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La scrittura allusiva, come modo di selezionare i «lettori perspicaci».

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

IV.5. La scrittura allusiva, come modo di selezionare i «lettori perspicaci».

Il linguaggio spezzato, gli intertesti non identificati, le parole e gli enunciati usati in modo allusivo costituiscono i fattori di condensazione che adibiscono i capitoli dei Saggi a mediare un numero indefinito di significati possibili. Del resto, Montaigne stesso ammette che svolgerne tutti gli spunti lo avrebbe costretto a «moltiplicare più volte» la propria opera. Dunque, preferisce affidarsi alla perspicacia dei propri lettori - che raccoglieranno e faranno fruttare ogni spunto «disseminato» -, e li chiama a sviscerare ogni questione accennata, purché non pretendano di risolverla in modo definitivo. Anzi, pensiamo addirittura che il filosofo francese sfrutti la polivalenza delle proposizioni condensate proprio per produrre discorsi suscettibili di interpretazioni in reciproco conflitto, in modo che nessuno saprà distinguere quella vera fra tutte quelle false:

«Eraclito e Protagora, dal fatto che il vino sembra amaro al malato e gradevole al sano, il remo storto nell’acqua e dritto a quello che lo vedono fuori, e da simili apparenze contrarie che si trovano negli oggetti, argomentavano che tutti gli oggetti avevano in sé le cause di queste apparenze. […]. Il che equivale a dire che tutto è in tutte le cose, e di conseguenza niente in nessuna; perché non c’è niente dove non c’è tutto. Quest’opinione mi ricordava l’esperienza che abbiamo, che non vi è sensazione né apparenza, o dritta, o amara, o dolce, o curva, che lo spirito umano non trovi negli scritti che si mette a esaminare»227.

Leggendo questo brano dell’Apologia di Raimond Sebond, possiamo, peraltro, riconoscere molti rimandi agli Schizzi pirroniani, e dedurre, quindi, in modo sufficientemente certo il sostrato scettico della riflessione sull’interpretabilità dei testi:

«Che da questa [filosofia eraclitea] differisca l’indirizzo nostro, è manifesto. E invero Eraclito intorno a molte cose oscure si pronuncia dogmaticamente; noi, invece, no, come si è detto. Ma poiché Enesidemo diceva che l’indirizzo scettico è una filosofia che mena alla

filosofia eraclitea, - in quanto l’apparire di fatti contrari circa lo stesso obietto precede

l’esistere di fatti contrari circa lo stesso obietto, e gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso obietto, mentre gli Eraclitei, partendo dall’apparire, arrivano, anche, al loro esistere -, noi rispondiamo a costoro che l’apparire di fatti contrari intorno allo stesso obietto non è un dogma degli Scettici, ma un fatto che cade sotto i sensi,

227

113 non solo degli Scettici, ma anche degli altri filosofi, anzi di tutti gli uomini. Nessuno, certo,

oserebbe negare che il miele dà un’impressione di dolcezza a chi è sano, e amaro agli itterici»228.

Pensiamo, infatti, che Montaigne faccia trapassare la tematica fondamentale dello scetticismo antico dal piano della discussione ontologica al piano della valutazione dei testi letterari, e che consideri impossibile stabilire quale fra le molteplici interpretazioni di un testo faccia emergere il suo significato originale così come considera impossibile stabilire quale fra le sensazioni disparate che suscita un medesimo oggetto lo rappresenti come esso realmente è.

Infatti, Montaigne non tenta di reprimere la natura proteiforme dei Saggi; al contrario, la favorisce inserendovi citazioni interpretate senza la volontà di rappresentarne il significato originale, e sfruttando i residui di opacità che rimangono a causa dell’inadeguatezza rappresentativa delle parole. Quindi, produce discorsi refrattari ad interpretazioni sistematiche e univoche, e considera la frattura fra il piano apparente dell’enunciazione e il piano reale dei contenuti tanto profonda da ammettere di non riuscire, egli stesso, a risalire dai propri enunciati ai pensieri che vi voleva esprimere:

