• Non ci sono risultati.

I

l ruolo svolto dalla marineria nel Mediterraneo dell’età del Bronzo è sempre stato evi- denziato da coloro che si sono occupati dell’archeologia dei contatti. È noto, ad esem- pio, come lo sviluppo di un’attività marinara abbia rappresentato, in particolare per il mondo egeo, uno dei tratti maggiormente caratterizzanti, alla base dell’indiscusso suc- cesso delle società insulari prima (Cicladi e Creta minoica) e continentali poi (Grecia mi- cenea). Solo sporadicamente sono state prese in considerazione, invece, le implicazioni di ordine logistico e programmatico dell’andar per mare, cioè tutte quelle attività organizza- tive che precedono il viaggio in senso stretto; allestimento e gestione delle imbarcazioni, con derivanti ricadute sociali da un lato, istituzione di ulteriori contatti, con creazione di nuove rotte coerentemente influenzate dallo sviluppo della tecnologia nautica, dall’altro.

Sebbene l’uso della grande canoa (o longboat) abbia avuto considerevoli effetti dal punto di vista sociale, specialmente in area Cicladica durante l’Antica Età del Bronzo, è indubitabile che l’innovazione più importante, quella che segnò un punto di non-ritorno nelle dinamiche storiche delle comunità che la accolsero, fu l’introduzione della vela. Diffusa presso le civiltà del bacino orientale del Mediterraneo già dall’inizio del II mil- lennio a.C., in associazione con quelle che potremmo definire organizzazioni politico- sociali complesse (modi di produzione tributari secondo l’efficace definizione di Wolf, cfr. Broodbank 2010; Wolf 1997: 79-82), sembra fare la sua prima comparsa in ambito elladico intorno alla metà dello stesso millennio. Come intuibile, le conseguenze deri- vanti dalla possibilità di gestire una risorsa economicamente vantaggiosa come il vento furono di notevole portata.

Una nave che manovra spinta da tale elemento, infatti, se non annulla, almeno dimi- nuisce in maniera sostanziale l’importanza della forza muscolare umana in ogni trasferta. Ne consegue che l’abilità politica e di negoziazione personale indispensabile al capo canoa per ingaggiare sufficienti compagni di voga si trasforma, nell’età della vela, in qualcosa di fondamentalmente diverso. I costi necessari per organizzare una spedizione non sono più, o perlomeno non prevalentemente, negoziati nell’immediato dell’arena po- litica, ma, al contrario, è attraverso il surplus di beni precedentemente accumulato che taluni possono accaparrarsi il materiale necessario per armare un’imbarcazione a vela. Si tratta, in buona sostanza, di un investimento a ritorno posticipato, reso possibile solo dalla presenza di ingenti capitali da impegnare in anticipo.

AKROTHINIA. Contributi di giovani ricercatori italiani agli studi egei e ciprioti, a cura di A.M. Jasink e L. Bombardieri, ISBN online 978-88-6655-766-1, CC BY-SA 3.0 IT, 2015 Firenze University Press

A viaggio ultimato, comunque, i guadagni saranno stati certamente maggiori di quelli consentiti dal magro stivaggio delle imbarcazioni a remi (grandi canoe incluse; Bro- odbank 2000: 346-7). Una documentazione esplicita del tipo di stivaggio che una nave a vela poteva raggiungere nella tarda età del Bronzo è il carico appartenente al relitto di Uluburun, che acquisisce dimensioni imponenti (cfr. Pulak 2010; Monroe 2010). Con l’introduzione della vela, inoltre, si riuscirono a coprire distanze più grandi in un lasso di tempo minore. Questo conveniente aspetto autorizzava l’armatore ad incrementare il valore di scambio della merce trasportata permettendo di aumentare il guadagno su cia- scuna transazione. Una simile deduzione scaturisce dalle testimonianze offerte da alcune categorie di beni contraddistinti da un considerevole raggio di circolazione per determi- nati periodi. Ne sono un evidente esempio i lingotti oxhide prodotti a Cipro, che trovano significative attestazioni in Sicilia e in Sardegna, dall’altro capo del Mediterraneo (cfr. Lo Schiavo et al. 2009).

Resta per inteso che le differenze tra i modi di navigare descritti in questa premessa (grande canoa e nave a propulsione velica), volutamente enfatizzate a scopo esplicativo, furono con ogni probabilità molto più sfumate e, soprattutto in considerazione del fatto che la vela poteva essere montata anche su piccoli vascelli (Tartaron 2013: 71-6), non sembrerebbero ravvisabili marinerie organizzate di grandi dimensioni nel periodo com- preso tra la media e la tarda età del Bronzo, perlomeno in ambito egeo (tema, questo, tuttora molto dibattuto; si veda ad es. Bevan 2010; Broodbank 2004; Weiner 1990).

