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La fine delle II guerra mondiale e il I Piano di Rinascita

3. Il contesto

3.1.2 La fine delle II guerra mondiale e il I Piano di Rinascita

Gli anni della guerra rappresenteranno per la Sardegna un momento di esacerbazione delle preesistenti condizioni di isolamento e perifericità rispetto al resto d’Italia. All’indomani della guerra l’isola dovette fare i conti con una lentissima ripresa e con le difficoltà dell’approvvigionamento dall’esterno. I segnali di una effettiva ripresa arriveranno solo a

partire dal 1949. Brigaglia47 (2006) suggerisce che la storia della Sardegna della seconda metà

del Novecento possa essere suddivisa in quattro fasi ideali. La prima, appunto, iniziò nel 1949 e finì nel 1958. In questo periodo si realizzò la ricostruzione dell’isola, a seguito della fine del secondo conflitto mondiale. I primi problemi affrontati in questa fase di ricostruzione ebbero a che fare innanzitutto con l’eredità del fascismo, e nello specifico con un processo di bonifica solo parziale, che nei fatti interessò unicamente le aree circoscritte alle città nuove di Mussolini, Arborea e Fertilia. In secondo luogo, con la fine della guerra e soprattutto delle politiche autarchiche fasciste si aprì una nuova stagione di profonda – e irreversibile – crisi del settore minerario, in particolare quello orientato alla produzione del carbone. Un ulteriore grosso ostacolo alla ripresa era rappresentato dalla arretratezza infrastrutturale che caratterizzava

47 Brigaglia, Manlio, Cronache del secondo Novecento, in Brigaglia, Manlio, Attilio Mastino, e Gian Giacomo

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grossa parte dei comuni isolani, ancora senza acquedotti, senza fognature, in molti casi senza scuole e con cimiteri non adeguati. La rete stradale sarda rafforzava il senso di isolamento delle comunità locali, allo stesso tempo le comunicazioni con la penisola erano quanto mai complicate.

In ragione dei problemi descritti, la prima fase di ripresa socioeconomica della regione fu caratterizzata da alcuni mirati interventi:

- la battaglia per la soppressione della malattia endemica della malaria, con la costituzione nel 1946 dell’ente regionale di lotta antianofelica (ERLAAS). A seguito della massiccia campagna di disinfestazione dei focolari di nascita della zanzara portatrice della malaria, nel giro di quattro anni, nel 1951, la patologia si poté dire sconfitta poiché non si registrò nessun caso di contrazione della malattia tra la popolazione sarda;

- costituzione di tutta una serie di eventi funzionali all’organizzazione della ripresa stessa,

quali: l’ente sardo acquedotti e fognature (EAF); l’Istituto sardo per l’organizzazione del lavoro

artigiano (ISOLA); l’ente sardo di elettricità (ENSAE) che, come sottolinea Brigaglia (2006, p.

153) fu il precursore della nazionalizzazione dell’energia elettrica che ebbe luogo a distanza di

ben dieci anni; l’ente sardo industrie turistiche (ESIT), il cui lavoro fu fondamentale per il

successivo sviluppo turistico dell’isola;

- l’avvio della riforma agraria con la nascita, nel 1951, dell’ente di trasformazione fondiaria e agraria della Sardegna (ETFAS). Questo ente nacque per espletare le funzioni fondamentali di esproprio, bonifica, trasformazione, e quindi riassegnazione delle terre ai contadini.

Le premesse di sviluppo sancite dall’avvio della riforma agraria, e ancor più rafforzate dal

programma di interventi inseriti all’interno del progetto Sardegna OECE48, subirono nel tempo

una evoluzione (dapprima lenta) che finì con l’invertire completamente i presupposti di

48 Il Progetto Sardegna dell'OECE, progetto pilota sviluppatosi tra il 1958 e il 1962 nella zona dell'Alto Oristanese

ricompresa tra Oristano, Bosa e Macomer. Esso adottava una prospettiva ben lontana dalle idee di sviluppo industriale prevalenti nel periodo, proponendo interventi fortemente innovativi e uno sviluppo centrato sulle risorse e i saperi locali, attraverso il loro utilizzo ed il miglioramento della loro produzione. Per un approfondimento dell’esperienza realizzata in Sardegna si veda Anfossi, Anna (2000), “Socialità e organizzazione in Sardegna. Studio sulla zona di Oristano-Bosa-Macomer”, Cagliari, CUEC.

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sviluppo dal basso e di rafforzamento del comparto agricolo che ebbero a caratterizzare tutta la prima fase della ripresa.