«Quando prendo dei libri, se avrò scorto nel tal passo delle grazie rare e che avranno colpiti la mia anima, che questo mi cada sott’occhio un’altra volta, ho un bel girarlo e rigirarlo, ho un bel piegarlo e maneggiarlo, è per me una massa sconosciuta e informe. Nei miei scritti non sempre ritrovo il tono della mia prima idea: non so che cosa ho voluto dire, e mi nuoccio spesso correggendo e mettendoci un nuovo senso, perché ho perso il primo che era migliore. Non faccio che andare e venire: il mio giudizio non va sempre avanti, ondeggia, vaga qua e là, come un fragile scafo sorpreso sul mare largo da un vento furioso»229.

In questo passo, peraltro, notiamo che Montaigne riflette sull’incostanza del giudizio. Come abbiamo argomentato nel secondo capitolo, il filosofo pensa che l’esperienza decisiva per rinunciare a pretendere la conoscenza consista nel rendersi conto di quanto facilmente cambiamo opinione. Perciò, considerando che grazie all’emprunt e all’evocazione di intertesti non identificati Montaigne cerca di impedire al lettore di

228 HP I 210-211. Il corsivo fra parentesi quadre è mio. 229

114 maturare un’interpretazione stabile e irrevocabile dei Saggi, pensiamo ragionevole vedere in tali strategie espressive un’intenzione scettica e antidogmatica.

Ancora una volta, e tornando in particolar modo alle dichiarazioni sullo stile allusivo, Montaigne dissimula, tuttavia, la consapevolezza con cui lo adopera. E dichiara di avere bisogno di lettori perspicaci che «scoprono spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha intravisto, e presta loro significati più ricchi»230

, a causa della propria incapacità di scrivere in modo chiaro e di rendere conto delle proprie enunciazioni scritte:

«Mi accade anche questo: che non mi trovo dove mi cerco; e mi trovo più per caso che per l’indagine del mio giudizio. Posso aver buttato là qualche arguzia scrivendo. […]. L’ho perduta al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo l’ha talvolta scoperta prima di me. Se adoprassi il raschino ogni volta che questo mi succede, mi cancellerei tutto. L’occasione mi offrirà qualche altra volta luce più chiara di quella di mezzogiorno; e mi farà stupire della mia esitazione»231.

Nonostante l’apparenza, però, non possiamo credere che Montaigne subordini i propri discorsi alla comprensione dei lettori, quanto meno per il fatto che egli contesta l’inefficacia formativa di qualsiasi relazione caratterizzata dalla preminenza di un interlocutore sugli altri. Ma, al contrario, dobbiamo riconsiderare questi passi alla luce dei capitoli dove Montaigne presenta la conversazione fra eguali come l’esercizio formativo ideale.

Nel capitolo Dell’arte di conversare, infatti, il filosofo delinea e raccomanda il modello della comunicazione ideale all’insegna della reciprocità e dell’atteggiamento problematico degli interlocutori, perciò non può esimersi dal conformare ad esso anche il proprio rapporto con i lettori.

Tuttavia, anche se afferma che «la parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che riceve»232, configura con i propri lettori una relazione solo apparentemente simmetrica, considerando la propria disponibilità ad essere contraddetto come un atteggiamento da simulare non meno dell’incapacità di rendere conto dei propri pensieri. E benché mantenga

230 Saggi I 24, p. 227. 231 Saggi I 10, p. 65. 232

115 un atteggiamento problematico verso le proprie idee, non intende ritrattarle né rinunciare alla «costanza di opinioni» che è riuscito a conquistare.

Pensiamo, infatti, che Montaigne abbia in mente qualcosa di preciso da comunicare, ma che senta di non poterlo fare per non auto-refutarsi nell’atto stesso di trasmettere in modo assertivo la convenienza dell’attitudine antidogmatica.

Per questo, ipotizziamo che formuli discorsi criptici instaurando un dialogo collaborativo solo con quei lettori capaci di decifrare il messaggio scettico, e ristabilendo, quindi, il proprio comando sulle vicende ermeneutiche dei Saggi.

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