Si potrebbe a questo punto congetturare che l’affermazione della vela nel mondo egeo produsse un vero e proprio feedback rivoluzionario che amplificò e trasformò alla radice il tessuto stesso della connettività mediterranea. Su queste dinamiche influirono non solo le caratteristiche naturali dei diversi mari, ma anche le peculiarità sociali delle comunità con le quali i navigatori egei vennero in contatto. Ed infatti, sebbene questo processo possa tranquillamente essere considerato panmediterraneo nella sua portata, in realtà ebbe effetti notevolmente diversi a seconda delle aree geografiche toccate.

Nel presente contributo tenteremo di esplorare queste differenze, alla luce di due specifiche classi di evidenze. La prima è costituita dal record archeologico ‘tradiziona- le’ proveniente dalle due tipologie di sito maggiormente suscettibili di questo genere di mutamenti: le isole e gli insediamenti costieri. La seconda categoria considerata, non propriamente ‘archeologica’, è costituita dalla gamma di saperi tecnico-nautici stabiliti nel tempo dall’esperienza nella navigazione rispetto alla conformazione fisica e climatica dei vari ambiti geografici del Mediterraneo. Nello specifico, si analizzeranno due casi studio localizzati, rispettivamente, l’uno alla periferia nord-orientale del mondo miceneo e l’altro in quella nord-occidentale. Questi sono costituiti dai livelli protostorici dei siti di Efestia, a Lemno, e di Roca sul versante adriatico del Salento. Entrambe queste aree sono collocate in interfacce nevralgiche per la protostoria del Mediterraneo. Efestia è, infatti, al confine tra mondo Egeo, Anatolia e area traco-macedone; mentre Roca d’altro canto, posta in corrispondenza di uno dei punti più orientali della penisola Italiana, è in stretta prossimità con la Grecia nord-occidentale e con l’Illiria (Figura 1).

Quello dello studio della navigazione antica è uno degli aspetti che per sua intrinseca natura supera i confini del particolarismo geografico e culturale e indirizza l’analisi su parametri più ampi, di area perlomeno regionale. Si tratta di un primo, fondamentale livello di conoscenza composto da uno spettro di informazioni eterogenee che hanno a che vedere con le Scienze della Terra da un lato e con l’evoluzione tecnologica dell’ar-

chitettura navale dall’altro. Sarà l’arte del navigare, invece, il fulcro essenziale attorno al quale muoverà la trattazione, in un’ottica in cui la terra è percepita dal mare, quello spazio fisico che può unire o dividere, a seconda che siano le condizioni ambientali a mutare, o quelle politiche e sociali.

Figura 1. Collocazione geografica dei casi studio e rappresentazione schematica delle aree culturali a cui essi si relazionano.

Efestia

L’ambito geografico all’interno del quale si cala la testimonianza offerta da Efestia ri- cadrebbe nella cd. «East Aegean – West Anatolian Interface», un modello interpretativo

proposto da P.A. Mountjoy (1998: 33-67) per definire quell’area di contatto tra il mondo ‘elladico’ e il mondo ‘anatolico’ capace di generare fenomeni di ibridazione culturale leggibili sia nelle produzioni vascolari che nei costumi funerari.

Le prime attestazioni di ceramica greca continentale nel Nord Egeo risalgono al TE I-II, come dimostrano i ritrovamenti effettuati nei livelli di Troia VI e nei principali abitati costieri delle isole di Chio, Lesbo e Lemno. L’esigenza di accedere ai distretti minerari del Pangeo e, attraverso i Dardanelli, a quelli che si affacciano sul Mar Nero, potrebbe giustificarne la presenza a queste latitudini già alla fine del XVII secolo a.C. Al secolo successivo e al TE IIB, in particolare, possono essere riferite alcune produzioni di fabbrica tessalica e, in misura minore, di origine peloponnesiaca (Boulotis 1997: 264; Cultraro 2005: 240; Maran 1992: 174-180). Le isole di Lemno, Lesbo, Psara e Chio dunque identificherebbero una ‘periferia’ del mondo miceneo e potrebbero aver giocato un ruolo decisivo in quel processo di interazione culturale sintetizzato nel già ricorda- to concetto di «East Aegean – West Anatolian Interface». Un presunto argumentum ex

silentio, inoltre, spinge la stessa A. ad identificare con l’‘Upper Interface’, una sub-area

la cui caratteristica sarebbe l’assenza di una chiara influenza minoica all’inizio della Tarda Età del Bronzo (Mountjoy 1998: 33). Esistono però delle eccezioni che non pos- sono essere trascurate, come le scoperte del MM II-IIIA di Mikro Vouni a Samotracia

(Matsas 1991: 159-179; Matsas 1995: 235-248. Di estrema rilevanza sono alcune cretule con impronte di sigilli minoici), le cui ceramiche hanno una stretta somiglianza con le produzioni di Koukonisi a Lemno, e la ceramica del MM III da Chalatzes, situato sulla costa sud-orientale dell’isola di Lesbo (Spencer 1995: 14, n. 21). In aggiunta, tra il TM I e il TM II, nell’Upper Interface ricadrebbe anche la ceramica minoica ritrovata a Troia (Mountjoy 1998: 34, nn. 22-23). Per spiegare le eccezionali scoperte effettuate in alcuni di questi siti, è comunque doveroso riflettere sul ruolo che tali isole assunsero in seguito all’intensificarsi della rete dei traffici marittimi tra Creta e quest’area dell’Egeo durante la Media Età del Bronzo.

