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Cibo e storia: modernità, industrializzazione ed evoluzione delle abitudini alimentari

1. Inquadramento teorico

1.2 Cibo e storia: modernità, industrializzazione ed evoluzione delle abitudini alimentari

La tematica alimentare ha visto l’interesse non solo di sociologi e antropologi ma anche di storici. Mennell, Murcott e van Otterloo, (1992) fanno esplicito riferimento alle opere di

Fernand Braudel, il quale attraverso l’école des annales – e l’obiettivo di dar vita ad una storia

della vita materiale – segna l’avvio di un importante filone di studi sulla storia del cibo. Assieme

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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.

2006), si sono occupati della ricostruzione della storia dell’alimentazione e della cucina europee e mondiali, a partire dal medioevo e fino ai giorni nostri.

D’altra parte, gli stessi esponenti dell’approccio sviluppista hanno più volte affermato l’importanza di partire dalla prospettiva storica per evitare di incappare nei processi di riduzionismo culturale e simbolico che sarebbero tipici dell’approccio strutturalista (Mennell 1985, Mintz 1985). In linea con quanto affermato da tali autori, riteniamo che la prospettiva d’analisi fornita dagli studi storici sull’alimentazione rappresenti un elemento imprescindibile nello studio delle pratiche e abitudini alimentari e relative trasformazioni. In particolare pensiamo che i cambiamenti registrati da abitudini e preferenze alimentari negli ultimi decenni necessitino di una preliminare riflessione sulle trasformazioni nelle abitudini e pratiche alimentari a loro volta indotte dai processi di industrializzazione che, tra il XIX e il XX secolo, interessarono Europa e Stati Uniti e segnarono l’avvento dell’industria alimentare.

Come sottolineato da Saunier e Bruegel (2006), è ai primi del 1900 che le industrie alimentari, seppur in parte rinvenibili anche precedentemente, iniziarono a produrre su larga scala beni che esistevano già ma che venivano fabbricati in un contesto domestico, contadino o artigiano. Come accaduto per altre tipologie di industrie, anche quelle alimentari si caratterizzarono per la:

- produzione su larga scala; - specializzazione delle mansioni; - meccanizzazione;

- automazione dei processi produttivi.

Parallelamente alla diffusione della produzione alimentare industriale, prese il via il declino delle produzioni domestiche, agricole e artigianali. Una simile conversione non si verificò in maniera immediata, si assistette piuttosto ad una lenta trasformazione, assai differenziata territorialmente. A conferma di ciò basti pensare che tutt’oggi in Europa permangono sacche di resistenza domestica, laddove tali produzioni riescano ancora a garantire un vantaggio economico e sociale rispetto alle produzioni di tipo industriale.

Per capire la portata della trasformazione data dall’avvento dell’industria alimentare occorre però soffermarsi sui dati relativi al commercio di un prodotto alimentare fondamentale quale il

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grano, nella seconda metà del XIX secolo. Se nel 1850 il grano consumato in Inghilterra proveniva in minima parte dall’estero (in particolare Stati Uniti e Ucraina che fornivano in totale il 15% del fabbisogno nazionale di tale materia prima), nel 1914 la situazione risultava essere completamente ribaltata (appena il 15% del fabbisogno totale veniva coperto con la produzione nazionale). Una simile situazione va letta tenendo conto di alcuni fattori fondamentali, quali l’abbassamento del costo dei trasporti e la conseguente contrazione delle distanze geografiche. La possibilità di accedere con facilità alle rotte del commercio internazionale consentiva di ottenere prodotti altamente competitivi dal lato del prezzo, senza che le spese di trasporto, appunto, intaccassero tale vantaggio. L’esempio del grano portato da Saunier e Bruegel (2006) apre ad alcune fondamentali riflessioni. Le modifiche che a livello globale interessarono la capacità di spostare merci e persone in tempi sempre più rapidi e a costi sempre più bassi ebbero invero grandi ripercussioni sulla locale industria legata alla lavorazione di tale materia prima. In Inghilterra si assistette infatti ad una massiccia concentrazione di mulini, industrie di confezionamento e biscottifici, in prossimità dei porti. Ciò causò in breve tempo la scomparsa delle piccole realtà sparse nei territori, assolutamente incapaci di reggere la competitività di costo delle industrie di maggiori dimensioni. L’industria alimentare infatti finì con l’insediarsi in quelle aree dove era possibile reperire le materie prime al costo più basso e dove, allo stesso tempo, si poteva usufruire del più ampio bacino di possibili consumatori. A favorire lo sviluppo dell’industria alimentare non fu soltanto il miglioramento delle condizioni di trasporto ma anche alle nuove tecniche di conservazione degli alimenti, le nuove tecniche di confezionamento degli stessi e soprattutto la prevaricazione sulle forme tradizionali di produzione. Quest’ultimo passaggio soprattutto avvenne in maniera estremamente graduale. Come riportano i due autori, le prime industrie alimentari a diffondersi furono infatti quelle legate alla trasformazione delle materie prime, quali ad esempio le distillerie, i frantoi e zuccherifici, che poterono trarre grandi profitti dagli enormi differenziale di produttività registrati rispetto ai medesimi impianti di tipo tradizionale. Solo in una fase successiva, durante tutto il novecento, e in maniera estremamente differenziata, presero piede le cosiddette industrie di seconda trasformazione, quali le industrie conserviere, i pastifici, i biscottifici, i cui prodotti andarono via via a soppiantare le produzioni casalinghe.

