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4. Passato, presente e futuro delle abitudini alimentari

4.3 Lo spazio del commestibile: alimentazione ieri e oggi

4.3.7 I cibi delle feste

La prima, sostanziale, differenza tra l’alimentazione quotidiana e quella delle occasioni e dei giorni di festa risiede nel consumo di carne e pasta. Mentre durante la settimana, in tutte e tre le aree analizzate, era diffuso il consumo di zuppe e minestre, la domenica e nei giorni di festa

era assai più frequente il consumo di carni – in prevalenza bolliti – e pasta. Quest’ultima era

sovente del tipo secco, acquistata per l’occasione nella quantità atta a soddisfare le esigenze del singolo pasto. Per quanto presso molte famiglie fosse presente anche l’abitudine di realizzare paste fresche quali lasagne, malloreddus, fregola o ravioli ripieni (in questo caso avendo la disponibilità di prodotti lattiero-caseari quali ricotte e formaggi freschi), la pasta secca veniva considerata anch’essa degna del pranzo delle occasioni, probabilmente perché a differenza delle paste fatte in casa occorreva possedere del denaro per poterla acquistare. Anche la carne aveva un posto d’onore nella tavola delle feste. Ad eccezione delle famiglie benestanti, e in misura minore nelle aree urbane dove poteva esservene un consumo anche infrasettimanale, il bollito

domenicale costituiva abitudine diffusa in tutte le aree oggetto d’indagine. Arrosti, stufati e

altre preparazioni al tegame erano ancor meno diffuse e relegate alle festività più importanti, come il Natale e la Pasqua:

Sì! Noi i legumi, i giorni delle feste non ne mangiavamo. Non ne cuoceva mai mamma. Sempre possibilmente la carne. La pastasciutta, però generalmente io la domenica ricordo sempre la carne. Gli altri giorni no, può darsi, però la carne era diverso. Giorni della festa era sempre diverso. Sempre diverso, voglio dire, i legumi erano una cosa giornaliera. Invece la domenica mamma ci teneva tanto. Ce lo faceva sentire che era domenica. Giorno di festa. Quindi sempre, questo sì. (Piera, Alto Oristanese).

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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.

L’abitudine a mangiar carne solo in periodi di festa era, in alcuni casi, talmente radicata nel sentire individuale, da rendere incredibile l’idea che durante la settimana potesse essere presentata una pietanza a base di carne, se non pensando che questa fosse il risultato della lavorazione di un animale morto per malattia:

[…] portavo la roba da mangiare da casa di nonno a questa famiglia, che poi lo portavano in campagna. Perché nonno veniva ogni quindici giorni. E nonna aveva detto ma itta appa a’fai a pappai a nonnu duu. Mi paridi ca ddi bocciu unu cabonischeddu 89 eh si si, si si . A noi aveva dato i piedi, il collo, e su

caboniscu intrenu du iada fattu intrenu a brodu, e poi iat fattu sa minestra90. E io glielo avevo portato:

lah nonnu d’appu pottau sa cosa e’pappai oi 91

eh itta m’asi pottau a pappai?92

eh nonna adi bocciu su caboniscu 93

su caboniscu entr’e xida?! no, no! e itt’adi mottu caboniscu mobadiu?? 94

no no. d’adi mottu annanti miu, non fiat mobadiu Perché non era abituato a mangiare carne durante la settimana. L’aveva dato al cane! Io come ero rientrata da nonna beh contentu nonnu duu? nossa, si dd’adi donada a su cani sa cos’e pappai lassammiddu benni! Ca non di torrada a’biri petza intr’e xida!95 Perché non si usava, talmente era abituato a mangiare quelle cose solite. (Modesta, Assemini). Occorre sottolineare come tra le aree maggiormente urbanizzate e le aree a vocazione contadina vi fossero grandi differenze in termini di composizione dei menù delle feste. Mentre nelle zone maggiormente legate all’agricoltura permaneva una netta distinzione tra le tipologie di alimenti cucinati giornalmente e quelle tipicamente consumate nei periodi di festa, in ambito urbano tali

differenze si assottigliavano. Rimaneva stabile l’abitudine di cucinare specifici piatti in

occasione di alcune importanti festività, ma il menù domenicale non differiva particolarmente da quello settimanale, mentre a cambiare erano soprattutto le quantità di cibo presenti sulla tavola. Questa differenza è evidenziata in particolare da una intervistata originaria del

