpretazioni236.
Infatti, sebbene Montaigne ripeta al lettore di non cercare nei Saggi la formulazione esplicita di concezioni stabili, pensiamo che egli alluda alla possibilità di rintracciarvi degli spunti riflessivi costanti. E che, pur rinunciando ad ogni diritto alla veridizione, lasci al lettore l’onere di sviluppare intuizioni che suppone giuste e orientate al raggiungimento della verità:
234
Saggi III 13, pp. 1985 e sg. 235 Saggi II 37, p. 140
236 Sull’opposizione di Montaigne verso un tipo di interpretazione che concepisce ogni frase in modo isolato, e distrugge e dissipa il senso complessivo dei discorsi, cfr. T. CAVE, Cornucopia, cit., p. 317-9. Sulla possibilità di individuare un ordine interno ai Saggi, all’insegna della circolarità e della ricorrenza con cui Montaigne tratta certi temi, cfr. A.TOURNON, La Glose et l’essai, cit., p. 105-44. Fra i primi interpreti a favore di una certa costanza fra le riflessioni di Montaigne si ricorda Armingaud, cfr. A. ARMAINGAUD,
Montaigne était-il ondoyant et divers? Montaigne était-il inconstant? «Revue du Seizième siècle», X(1923),
118 «Avendo provato per esperienza che ciò in cui uno era fallito, un altro vi è riuscito; e che ciò
che era ignoto a un secolo, il secolo successivo lo ha chiarito; e che le scienze e le arti non si gettano in uno stampo, ma si formano e si modellano poco a poco, maneggiandole e rifinendole a più riprese, come gli orsi abbelliscono i loro piccoli leccandoli e rileccandoli: quello che le mie facoltà non possono scoprire, non smetto di sondarlo e di saggiarlo; e ritastando e impastando questa nuova materia, agitandola e riscaldandola, apro a colui che mi segue qualche possibilità di goderne di più a suo agio, e gliela rendo più duttile e maneggevole»237.
Infatti, recuperando un’immagine dell’amato Plutarco, nel capitolo Riflessione su Cicerone Montaigne assegna ai lettori il compito di recepire i discorsi dei Saggi come il «seme» di riflessioni più ampie, da coltivare e da sviluppare in modo autonomo238. Ciononostante, pensiamo che l’autonomia assegnata ai lettori non sia totale, quanto meno per il fatto che è Montaigne a stabilire - sebbene in modo implicito - gli argomenti di cui trattare. E che neanche la reciprocità comunicativa proclamata sia completa, quanto meno per il fatto che - in qualità di autore - è sempre Montaigne a sancire ritmi e dinamica delle risposte dei lettori:
«La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta. Questi deve prepararsi a riceverla secondo l’intonazione che essa prende. Così fra coloro che giocano a palla, quello che sta sulla difesa si sposta e si prepara secondo che vede muovere quello che gli lancia il colpo, e secondo la direzione del colpo»239.
Nei Saggi Montaigne riveste il duplice ruolo di scrittore di pensieri personali e altrui, e di lettore e commentatore di se medesimo. Pertanto, benché sminuisca il valore delle addizioni rispetto alle versioni precedenti, rileggendo e commentando instancabilmente i
237 Saggi II 12, p. 1029.
238 «Dobbiamo esortare i pigri di cui parlavamo a mettere insieme il resto da soli, una volta che l’intelligenza abbia fatto loro comprendere i punti essenziali, tenendo a mente quanto hanno ascoltato perché sia loro da guida nel proseguimento della ricerca e accogliendo la parola altrui come principio e seme da sviluppare e crescere», PLUTARCO, De recta ratione audiendi, in ID., Moralia, ed. a cura di G. Pisani, Pordenone 1990,
vol. II, p. 281. Per il riscontro con i Saggi, cfr. I 40, p. 451 (riportato anche a p. 95). 239
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Saggi, egli non solo ne modifica i contenuti, ma condiziona e determina la prospettiva
ermeneutica che i «lettori perspicaci» devono adottare240.
Dunque, dobbiamo smentire entrambe le spiegazioni che Montaigne sembra dare del proprio rapporto con i lettori: la prima - esplicita -, secondo la quale Montaigne afferma di necessitare dell’intervento dei lettori per sviluppare e disambiguare i tratti equivoci dei propri discorsi; e la seconda - implicita -, secondo la quale il filosofo sembra assimilare il proprio rapporto con i destinatari dei Saggi al modello della conversazione ideale delineata in III 8.
Abbiamo già smentito la prima spiegazione, e aggiungiamo che, quando afferma di non saper render conto dei discorsi e delle parole pronunciate, in realtà Montaigne intende evitare di oberare l’immaginazione di chi ascolta con altre parole altrettanto inadeguate e opache:
«Plutarco dice che ha visto la lingua latina attraverso le cose. Qui è lo stesso: il senso chiarisce e produce le parole. Non più di vento, ma di carne e d’ossa. Esse significano più di quanto dicono».
«Voglio che le cose superino e riempiano in tal modo l’immaginazione di chi ascolta, che non abbia alcun ricordo delle parole»241.
Per smentire la seconda spiegazione, invece, la questione è più complessa. Infatti, sebbene ci sembri opportuno leggere i Saggi come fossimo interlocutori di Montaigne, in realtà non godiamo della libertà e della reciprocità che egli promette a chiunque voglia conversare con lui.
