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Il quadro normativo odierno traccia un sistema di normazione ordinaria nel quale si può rinvenire una piena compatibilità tra il principio di pubblicità e lo storico istituto del segreto d’ufficio, così come emerge nella normativa contenuta nell’art. 28 della legge 241/1990 che ha riformato la disciplina dell’istituto, contenuta nell’art. 15 del D. P. R. n. 3/1957 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato.

Appare abbastanza chiaro che l’intento del legislatore della 241/1990 sia stato quello di conferire al segreto d’ufficio sempre più il ruolo di strumento di protezione di singoli interessi pubblici, quale espressione di un più ampio e generale dovere di fedeltà, che non il ruolo, che aveva precedentemente, di irrinunciabile strumento organizzativo di tutta l’attività amministrativa.

Si è dunque assistito ad una dequotazione dell’istituto in quanto, come ha ben sintetizzato il Consiglio di Stato in una storica sentenza129, le notizie provenienti dall’amministrazione non sono segrete “tout court”, in funzione della provenienza, ma lo diventano solo in relazione alla qualità e alla tipologia della notizia. Detto in altri termini, il segreto d’ufficio, nella disciplina dell’art. 28 della 241/1990, non solo perde la sua centralità, ma si spersonalizza perché, se nella disciplina del D. P. R. n. 3 del 1957, le notizie erano segrete in relazione

ragione del fatto che il segreto costitutiva, semplicemente, la regola generale per tutti gli atti provenienti dall’amministrazione. Questa norma è di particolare interesse perché, per la prima volta in assoluto, disponeva che un intero settore di lavoratori, i dipendenti statali, avessero come obbligo generale quello di serbare il segreto sull’attività lavorativa. La grande differenza con il Testo Unico previgente del 1923, cioè il Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 2960, è che, mentre in quella disciplina il giuramento era una precondizione per accedere all’impiego, ma comunque il mancato rispetto di questo dovere del dipendente era catalogato tra le sanzioni disciplinari, stavolta si tratta di un obbligo generale e non di una sanzione disciplinare. Quindi è certamente vero che la portata del segreto d’ufficio, in epoca fascista, raggiunge una estensione senza precedenti, ma è anche vero che, neanche in epoca fascista, il segreto era stato posto esplicitamente come obbligo generale per un’intera categoria di dipendenti. Con l’aggravante ulteriore, segnalato dalla dottrina, M. S. GIANNINI, Diritto

amministrativo, I, cit., p. 902, che questa normativa del 1957 era di difficile lettura, talmente ostica da rendere, di

fatto impossibile, qualificare con precisione quale fosse effettivamente l’oggetto, cioè che cosa dovesse rimanere segreto e cosa invece no, visto che la norma parla oscuramente di “informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti od operazioni amministrative di qualsiasi natura ed a notizie delle quali l’impiegato sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio”. La disposizione aggiunge che tali informazioni non possono essere date “a chi non ne abbia diritto…quando possa derivarne danno per l’amministrazione o per i terzi e che non possono essere date “anche quando non si tratti di atti segreti”. La disposizione ha sollevato grandissimi dubbi interpretativi ed ha indotto gran parte della dottrina, tra cui L. ACQUARONE, Il segreto d’ufficio, Milano, 1965, p. 114 ss., a ritenere che il legislatore, forse anche inconsapevolmente, aveva introdotto nel sistema due categorie di informazioni segrete, quelle che sono tali perché appartenenti ad atti segreti e quelle che, indipendentemente dal fatto che l’atto sia o meno segreto, tali lo sono in relazione al loro contenuto o al loro oggetto. Tuttavia, il grande problema era il solito per quei tempi: il legislatore ordinario, non avendo probabilmente ben compreso ancora la portata innovativa dei principi costituzionali, legiferava in modo non conforme a questi, con particolare riferimento al buon andamento ed all’imparzialità dell’amministrazione. E’ stato necessario attendere molti anni prima che la giurisprudenza amministrativa si esprimesse in modo netto e assai punitivo verso la disciplina del segreto di Stato e del segreto amministrativo più in generale, come attesta una nota sentenza del 2000: Cons. St., 26 settembre 2000, n. 5195, in cui, fra le altre osservazioni, si afferma, con particolare interesse per questo studio sulla trasparenza, che il segreto amministrativo “oramai non costituisce un principio generale dell’azione dei pubblici poteri, ma essendo solo un’eccezione al canone della trasparenza, rigorosamente circoscritto ai soli casi in cui sia necessario, obiettivamente, tutelare particolari e delicati settori della pubblica. amministrazione.”. 129