La quantità e la varietà di tipologie insediative attestate a Lemno per l’Antica e Media Età del Bronzo testimoniano di uno spiccato interesse per le risorse agricole e produttive dell’entroterra e, in ragione dei numerosi siti costieri presenti, anche e soprattutto, per le tratte di percorrenza marittima di questo settore del Nord Egeo. Un ruolo nevralgico, dunque, svolto da una ricca isola fin dalle fasi finali del Neolitico e che continuerà a svolgere nelle rotte commerciali verso la Propontide anche quando si assisterà ad un’ap- parente contrazione del numero degli abitati nel corso della seconda metà del II mil- lennio a.C. (per una panoramica sul Tardo Bronzo a Lemno e ad Efestia, cfr. Coluccia 2009: 1168-1174; Coluccia 2012: 5-10). In quest’ottica è da tenere in considerazione il riferimento a lavoratrici tessili di provenienza lemnia, forse schiave, identificate dall’et- nico ra-mi-ni-ja su alcune tavolette in Lineare B (PY Ab 186) dagli archivi del palazzo di Pilo (Hiller 1975: 388-411; Chadwick 1988: 82; Boulotis 2009: 209, n. 268; Olivier 1996-97: 285; Privitera 2005: 298-299).

La scoperta di un villaggio del Tardo Bronzo ad Efestia riaccende il dibattito sulla vicenda insediativa dell’isola dopo l’abbandono dei grandi abitati di Poliochni (Bernabò Brea 1964; Bernabò Brea 1976; Cultraro 2005: 237-246) e Richa Nerà (Acheilara 1997: 298-310; Avgerinou 1997: 273-281; Archontidou-Argyri and Kokkinoforou 2004; Cul- traro 2005: 242-243). Analogamente, le coeve e sempre meno sporadiche attestazioni provenienti dall’isolotto di Koukonisi (Boulotis 1997; 2009; 2010), al centro della baia di Moudros, ricordando il significativo rinvenimento di un certo numero di idoletti antro- pomorfi a Phi e a Psi dai livelli superficiali (Boulotis 1997: 265, fig. 28), assumono una nuova rilevanza e concorrono alla definizione di un quadro unitario di riferimento sul quale articolare nuove ipotesi interpretative.

Tornando ad Efestia, la prima fase di occupazione della penisola di Palaiopolis risale al TE IIIA2-IIIB, come indiziato dalla presenza di alcune strutture abitative ubicate alla base delle potenti stratigrafie che contraddistinguono gli sbarramenti difensivi dell’istmo di età protogeometrica e arcaica. L’insediamento protostorico, attivo dalla metà del XIV secolo a.C. sarà distrutto da un incendio alla fine del XIII o, al più tardi, agli inizi del XII, come indiziato dalle classi ceramiche individuate che rimandano ad analoghe pro- duzioni egee del TE IIIB2-IIIC iniziale. La percentuale di forme aperte, predominante nelle fasi più antiche, subisce una progressiva inversione di tendenza in concomitanza dell’abbandono, quando pareggia il conto con le forme chiuse (Figura 2a). La ceramica proveniente da questi livelli appare fortemente imparentata con le produzioni micenee continentali e la questione relativa all’identificazione di un sostrato indigeno, non per- cepibile in termini di cultura materiale differenziata, rimane a tutt’oggi ancora aperta (alcuni spunti di riflessione sull’argomento sono in Coluccia 2012: 14-15). Resta il fatto che solo processi di interazione di lunga durata possono aver determinato la creazione di

una simbiosi culturale tale da generare affinità nel campo delle produzioni materiali e forse anche nei rituali (come suggerito dagli idoletti fittili attestati altresì ad Efestia; cf. Privitera 2005: 1079, fig. 63, f).

In tale prospettiva, la precoce influenza minoica nel Nord Egeo (non dobbiamo di- menticare il sito di Mikro Vouni a Samotracia con inequivocabili evidenze della presenza minoica) e la ‘minoicizzazione’ stessa di Koukonisi (Boulotis 2009: 175-218) potrebbero aver giocato un ruolo determinante nell’elaborazione di un sodalizio culturale profondo approdato a queste latitudini e in questa veste a matrice sostanzialmente ‘elladica’ fino a tutta la tarda età del Bronzo.

Figura 2. a) Rapporto tra forme ceramiche chiuse e aperte dai livelli del Tardo Bronzo di Efestia (calcolato sul numero di frammenti; da Coluccia 2012); b) comparazione della composizione delle ceramiche di tipo egeo da Roca e Scoglio del Tonno (calcolato sul numero di vasi; da Iacono 2013a).