2. Il disegno della ricerca: obiettivi, ipotesi e metodi
2.1 Come studiare il cibo?
Un passaggio essenziale per la definizione del campo di studi sul cibo, nonché dei metodi e tecniche impiegati al suo interno, ci viene da Miller e Deutsch (2009) secondo i quali gli studi sul cibo non sarebbero riassumibili tanto negli “studi sul cibo stesso, quanto nello studio delle relazioni tra cibo ed esperienza umana” (p. 3).
Gli stessi proseguono sottolineando l’importanza di affidarsi ad entrambi i paradigmi metodologici, qualitativo e quantitativo. Da un lato, la ricerca quantitativa consente di raccogliere dati di tipo numerico utilizzabili per la definizione e l’analisi delle relazioni esistenti tra il cibo e le varie esperienze umane ad esso connesse. D’altra parte la ricerca qualitativa consente di attingere a descrizioni dense (Geertz 1973) dei fenomeni e delle relazioni studiate, che ne arricchiscono inevitabilmente l’analisi. Le differenti prospettive di analisi offerte dai due paradigmi ci hanno spinto a ritenere che un approccio fondato unicamente su una delle due metodologie avrebbe inevitabilmente significato una minore ricchezza nei risultati e nella profondità dell’analisi. Si è perciò optato, fin dai primissimi passi di costruzione del disegno della ricerca, per un approccio fondato sui metodi-misti (Brannen 1995, 2005), così da ottenere allo stesso tempo una visione ampia e approfondita dei fenomeni da studiare, e un maggiore dettaglio su alcuni specifici elementi, utili per portare avanti comparazioni tra gruppi diversi o indagare le relazioni esistenti tra le variabili individuate.
La scelta di utilizzare un approccio misto non è stata influenzata unicamente dalle necessità puramente metodologiche e tecniche di raccolta, elaborazione e analisi dei dati, ma discende in maniera diretta dalla rassegna bibliografica degli studi sul cibo, che ha fatto emergere un elemento basilare per la lettura di tutto il lavoro svolto. All’interno del capitolo 1 si è dato ampio spazio non solo ai diversi approcci sociologici che negli anni si sono susseguiti nell’ambito dei cosiddetti food studies, ma anche ad approcci e studi etnografici, antropologici, storici e bio- medici al fenomeno. Ognuno di questi affronta in maniera diversa lo studio e l’analisi dei
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medesimi fenomeni, fornendo delle prospettive sì diverse ma, allo stesso tempo, complementari.
Anche Mennell, Murcott e van Otterloo (1992) fanno riferimento alla vastità del fenomeno cibo e alla multidisciplinarietà che, nei decenni, ne ha contraddistinto gli ambiti di ricerca. La validità di un approccio multidisciplinare allo studio del cibo è supportata anche dalla difficoltà nel tracciare dei confini netti tra le diverse discipline. È il caso, ad esempio, degli studi etnologici sul cibo, al cui interno è possibile collocare, secondo gli autori, studi antropologici, etnografici e storici, accomunati dall’essere puramente descrittivi ed estranei a generalizzazioni di carattere squisitamente sociologico.
Per quanto riguarda gli studi etnografici, questi sono caratterizzati dall’approfondimento di aspetti legati ai tradizionali metodi di approvvigionamento, cottura e conservazione dei cibi in aree circoscritte, alla diffusione di specifici alimenti o ancora ad aspetti legati alla diffusione di specifici utensili e strumenti di cucina. Le differenze tra studi etnografici e studi storici sono piuttosto sfumate. Possiamo affermare che se i contributi etnografici si sono concentrati soprattutto sulle abitudini degli strati sociali inferiori e sulle aree periferiche (Miller e Deutsch,
2009; Mennell; Murcott e van Otterloo, 1992) – piuttosto che sui grandi centri urbani –
l’approccio storico dal canto suo si è spesso occupato di indagare non solo i tratti salienti delle diverse cucine che nei secoli si sono susseguite ed intrecciate, ma ha fornito uno spaccato
essenziale sulle abitudini alimentari delle élites – peccando forse talvolta di superficialità nei
confronti delle cucine popolari – sulla mutevole disponibilità alimentare e sui percorsi compiuti dai cibi in lungo e in largo per il globo terrestre, senza dimenticare il peso fondamentale di politica ed economia nel determinare tali dinamiche38. Come sottolinea Mennell (1985), gli
studi storici si sono concentrati in misura predominante sulla offerta alimentare globale e locale, e assai meno sulla domanda di cibo e sui fattori alla base delle sue variazioni. A tal proposito, la prospettiva antropologica ha da sempre prestato maggiore attenzione per gli elementi culturali e simbolici connessi alle pratiche alimentari, concentrandosi quando sul ruolo del cibo quale veicolo d’espressione identitaria, quando sulle proprietà di medium rispetto alle relazioni comunitarie, individuali o addirittura tra mondo umano e mondo divino (ivi par. 1.4).