alla funzione, cioè alla qualità del dipendente pubblico, oggi occorre verificare la natura sostanziale della notizia e degli interessi ad essa sottesi. Questo profilo è fondamentale perché significa tenere conto che, oggi, il segreto d’ufficio si coordina con il diritto di accesso in un rapporto capovolto rispetto al passato, cioè di norma-eccezione e non di eccezione-norma.

Sparisce, infatti, nell’art. 28 della legge n. 241/1990 qualsiasi riferimento alla circostanza dell’esistenza di una categoria di particolari notizie che, pur non essendo segrete in quanto tali, l’impiegato non poteva comunque comunicare solo in ragione del fatto di essere un dipendente pubblico. Facendo un’anticipazione su una tematica fondamentale per sviluppare il principio di trasparenza nella legge sul procedimento, cioè il diritto di accesso, oggi il limite tracciato dal segreto d’ufficio potrebbe nascere qualora l’interesse del richiedente mancasse di una serie di requisiti che, come verificheremo, sono il presupposto irrinunciabile che la legge 241 pone per una valutazione positiva in merito all’istanza di accesso.

3.Differenza tra pubblicità e trasparenza

D’altronde, che la pubblicità degli atti amministrativi sia un principio fondamentale, non è certo una scoperta fatta dal legislatore del 1990 ma, al contrario, un enunciato che la dottrina ha affermato sin dai tempi più lontani, costringendo a collocarci temporalmente addirittura agli inizi del XX secolo130. Ma, se questa è la situazione, almeno da un punto di vista della dottrina, non si può negare che una proficua ricerca sul significato e sul ruolo della pubblicità, soprattutto quella amministrativa, allo scopo investigativo di capirne le differenze con la trasparenza, non può che avvenire tenendo conto di quegli studi giuridici che, sin da tempi antecedenti all’emanazione della 241/1990, hanno ritenuto necessario staccarsi da quella parte della dottrina131 che, ancora in tempi ormai abbastanza recenti, e nonostante la rivoluzione della 241/1990 fosse quasi alle porte, non sembrava ancora cogliere alcunché di diverso tra la pubblicità e la trasparenza.

Eppure, come vedremo, una linea di demarcazione si può forse tracciare132, avvertendo sin da ora che l’una, la trasparenza, parrebbe configurarsi come una

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E. MAZZOCCOLO, La legge comunale e provinciale, quinta edizione, 1905, p. 332 e p. 714.

131 R. VILLATA, La trasparenza nell’azione amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, p. 532, dove l’autore, mostrando di non individuare differenze dogmatiche, di alcun tipo, tra pubblicità e trasparenza, afferma testualmente: “la disponibilità degli atti e documenti d’ufficio costituisce…. Il più efficace strumento di

pubblicità e però di trasparenza”, dunque, nel pensiero di Villata, sono nozioni equivalenti.

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Il termine pubblicità ha molteplici accezioni per le quali si rimanda alla voce enciclopedica di A. MELONCELLI, Pubblicità, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 1027 ss., da cui si evince che, siccome la trasparenza e la pubblicità sono due nozioni che hanno posizione di autonomia a livello normativo e giurisprudenziale, questa constatazione le pone, almeno in apparenza, in una chiara posizione di autonomia. Però, in realtà, il punto delicato è rappresentato dal fatto che, in effetti, pare veramente difficile tracciare una linea netta di confine tra l’una e l’altra, se non addirittura impossibile, in quanto vi sono alcune accezioni di così ampio respiro del termine pubblicità che paiono ricomprendere anche il termine ed il significato profondo della trasparenza. Infatti, se si accetta l’dea che per trasparenza si intende, così come risulta dall’etimologia del

categoria più ampia, capace di accogliere l’altra, la pubblicità, tra le sue braccia e sembrerebbe che tra queste due categorie si possa ipotizzare un rapporto di mezzo a fine.