Secondo Saunier e Bruegel (2006), la sempre più rapida diffusione dell’industria alimentare

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anche alla necessità di sfamare il crescente proletariato urbano – che culminò con l’avvento

della II guerra mondiale e dei problemi di scarsità e fame che si trascinavano in realtà già dalla I guerra mondiale. La fine del secondo conflitto mondiale sancì un vero e proprio spartiacque per le sorti alimentari europee, a seguito del quale venne a crearsi quella che ancora oggi conosciamo come società dell’abbondanza, caratterizzata da elevati consumi di grassi, zuccheri e proteine di origine animale. Questa nuova fase di espansione industriale interessò in maniera indifferenziata in buona parte degli Stati europei, e anche in Italia, dove si assistette alla riorganizzazione delle vecchie industrie (nomi quali Buitoni, Agnesi e Motta) e il lancio sul mercato di nuovi prodotti (Montanari e Capatti, 2005), come il giandujot della pasticceria Ferrero ad Alba e la supercrema che diverrà poi Nutella (nel 1964). In quegli stessi anni in

Italia vennero importati e si rafforzarono alcuni miti culinari d’oltre oceano, quali la ristorazione

fuori casa (drive-in), le bevande come la Coca Cola o prodotti come i cracker, che piano piano presero il posto, nell’immaginario collettivo, delle scatolette dei pacchi aiuto di pochi anni prima.

L’industria alimentare crebbe e si trasformò anche grazie alle altre industrie, e in particolare al boom tecnologico che accompagnò il boom alimentare. Cucine, frigoriferi, fornetti e successivamente congelatori, rivoluzionarono le abitudini alimentari ed il ruolo umano, ancor prima che femminile, in cucina. Tuttavia, se da un lato presero piede numerose innovazioni alimentari, soprattutto in termini di standardizzazione e omogeneizzazione dei gusti, d’altra parte rimasero evidenti differenze in termini di identità culinarie territoriali. Tali differenze, anziché assottigliarsi col tempo, risultarono via via rafforzate dal crescente interesse per il

mondo della gastronomia e del “gusto culinario”. Negli stessi anni dell’espansione

dell’industria alimentare italiana, si diffusero guide gastronomiche e marchi di qualità dei prodotti territoriali, che decretarono la fortuna delle cucine regionali.

Del processo di trasformazione culinaria seguito dalle società industrializzate si è occupato Herpin (1988), sostenitore della tesi della modernità alimentare, secondo il quale nelle società industriali avanzate i pasti subirebbero un processo di destrutturazione e destabilizzazione, tale da indurre fenomeni di:

1) “de-concentrazione”, l’assunzione di cibi non avverrebbe più in due o tre momenti della

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2) “de-impiantazione”, gli orari in cui si consumano i pasti non sarebbero più contenuti in

una precisa fascia ma varierebbero ampiamente;

3) “de-sincronizzazione”, anche all’interno dello stesso gruppo (famiglia o gruppo di

lavoro) gli orari del pasto tenderebbero a non coincidere più, facendo perdere al pasto una delle sue funzioni tradizionali quale quella di incontro e di scambio;

4) “de-localizzazione”, il pasto non verrebbe più consumato in una stanza precisa ma

sempre più spesso “dove capita” (nella propria camera da letto, sul posto di lavoro, in macchina);

5) “de-ritualizzazione”, il pasto quotidiano infra-settimanale sembrerebbe sempre meno

sottoposto a regole; al contrario si andrebbero rafforzando le norme e i rituali osservati durante il pasto domenicale o nelle occasioni particolari (compleanni, anniversari, ecc.). I caratteri del cambiamento delineati da Herpin, forniscono una interessante chiave di lettura delle trasformazioni indotte dai processi di modernizzazione industriale, ma soprattutto forniscono un interessante esempio di raccordo tra dimensione storica e dimensione sociologica del fenomeno cibo.