38 Mennell, Murcott e van Otterloo (1992) indicano al riguardo il fondamentale contributo dato dalle pubblicazioni
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Allontanandosi dall’ambito delle scienze sociali, occorre ricordare anche l’importante apporto degli studi su cibo e alimentazione condotti in ambito bio-medico, e in particolare all’interno del campo epidemiologico. Possiamo ritenere che questo filone di studi non abbia mai perduto di importanza e, anzi, oggi, risulti più che mai attuale, soprattutto se pensiamo all’impatto di
studi su longevità e alimentazione e alla istituzione delle blue zones39. Gli interessanti studi
condotti in Sardegna dal gruppo di medici capeggiato da Peretti (ivi par. 1.4.2), per la loro distribuzione spaziale e temporale (si tratta di una serie di indagini che hanno avuto luogo a partire dal 1938 e che sono proseguite negli ultimi decenni del ‘900 grazie al lavoro dell’Istituto di Fisiologia Umana di Cagliari, interessando comuni dislocati nelle province di Cagliari, Oristano, Nuoro e Sassari) hanno fornito un importante contributo allo studio della evoluzione delle abitudini alimentari conseguenti alle modificate condizioni di vita nella seconda metà del novecento. Seppure le strutture concettuali di tali studi differiscano in maniera sostanziale dagli approcci sociologici ed etnologici al fenomeno cibo, rappresentano un interessante punto di
partenza per lo sviluppo di una analisi che – seguendo l’approccio sviluppista – non privilegi
unicamente gli aspetti simbolici e culturali legati alla alimentazione ma, piuttosto, metta in
evidenza l’importanza di variabili di diversa natura, in particolare di tipo economico.
Si reputa necessario richiamare, seppur brevemente, anche Poulain (2008), il quale fa espressamente riferimento alla necessità di studiare le questioni legate all’alimentazione a partire da una duplice prospettiva d’analisi, sociologica e antropologica. Egli si riferisce specificatamente al concetto di socioantropologia (ibidem, pag. 197), la quale avrebbe come oggetto il modo in cui le culture e le società investono, organizzano lo spazio di libertà concesso dal funzionamento fisiologico del sistema digestivo dell’uomo e dalle modalità di sfruttamento delle risorse messe a sua disposizione dall’ambiente naturale in grado di essere prodotta nel quadro delle leggi più fisiche e climatologiche del biotopo. L’investimento realizzato ad opera del sociale su quella zona di libertà contribuirebbe alla creazione di identità alimentari e alla
39 Con questo nome vengono identificate le aree che, a livello mondiale, detengono i più elevati tassi di longevità.
A tal proposito, la Sardegna è divenuta oggetto di numerosi studi demografici per l’alta presenza percentuale di centenari di sesso maschile in alcune zone dell’isola. In particolare si fa riferimento al lavoro portato avanti dal gruppo di ricerca coordinato da Gianni Pes e Michel Poulain, (2004), Identification of a Geographic Area Characterized by Extreme Longevity in the Sardinia Island: the AKEA study, Experimental Gerontology e Dan Buettner, (2009), The Blue Zones: Lessons for Living Longer From the People Who've Lived the Longest, National Geographic, per la concettualizzazione delle blue zones, cinque aree distribuite a livello globale e caratterizzate per la più elevata presenza di centenari, di cui anche la Sardegna fa parte.
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socializzazione del corpo ad esse. Tuttavia, ciò non è sufficiente e la socioantropologia consentirebbe di estendere la prospettiva di analisi anche alle interazioni con dimensione biologica, ecologica e sociale.