Infatti, la pubblicità e, aggiungiamoci pure l’accesso, parrebbero essere gli strumenti, le chiavi per concretizzare il fine sommo, diciamo pure il miraggio non ancora raggiunto, quello della trasparenza nell’esercizio dell’attività amministrativa.

Andando con ordine, perseguiamo come primo obiettivo quello di tentare di operare una distinzione tra pubblicità e trasparenza, con particolare riferimento all’azione amministrativa e, non certo meno importante, quello complementare di investigare con rigore per evitare di confondere la pubblicità con il diritto di accesso133.

L’ipotesi su cui sembra opportuno lavorare è quella per cui, confermata in effetti dalla storia dei due concetti, se la trasparenza è un valore dai precisi contenuti, la pubblicità sembra una semplice condizione, una stato neutro dell’atto o dell’organizzazione pubblica o ancora, del procedimento amministrativo.

Il modo migliore di procedere al fine di separarli sembra quello di cercare delle ipotesi nelle quali non vi sia coincidenza tra trasparenza e pubblicità e, su questo versante, almeno tre casi paiono piuttosto esemplificativi.

Infatti, se si pensa ad una gara d’appalto con una base d’asta segreta, è evidente che l’istanza di pubblicità sembra geneticamente disattesa, perché lo domandano le caratteristiche precipue di quella competizione; tuttavia l’assenza dell’una non significa affatto che la gara tra le imprese concorrenti per l’appalto debba avvenire in assenza di trasparenza, tutt’altro. Siamo in una situazione nella quale i due concetti litigano e sono fatalmente antitetici in quanto, ciò che è veramente indispensabile in questo caso, è proprio la rigida conservazione del segreto e dunque la totale assenza di pubblicità proprio al fine di garantire una gara trasparente.

Un altro settore di critica importanza che testimonia la dissociazione che talvolta esiste, nella realtà pratica, tra le due nozioni, è quella dei concorsi: si pensi, in particolare a quelle procedure selettive che mettono in palio un solo posto, in piccole realtà comunali aventi semplici strutture organizzative, oppure a quei bandi di concorso che hanno ad oggetto un solo posto di ricercatore universitario: è intuitivo convenire che si tratta di situazioni che, data l’esiguità del premio in palio, suscitano aspettative in un numero limitato di soggetti. Si

termine, uno strumento in grado di mettere in luce ciò che è opaco o in penombra, ci sono delle definizioni di pubblicità come “situazione oggettiva di conoscibilità di un fatto”, o quella di “misura di conoscenza” che paiono, almeno a chi scrive, tornare a segnare un avvicinamento, per non dire un legame non scindibile tra l’una e l’altra.

133 Tra i vari studi in materia si consiglia in particolare R. MARRAMA, La pubblica amministrazione tra

trasparenza e riservatezza nell’organizzazione e nel procedimento amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1989, p.

rifletta ancora sul fatto, non inusuale che, talvolta, i bandi per queste selezioni vengono pubblicati in periodi come il mese di agosto, in modo da ridurre volutamente al minimo sia le possibilità di conoscenza che anche di partecipazione. Ora, se il bando rispetta tutti i crismi che formalmente la legge prevede, è evidentemente inoppugnabile e dunque l’esigenza formale di dare pubblicità alla selezione è rispettata ma, nel caso concreto, sembra arduo affermare che lo stesso avvenga per la trasparenza che pare compressa fortemente, se non del tutto sacrificata.