89 Trad.: Nonna aveva detto "ma cosa potrò preparar da mangiare a tuo nonno? Credo che ucciderò un galletto." 90 Trad.: il galletto intero lo aveva cotto in brodo, intero nel brodo, e poi ci aveva fatto la minestra.

91 Trad.: ecco nonno le ho portato la roba da mangiare. 92 Trad.: e cosa mi hai portato da mangiare?

93 Trad.: nonna ha ammazzato il galletto.

94 Trad.: galletto in settimana?! No, no! E che ha ammazzato un galletto ammalato??

95 Trad.: "no, no. L'ha ucciso davanti a me, non era ammalato". Perché non era abituato a mangiare carne durante

la settimana. L’aveva dato al cane! Io come ero rientrata da nonna “beh contento tuo nonno?" "Nossignora, la roba da mangiare l’ha data al cane". "Lascia che rientri a casa! Stai sicura che non rivedrà carne durante la settimana!"

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capoluogo regionale (Cagliari), trasferitasi in giovane età in un piccolo paese dell’Alto

Oristanese a seguito del matrimonio con un uomo della zona:

La domenica mamma di solito faceva più o meno un pranzo normale. Come quello di tutti i giorni. Non so, non faceva il minestrone ma poteva fare tortellini in brodo, e la carne in brodo. Oppure la pasta al fo o. Mi i o do he ua do e ava o pi oli i pia eva olto. I gio i di festa e a o u po’ legati alle t adizio i. Ad ese pio a Pas ua, se p e l’ag ello a osto. Pe ese pio o e piatto fo te. Oppu e il maialetto arrosto a Natale. Per il cenone. I giorni di festa così si variava, non mi ricordo che ci fosse molta o a pa ti ola e. Fo se gli a tipasti, he tutti gli alt i gio i o ’e a o. Pe ò alt o o. Sa d a, Alto Oristanese).

I dolci delle feste, invece, differivano completamente da quelli consumati nel quotidiano. Le festività religiose, in particolare, venivano celebrate con preparazioni dolciarie specifiche strettamente connesse alle risorse alimentari del periodo:

Allora, sicuramente il periodo dei morti si preparavano i pabassi i. I pa assi i e ’e a o a he uelli di due tipi. Quelli tradizionali che venivano fatti con lo strutto e poi la versione che è venuta dopo, quella come le ciambelle, con la pasta di ciambelle. E poi ancora quella fatta di saba96. C’e a o t e ve sio i di

pabassini e lei prevedeva di farli tutti e tre perché a seconda dei gusti doveva sistemarci tutti. Poi dopo uesta ’e a il a evale. E a he lì, og i gio o di a evale ’e a u a f ittu a dive sa. Dalle hia hie e alle zippole, ai fatti fritti, a is coccoisi. Insomma ogni giorno, non faceva mai, difficilmente faceva due volte la stessa f ittu a. Fa eva tutte le f ittu e. Poi a ivava Pas ua e logi a e te ’e a o le fo agelle. Da mangiare tipicamente di ricotta qua. I dolci legati alle feste consacrate erano questi. Però ad esempio, og i volta he ’e a u o plea o, allo a lì i poteva o esse e i dol i di a do le fatti apposita e te pe l’o asio e, le to te. Ma a, Alto Oristanese).

