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I principali esponenti del filone sviluppista

1. Inquadramento teorico

1.1 Il cibo nelle scienze sociali

1.1.3 Mennell e i fondame ti dell app o io sviluppista

1.1.3.1 I principali esponenti del filone sviluppista

Le maggiori influenze per il lavoro di ricerca e definizione teorica portati avanti da Mennell arrivano non solo dal suo mentore, Norbert Elias, ma anche dal lavoro dell’antropologo Jack Goody, il quale a buon titolo viene inserito tra i principali esponenti del filone sviluppista. Il suo contributo essenziale allo sviluppo della corrente, ma più in generale alla crescita

17In “Cooking, cuisine and class” (1982), l’antropologo britannico indaga le ragioni alla base dello svilupparsi di

sistemi culinari più o meno raffinati (esistenza o meno della contrapposizione tra cucina di élite e cucina povera), a partire dalle differenze nelle strutture delle diverse società. Di particolare rilevanza, la distinzione da lui utilizzata tra società ieratiche e società gerarchiche, caratterizzate da differenti livelli interni di stratificazione sociale.

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Emanuela Porru, Come cambiano le abitudini alimentari: cibo e processi di trasformazione socioeconomica. Tesi di dottorato in Scienze Politiche e Sociali, Università degli studi di Sassari.

dell’antropologia del cibo, è dato dall’opera “Cooking, cuisine and class” (1982), che rappresenta una vera e propria sfida alle analisi simboliche che caratterizzarono il dominante approccio dell’antropologia sociale agli studi sul cibo, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso (Klein 2014). Goody cerca di spiegare perché in alcune parti del mondo (quali l’Europa e l’Asia pre-industriali) ma non in altre (Africa sub-sahariana) si siano sviluppate cucine complesse e raffinate. La prospettiva da lui adottata è chiaramente storica e, a differenza dell’approccio strutturalista, ne deriverà una analisi in grado di combinare al suo interno sia aspetti materiali che simbolici. Fulcro del suo impianto concettuale la distinzione tra società ieratiche e società gerarchiche. Nelle prime, caratteristiche dei luoghi nei quali non si era riscontrato uno sviluppo della cucina, i capi e le personalità di spicco godevano dell’accesso ad una dieta più ricca rispetto al resto della popolazione, ma allo stesso tempo non era presente una differenziazione negli stili di vita. Viceversa, le società gerarchiche presenti in Europa e Asia (ugualmente nell’antica Roma come durante la dinastia Sung in Cina, tra 900 e 1300 d.c.) erano caratterizzate dallo sviluppo di raffinate ed elaborate cucine, alle quali si accompagnava la presenza di complessi metodi di cottura, utensili e ingredienti costosi e di difficile reperibilità. I punti centrali dell’analisi proposta da Goody, sono abilmente sintetizzati da Klein (2014):

- la spiegazione delle differenze tra le cucine delle società ieratiche e le cucine delle società gerarchiche risiede essenzialmente nella analisi dei modi di produzione. Le modalità produttive presenti in Africa infatti non avrebbero consentito la produzione di un sufficiente surplus di risorse necessario per l’emergere cucine differenziate;

- il secondo fattore esplicativo risiederebbe nei diversi modi di comunicazione e in particolare nell’uso delle fonti scritte, fondamentale per lo sviluppo e la preservazione della complessità culinaria europea e asiatica.

Nella sua analisi Goody introduce anche un interessante spunto di riflessione, a partire dall’emergere e dal diffondersi dei cibi industriali nel corso del diciannovesimo secolo, e di come questi cibi possano integrarsi all’interno di preesistenti schemi alimentari. La questione risulta ad oggi assolutamente attuale, riportate in auge anche dalla rinomata contrapposizione tra cibi considerati appartenere alle tradizioni culinarie di una determinata società e i cibi di nuova introduzione, prodotti a livello industriale e dai gusti standardizzati e omogeneizzati.