D’altronde, come nota Regosin analizzando la metafora mediante la quale Montaigne paragona la comunicazione al «gioco con la palla», nonostante egli affermi che «la parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta», delinea, al contrario, un rapporto di preminenza del mittente sul ricevente dei discorsi:
240 Sul duplice ruolo - di scrittore e di lettore di se medesimo - che Montaigne riveste nei Saggi, e sui condizionamenti che questo comporta nel processo di lettura, cfr. R.REGOSIN, Conceptions of the texte and the generation(s) of meaning: Montaigne’s Essais and the place(s) of the reader, «The Journal of Medieval
and Renaissance Studies», XV/1 (1985), pp. 107 e sg.. Sugli effetti ermeneutici del processo di continua rilettura e riscrittura dei Saggi, cfr. A.TOURNON, La glosse et l’essai, cit.
241
120 «Così fra coloro che giocano a palla, quello che sta sulla difesa si sposta e si prepara
secondo che vede muovere quello che gli lancia il colpo, e secondo la direzione del colpo»242.
Ed infatti, come il ricevitore deve adattarsi alla direzione del colpo determinata dal lanciatore, allo stesso modo colui che ascolta deve predisporre le proprie capacità cognitive alle intenzioni del locutore.
In effetti, nel capitolo Dell’arte di conversare Montaigne pone delle riserve alla propria disponibilità ad essere contraddetto e giudicato da interlocutori e commentatori:
«A me fa tanto piacere l’essere giudicato e conosciuto, che mi è quasi indifferente in quale delle due forme lo sia. La mia immaginazione si contraddice e si condanna da sola tanto spesso, che per me non fa differenza che lo faccia un altro: considerato soprattutto che attribuisco alla sua riprensione l’autorità che voglio».
«Infine, io ricevo e accuso ogni sorta di colpi che vanno dritti allo scopo, per deboli che siano, ma sono fin troppo intollerante di quelli che vengono dati senza forma. […]. Discuterò tranquillamente per un giorno intero, se il dibattito è condotto con ordine. Non domando tanto la forza e la sottigliezza, quanto l’ordine. L’ordine che si vede tutti i giorni nelle liti dei pastori e dei garzoni di bottega, mai fra noi. Se essi si scompongono, è per inciviltà; e così facciamo noi. Ma la loro agitazione e impazienza non li porta mai fuori tema: il loro ragionamento segue il suo corso. Se si prevengono l’un altro, se non si attendono, per lo meno s’intendono. Per me, si risponde sempre fin troppo bene se si risponde a proposito»243.
Notiamo, infatti, che Montaigne preserva il proprio controllo sui propri discorsi, scegliendo gli interlocutori a cui dare ascolto e valutando se i loro ragionamenti sono pertinenti o meno ai propri discorsi. Pensiamo, del resto, che, per allontanare coloro che vanno fuori tema, Montaigne debba necessariamente avere presente il tema dei propri pensieri; e che, per giudicare la capacità degli interlocutori a seguire l’ordine dei propri discorsi, egli debba
242 Saggi III 13, p. 2029. Cfr. R.REGOSIN ,Conceptions of the texte and the generation(s) of meaning, cit., p. 109.
243
121 concepire e formulare le proprie enunciazioni come entità di per sé orientare verso un contenuto preciso.
Per questi motivi, abbiamo dedicato la nostra ricerca a rintracciare gli accenni che Montaigne dissemina nei Saggi per orientarne gli sviluppi interpretativi; e per gli stessi motivi, abbiamo pensato opportuno rendere espliciti gli accenni al linguaggio antidogmatico, che sembrano attraversare tutta l’opera.
D’altronde, fin da Sesto Empirico il pensiero più impellente degli scettici è stato conciliare la volontà di comunicare agli uomini il dovere e il piacere di sospendere il giudizio e l’impossibilità di formulare enunciazioni in modo non assertivo, e nell’Apologia di
Raimond Sebond Montaigne ha manifestato apertamente la propria insoddisfazione verso il
linguaggio auto-purgativo delineato negli Schizzi pirroniani. Ma al di là della polemica anti-sestana, intendiamo mettere in evidenza il modo in cui Montaigne avanza la propria proposta espressiva.
Abbiamo notato, infatti, che, senza delineare in modo esplicito e discorsivo i caratteri del nuovo linguaggio scettico, Montaigne passa direttamente all’atto pratico; e che, alludendo ad opere ed esperienze altrui, evocando intertesti e contenuti disparati e non identificati, e riferendosi alle cose mediante parole polisemiche ed enunciati polivalenti, egli riesce a scrivere un’opera che resiste a qualsiasi interpretazione che cerca di ricondurla ad un corpo di concezioni stabili e definite.
Perciò, in conclusione, intendiamo mettere in luce che, pur non dedicando trattazione esplicita al problema del linguaggio, il filosofo francese riesce a presentare la citazione e lo stile allusivo come i metodi antidogmatici di produrre il discorso.
A dir la verità, l’abbiamo rinvenuto un passo dove Montaigne propone in modo esplicito il linguaggio da sostituire alla formulazione assertiva. Tuttavia, abbiamo considerato il mancato approfondimento dell’accenno alla domanda «Que sais-je?», e il raro uso della forma interrogativa, come indizi che suggeriscono che Montaigne l’abbia proposta solo per depistare i lettori disattenti.
Pertanto, abbiamo iniziato a cercare accenni e a raccogliere semi, i quali, sebbene in modo indiretto, ci hanno condotto a notare che, grazie all’emprunt e allo stile allusivo, Montaigne toglie univocità e veridicità alle proprie enunciazioni, e riesce a comunicarci il proprio pensiero senza formularlo né imporcelo come vero.
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