3. Il contesto
3.1.1 La Sardegna del ventesimo secolo: strategie di sviluppo durante il ventennio fascista
Nel corso del novecento, la Sardegna ha attraversato dei cambiamenti epocali, non solo a
cavallo tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 (a seguito di importanti processi di modernizzazione
dell’economia in chiave di sviluppo industriale) ma – come descritto da Marroccu46 (2006) –
già prima, durante il ventennio fascista, con tutta una serie di interventi volti a incidere profondamente sugli assetti agrari da un lato, e sul già consolidato mondo minerario dall’altro. Come sostiene l’autore, le simpatie fasciste in Sardegna si manifestarono a partire dai principali
centri urbani, quali Cagliari, Sassari, la Maddalena e Terranova (l’attuale Olbia). Furono
interessati anche centri agricoli come Ittiri e i centri minerari, tra i quali soprattutto la cittadina di Iglesias. Le capacità di diffusione del fascismo in Sardegna dipesero in gran misura dalle dinamiche di insediamento all’interno della corrente politica sardista, buona parte dei cui esponenti finì col confluire tra le fila stesse del PNF (partito nazionale fascista). A dimostrazione della pervasività di queste prime fasi, lo stesso Emilio Lussu si dimostrò in un primo momento titubante rispetto alla opportunità o meno di aderire al movimento che, nel frattempo, prendeva piede in Sardegna.
45 Il presente paragrafo segue la ricostruzione presentata da Brigaglia, Mastino e Ortu (2006) all’interno del volume
n.2 di Storia della Sardegna (dal Settecento a oggi), edito da Laterza.
46 Marroccu, Luciano Il Ventennio Fascista in Brigaglia, Manlio, Attilio Mastino, e Gian Giacomo Ortu (a cura
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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.
Il primo provvedimento del governo fascista ad avere grande rilievo per le sorti sarde, si ebbe nel 1924 con la “legge del miliardo” che prevedeva lo stanziamento di una cifra impensabile per l’epoca (1 miliardo di lire) ripartita secondo un piano decennale di opere pubbliche e costruzione di infrastrutture. Contemporaneamente, tra il 1923 e il 1927, il segretario federale della provincia di Cagliari Paolo Pili (confluito anche lui al PNF sardo dal partito sardo d’azione) portò avanti un piano di promozione delle latterie cooperative che consentì ai pastori di liberarsi dalle imposizioni dell’industriali caseari, ottenendo prezzi del latte più vantaggiosi. Questi due eventi, la legge del miliardo e il parziale miglioramento delle condizioni economiche dei pastori, rappresentarono l’avvio di una prima modesta fase di modernizzazione della Sardegna, che però si interrompe bruscamente a seguito della politica di rivalutazione della lira (la cosiddetta quota 90) e della grave crisi agricola che interessò tutto il territorio italiano, e
nello specifico tutte le produzioni destinate all’esportazione. In Sardegna, in particolare, furono
fortemente colpiti il comparto vitivinicolo e la pastorizia. Settore quest’ultimo fortemente influenzato dal commercio di pecorino romano che avveniva in larga parte con gli Stati Uniti d’America. Da tale crisi conseguì una contrazione delle terre dedicate al pascolo, spinta anche dalla parallela incentivazione alla coltivazione del frumento (la cosiddetta battaglia del grano promossa dal fascismo).
Nonostante gli interventi a favore dello sviluppo agricolo, e conseguentemente delle aree rurali, in Sardegna tra gli anni ‘20 e la metà degli anni ‘30 si registrò una grande espansione urbana, in particolare di Cagliari. I piani di ruralizzazione del governo fascista in Sardegna prevedevano anche un importante piano di bonifica, a partire da quella imponente della piana di Terralba ove nel 1928 sorse il villaggio Mussolini, denominato poi Mussolinia ed infine Arborea. Dietro l’imponente piano di bonifica stava la società bonifiche sarde (SBS) controllata dalla Banca Commerciale Italiana e diretta dall’ingegnere veneto Giulio Dolcetta (in carica dal 1918 al 1933). Gli ingenti finanziamenti pubblici necessari alla realizzazione del progetto furono garantiti da due leggi sulla bonifica integrale rispettivamente del 1923 del 1924, grazie alle quali nelle aree oggetto di bonifica fu possibile finanziare fino a quasi il 90% delle spese legate alla sistemazione dei corsi d’acqua e alla viabilità. Tuttavia i lavori di bonifica e modernizzazione stile “Mussolinia” non proseguirono, in conseguenza della fortissima opposizione di proprietari terrieri e gerarchi locali contro l’espropriazione delle terre. Al
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risorse pubbliche destinate alle opere di bonifica, da parte dei portatori di interesse locali, sia proprietari terrieri che esponenti politici, che presero via via a consorziarsi, creando reti clientelari e di interessi ben più longeve del regime stesso.