La stagionalità connotava in maniera forte le preparazioni dolciarie, con una certa persistenza anche in ambito urbano. La principale differenza tra questo contesto e quello rurale-contadino era data semmai dalla differente disponibilità domestica di taluni prodotti (ad esempio la ricotta

impiegata per i dolci pasquali o la sapa di vino caratteristica dei “papassinos97” prodotti durante

le festività autunnali di Ognissanti) e quindi dalla necessità di dover acquistare ogni ingrediente necessario. Cosa quest’ultima che limitava fortemente la produzione dolciaria di quelle famiglie dal tenore di vita più basso:

I dol i o he p i a… i dol i so o ve uti dopo gli a i ’ . Qual he dol e, ual he to ta fatta di i otta. poi i dolci hanno avuto una buona partecipazione nella nostra mensa, diciamo. Anche adesso, la domenica no i a a il dol e. Pe ò egli a i s o si o. […] Mia ad e o e fa eva. Pe h o e

96 Trad.: Sapa.

97 I papassinos sono un dolce della tradizione sarda, tipicamente realizzato nel periodo delle festività di Ognissanti.

Il nome stesso suggerisce l’ingrediente principale ovvero l’uva passa, alla quale si deve aggiungere anche l’utilizzo della sapa (mosto cotto) di vino, facilmente reperibile nel periodo che seguiva di poco la vendemmia.

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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.

aveva o la possi ilità di fa le ueste ose. A he vole do. Mia ad e dopo il ’ ual osa ha fatto. (Pietro, Carbonia).

Allo stesso tempo, una maggiore disponibilità economica consentiva – soprattutto in ambito

urbano – il consumo di differenti tipologie di dolci, non solo quelli appartenenti alla tradizione sarda ma anche prodotti industriali quali gelati e cioccolata:

Beh mamma faceva le chiacchiere a Carnevale, le meraviglie. Poi la torta Margherita, la faceva egola e te tutto l’a o. Poi e o p ava o a he. Gelati sop attutto. Ma dol i.. Ba o i o p ava sempre il cioccolato, o bianco o fondente, almeno una volta ogni 10 giorni. Lo vendevano a cubetti grossi. In effetti non siamo stati grandi mangiatori di dolci. Tutti i dolci sardi venivano comprati, nessuno in casa ne faceva, oltre ai Bianchini che faceva mia nonna. Ma nessuno ha mai fatto amaretti, queste cose qui. Lì si comprava, che so per compleanni, occasio i. No ’e a l’a itudi e di fa e dol i i asa, olt e ueste cose di consumo veloce. (Sandra, Alto Oristanese).

È interessante osservare come le festività natalizie, oggi forse le più importanti dal punto di vista culinario, venissero festeggiate con una enfasi decisamente inferiore e non prevedessero la realizzazione di dolci particolari, quanto invece la possibilità di scambiarsi frutta fresca (in particolare mandarini) e secca (fichi, noci e nocciole), ritenute comunque delle prelibatezze speciali:

Per Natale io non mi ricordo di fare dolci particolari. Era più per i santi e per Pasqua, ma per Natale no. I dolci normali che poteva fare durante la settimana. Come quelli che facevamo quando preparavamo il pane, ma cose così no. Per Natale generalmente avevamo mandarini, per noi era una festa, le mandorle, i pistacchi, e frutta secca. Questo sì. Le castagne. Ecco, le castagne la notte di Natale si dovevano arrostire sempre. (Piera, Alto Oristanese).

Le festività religiose forse maggiormente sentite dalla popolazione, e alle quali corrispondeva un grande dispendio di energie per la preparazione di dolci e pani speciali, erano quelle pasquali. La maggiore disponibilità di risorse alimentari del periodo nel quale cadono le festività pasquali (la primavera) si traduceva nella produzione di dolci a base di ricotta e formaggi freschi e mandorle, pani tradizionali finemente decorati e ornati di uova e uva passa:

Nel periodo di Pasqua faceva tutte le varie forme del pane per le settimane di Quaresima. Quindi il Lazza o, il pes e, o su a oi u s’ou98, e ete a e ete a. O su a oi de p a a, uello o l’uvetta,

che era nostro preferito. (Rosa, Alto Oristanese)

98 Il coccoi è una tipologia di pane estremamente diffuso in Sardegna, a pasta dura e liscia, realizzato con la semola.

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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.