La seconda fase della ripresa economica, individuabile a partire dal 1958, coincise con l’insediamento di una nuova giunta regionale guidata dal democristiano Efisio Corrias. Già durante tutti gli anni ‘50 si erano fatte forti le rivendicazioni per il rispetto dell’articolo 13 dello

statuto della regione autonoma della Sardegna49: “Lo Stato col concorso della Regione dispone

un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola”. Le lotte per vedere riconosciuti i contenuti di questo articolo portarono infine alla emanazione del piano di rinascita della Sardegna, con la legge nazionale 588 del 1962 e la legge regionale di attuazione numero sette del 1962. In realtà il processo che portò alla concretizzazione del piano di rinascita della Sardegna conobbe due momenti distinti piuttosto distanti tra loro. Innanzitutto, già nel 1951 venne costituita la commissione di studio del piano di rinascita. I lavori di questa commissione si rivelarono estremamente lunghi e solo nel 1959 vennero presentati formalmente a Roma. Nello stesso anno venne istituito il gruppo di lavoro per il piano di rinascita. Il passaggio di lavori dalla commissione al gruppo di lavoro vide però un cambiamento radicale anche nei contenuti del piano. I lavori del gruppo istituito nel 1959, che confluirono nella legge del 1962,

spostarono completamente l’interesse verso uno sviluppo di tipo industriale (a dispetto di

quanto fino ad allora progettato a favore della rinascita agricola della regione). Ecco dunque che principi fondanti del piano di rinascita della Sardegna divennero quelli dell’industria come motore di sviluppo, ma in particolare della grande industria di base organizzata per poli. Le risorse stanziate per il periodo 1962-1974 ammontarono a 400 miliardi di lire, che nelle

intenzioni del piano sarebbero serviti a far decollare l’industria in Sardegna e a risolvere una

volta per tutte i problemi infrastrutturali, di crescita del capitale umano e professionale, di adeguato sfruttamento delle risorse reperibili a livello locale e naturalmente le questioni legate alla crescita dell’occupazione e dei redditi disponibili. Con lo sviluppo industriale in aree selezionate sembrava essersi trovata la panacea finale per tutti i mali che affliggevano il territorio sardo.

Nonostante le previsioni più rosee il “periodo della rinascita” si rivelò fallimentare sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, nonostante la creazione di alcuni poli industriali (le tecnologie ENI

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per la costruzione della petrolchimica Rumianca ad Assemini; gli stabilimenti petrolchimici di proprietà della SIR dell’Ing. Rovelli a Porto Torres, la raffineria della Saras Petroli di Angelo Moratti a Sarroch50; la fabbrica per la produzione di fibre acriliche e nylon della Snia a

Villacidro, ed infine la cartiera di Arbatax, del gruppo Timavo) la crescita occupazionale registrata in quegli anni fu piuttosto circoscritta così come l’aumento dei redditi si rivelò costantemente al di sotto dell’aumento registrato nelle altre regioni d’Italia. Occorre precisare che a questa crescita frenata di occupazione e redditi contribuì, in quel periodo, la parallela crisi del carbone e la chiusura di numerose miniere. Furono anni di grandi cambiamenti anche per gli occupati della centrale elettrica di Portovesme, che iniziò ad utilizzare il petrolio al posto del carbone.

Alla rapidissima urbanizzazione dei maggiori centri, delle aree costiere e, naturalmente, dei territori interessati dallo sviluppo industriale corrispose una altrettanto forte emigrazione fuori dall’isola e un preoccupante spopolamento delle aree interne, fenomeno quest’ultimo che caratterizzò il territorio nei decenni a venire e tutt’oggi si fa sempre più acuto (Bottazzi, Puggioni e Zedda, 2006). La Sardegna andava a configurarsi non come la terra della ripresa economica e della vittoria contro i problemi di sottosviluppo che da sempre la caratterizzavano, quanto invece come la terra degli squilibri. Oltre agli squilibri territoriali tra aree interne spopolate e aree urbane in continua espansione, si facevano sempre più forti di squilibri di natura sociale tra la classe media e operaia figlie del benessere del piano di rinascita e del sostegno allo sviluppo industriale, e dall’altra parte il mondo agropastorale e minerario lasciato al suo destino. A sancire in modo inequivocabile l’inefficacia del piano fu, però, la crisi petrolifera internazionale del 1974 (coincidente con la terza fase della ripresa economica individuata da Brigaglia), che ebbe ripercussioni pesanti sull’economia sarda, caratterizzata appunto dalle scelte di investimento poco oculate e concentrate unicamente nel settore della grande industria petrolchimica.

50Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 sorgeranno, rispettivamente, lo stabilimento di lavorazione di prodotti

chimici della Rumianca (località Macchiareddu, nel comune di Assemini, distante circa 15 km da Cagliari) e la raffineria SARAS di Angelo Moratti (nel comune di Sarroch, anche questo poco distante dal capoluogo regionale). A Porto Torres sorgerà nel 1959 la SIR (Sarda Industrie Resine) di Nino Rovelli. Quest’ultimo rileverà nel 1967 le quote della Rumianca, andando a costituire la nuova SIR-Rumianca, la quale a sua volta finirà per essere nazionalizzata, passando al gruppo ENI-Montedison. Per un approfondimento degli sviluppi dell’industrializzazione sarda si vedano, oltre a M. Brigaglia (a cura di), Storia della Sardegna, vol. 2. Dal Settecento a oggi, Ed. Laterza, Roma 2006, anche S. Ruju (a cura di), Gli anni della SIR, Edes, Sassari 1983.

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