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Un altro degli autori maggiormente citati all’interno della corrente sviluppista è senza dubbio

Marvin Harris, che col suo “Good to eat: Riddles of food and culture” (198618) fa apertamente

il verso a una celebre frase di Lévi-Strauss (Pensiero Selvaggio, 1962), secondo il quale per il pensiero indigeno gli animali non sarebbero tanto buoni da mangiare quanto innanzitutto buoni da pensare. Harris intende esattamente il contrario e con la sua opera si pone in aperto contrasto con l’approccio strutturalista. In realtà la sua posizione non sarà mai formalmente sviluppista, preferendo lui per primo definirsi come studioso materialista. Nei fatti però, l’autore si trova in piano accordo con la prospettiva di Mennell quando sottolinea che spiegazioni arbitrarie delle preferenze e dei divieti alimentari non siano accettabili, ma occorra semmai compiere una attenta analisi del rapporto tra costi e benefici che le diverse popolazioni si trovano ad affrontare nella composizione delle proprie diete alimentari. Il risultato finale di questo calcolo è rappresentato dalla sedimentazione di comportamenti che vanno a costituire le culture

alimentari specifiche di diverse aree e comunità, e coincidono con l’ottimizzazione delle risorse

alimentari disponibili. Secondo Harris solo in questo momento entrano in giochi attributi culturali e simbolici, la cui funzione principale sarebbe quella appunti di consolidare scelte giustificate da razionalità di tipo economico ed ecologico. I numerosi esempi all’interno del volume, in effetti, confermano la preminenza della prospettiva ecologica. Ad esempio, nel caso del tabù alimentare della carne di maiale, vengono chiaramente chiamati in gioco fattori ambientali e climatici. Secondo Harris, nelle aree mediorientali dove tale tabù è diffuso (lo ricordiamo, in stretta connessione con la diffusione delle religioni ebraica e islamica), si sarebbero col tempo create condizioni di vita estremamente sfavorevoli per l’allevamento del maiale quali un clima particolarmente secco, temperature elevate, scarsa presenza di erba e vegetali adatti all’alimentazione suina. Il maiale dal canto suo non sarebbe in grado di adattarsi a tali condizioni a causa di alcune caratteristiche fisiche quali la scarsa capacità di regolazione della temperatura corporea e l’assenza di un manto folto, che in tali situazioni darebbe sollievo in caso di forte esposizione solare. Queste due caratteristiche sono peraltro alla base di uno degli atteggiamenti che contraddistinguono questo animale, ossia l’abitudine a rotolarsi in pozze d’acqua – o in mancanza di fango – per ottenere un raffrescamento immediato della propria temperatura. Secondo Harris, lo sviluppo e la diffusione di tale tabù non sarebbe altro che una conseguenza di scelte pratiche inerenti le attività di allevamento, a favore di animali

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come le capre e le pecore, più resistenti al calore e in grado di offrire non solo carni per l’alimentazione ma anche latte, lana, cuoio. Solo in un secondo tempo, la religione sarebbe intervenuta a consolidare e formalizzare tale preferenza. Viceversa, in aree del mondo nelle quali le condizioni ambientali risultano particolarmente favorevoli alla diffusione di questa forma di allevamento (come nel sud-est asiatico e nell’africa sub-sahariana), si sarebbe venuto a creare un “naturale” freno alla diffusione della religione ebraica e islamica.

Anche Sidney Mintz abbraccia l’approccio sviluppista, principalmente all’interno dell’opera

“Sweetness and power. The place of sugar in modern history" (1985), dove analizza le dinamiche di crescita della domanda e dell’offerta di zucchero e derivati a livello mondiale. Ad accomunare Mintz agli altri studiosi sviluppisti è la visione critica nei confronti dello

strutturalismo, accusato di limitarsi a leggere o “decifrare” (Douglas 1972) il significato delle

preferenze alimentari utilizzando la chiave di lettura culturale e, per ciò stesso, compiendo il grave errore di ignorare la storia (Mintz 1985, cit. in Mennell 1985, p. 336). Viceversa, le suggestioni teoriche che maggiormente influenzano l’autore sono ancora una volta diverse, e fanno capo alla teoria del sistema-mondo (Wallerstein 1974, 1980, 1989). Questi riterrà fondamentale per l’esplicazione del fenomeno analizzato, l’intreccio di variabili di diversa natura quali interessi economici, politici, bisogni nutrizionali e significati culturali.

Usando le parole di Poulain, possiamo dire che ciò che, in sintesi, accomuna i diversi autori collocabili nell’orbita sviluppista è:

la iti a all’app o io si oli o della u i a e delle a ie e a tavola, he o side a o t oppo scollegate da una dimensione materiale. Essi affermano che non si possono capire le abitudini alimentari senza riferirsi agli aspetti nutrizionali, ecologici o economici. Se questa griglia di lettura invita a pensare alle interrelazioni fra le dimensioni sociali e cog itive dell’ali e tazio e da u alto e, dall’alt o, ai siste i di p oduzio e Goody e Me ell e alle elazio i o l’a ie te Ha is , essa te de ugual e te a p ivilegia e il peso di ueste ulti e ella ate a di ausalità. 8, p. .