Una ulteriore svolta rispetto all’andamento del comparto agricolo la si ebbe, poi, nel 1929 a seguito della crisi internazionale, che non fece che inasprire i contorni della crisi agricola già esistente, e causata dalla rivalutazione della lira. Nel campidano di Cagliari, nel quale negli anni immediatamente precedenti erano stati riversati cospicui finanziamenti volti a sostenere il comparto vitivinicolo, e più in generale in tutto il territorio regionale per quanto riguardava il settore zootecnico, la rinnovata crisi esacerbò contrasti preesistenti tra pastori, proprietari dei pascoli e industriali caseari. Il gruppo dei pastori, socialmente e politicamente più debole, conobbe una emorragia di addetti e, tra il 1921 e il 1936, circa 20.000 unità abbandonarono l’allevamento. Come già accaduto negli anni precedenti questo ulteriore impoverimento della forza lavoro impiegata in pastorizia ebbe come contrappeso un aumento degli spazi agricoli
destinati alla cerealicoltura. Quest’ultimo settore, colpito anch’esso dalla crisi, non conobbe le
medesime dinamiche contrattive ma andò piuttosto incontro ad una forte diminuzione della produttività, soprattutto nel caso degli appezzamenti di minore entità.
Anche il settore minerario venne attraversato dalla crisi, particolarmente intensa a partire dal 1930. Alla generalizzata caduta dei prezzi dei minerali seguirono licenziamenti di massa e la chiusura di numerosi pozzi. Le stesse società minerarie andarono incontro ad una ridefinizione degli assetti proprietari: la società Montecatini assunse il controllo della Montevecchio e nello stesso periodo il gruppo spagnolo-francese Pertusola-Penarroya acquisì la “Miniere di Malfidano” e la “Gennamari-Ingurtosu”.
Ciò che favorì la ripresa del settore in Sardegna furono le precise scelte politiche orientate all’autarchia e al clima di guerra dell’epoca. Diretta conseguenza delle azioni del governo fascista fu anche la fondazione della città di Carbonia.
A livello normativo, invece, la ripresa del settore estrattivo fu sancita dalla istituzione con decreto della azienda Carboni Italiani (ACAI, 1935). Alla società venne dato il compito di acquisire le partecipazioni azionarie delle società operanti nella produzione di carbone, in modo da poter rendere l’Italia autosufficiente dal punto di vista delle risorse energetiche. La città di Carbonia, sorta nell’arco di un solo anno (la prima pietra venne posata a ottobre 1937 e
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l’inaugurazione della città ebbe luogo nel dicembre dell’anno successivo, con l’insediamento immediato di 8000 abitanti, che diventeranno 40.000 nel 1944), divenne l’emblema non solo della politica autarchica di regime ma più in generale della razionalità fascista applicata a tutti gli aspetti della vita quotidiana. La “Città nuova” venne progettata seguendo una rigida divisione gerarchica degli spazi, con zone residenziali destinate a dirigenti e impiegati, attigue alla piazza centrale, e zone più periferiche destinate ai minatori. La piazza concentrerà attorno a sé tutte le funzioni sociali (Torre littoria, Casa del fascio, palazzo podestarile, chiesa). Se, come detto in precedenza, il fascismo fu in grado di aprire una prima fase di
modernizzazione socioeconomica della regione, Carbonia ne rappresentò l’espressione più
ampia, concentrando all’interno del nuovo centro abitato una grande pluralità di provenienze,
costumi sociali, abitudini di vita – e non secondariamente abitudini alimentari – che
inevitabilmente finirono con l’essere modificate e plasmate secondo il modello di sviluppo
urbano.