Infine, un terzo esempio di stretta attualità che può richiamarsi alla mente, è quello dei bilanci comunali: questi sono pubblici, però certamente anche questo è un classico caso in cui la pubblicità non aumenta la trasparenza dei suddetti bilanci presso i cittadini, perché risultano spesso incomprensibili, articolati in voci talmente complesse, che la formale pubblicità di questi atti non consente in alcun modo di perseguire il risultato della trasparenza; siamo davanti ad informazioni che pur formalmente leggibili ed accessibili, restano tuttavia oscure nel loro profondo contenuto e significato.

Si pensi, da ultimo, ragionando sul dato normativo certamente più noto e facendo una considerazione a raggio più ad ampio che non contempli ipotesi predeterminate, ai casi di esclusione dal diritto di accesso contemplati nell’art. 23 della legge 7 agosto 1990, n. 241; in queste fattispecie, si ha la conferma della impossibilità di eliminare il segreto dall’ordinamento, perché comunque costituisce uno strumento di tutela di interessi pubblici e privati. Sicuramente lo si deve limitare e relativizzare il più possibile, confinandolo in spazi angusti, ma l’eliminazione dal sistema pare fisiologicamente impossibile. Ma vi è di più: l’art. 23 sembra quasi realizzare una trasparenza del segreto, nel senso che la norma indica, comunque, un nutrito catalogo di casi in cui il documento deve rimanere segreto; questo lo fa in un modo più o meno limpido, a seconda dell’atteggiamento con cui si intenda considerare alcune sue fattispecie, con riferimento soprattutto a quelle oggetto di recente acquisizione ex legge 15/2005, si pensi a titolo meramente esemplificativo alla “lettera d” che sollevando qualche legittimo interrogativo sulla effettiva trasparenza delle procedure selettive, esclude l’accesso ai documenti nei concorsi in relazione a quel particolare profilo concernente i test psicoattitudinali contenenti informazioni relative a terzi.

Da questo ampio elenco, ma comunque circoscritto, si può forse azzardare l’dea che il legislatore tenti di realizzare una sorta di “trasparenza del segreto”, di avvisare che, comunque, le ipotesi di atti pubblici segreti sono quelle che trovano ricezione nello stesso art. 23. Tuttavia, se questo è vero, viene da chiedersi, per restare alla non identificabilità tra pubblicità e trasparenza, dov’è in tal caso la pubblicità degli atti? Ovviamente non c’è, perché la contingenza degli interessi da tutelare suggerisce di tenerli segreti e questo salto necessario e forse anche estemporaneo al diritto d’accesso è tuttavia fondamentale per

cercare conferme all’ipotesi di lavoro che sembra diventata ormai un dato sicuro, cioè la impossibilità di sovrapporre la trasparenza e l’accesso in un tutt’uno indistinguibile.

Certo, la stessa terminologia utilizzata è inadeguata per l’importanza del tema, in tempi in cui di trasparenza vi è forte necessità nella gestione del potere pubblico ed invece si assiste, e non si tratta solo di sensazioni, ad un aumento esponenziale di fenomeni di corruzione e di cattiva amministrazione134.

E allora, pare più consono parlare non tanto di atti segreti, ma rilevare che l’art. 23 della 241/1990 ci fa da guida per individuare quali sono gli atti destinati a rimanere riservati, magari anche solo per un certo lasso di tempo, ma comunque riservati.

Sembra dunque potersi trarre la conclusione, anche da un cenno alla legge sul procedimento, della non sovrapponibilità tra trasparenza e pubblicità; non sono affatto identiche, ma sono due unità di misura di grandezza e significato differente.

In realtà, riprendendo la lezione del professor Carloni135 e di alcuni autori della dottrina136, pare corretto accarezzare la tesi secondo la quale la trasparenza ha una sua peculiarità ulteriore rispetto alla pubblicità, consistente nel fatto che la sua realizzazione è possibile solo effettuando un’addizione tra più strumenti, dei quali il diritto di accesso ai documenti amministrativi è solo il più eclatante, forse anche quello più importante, ma non certo l’unico concorrente alla causa; se una differenza si vuole, alla fine, delineare tra pubblicità e trasparenza, questa pare porsi nel fatto che la pubblicità è il regno della conoscibilità aperto a qualunque soggetto della notizia o dell’atto in questione, la trasparenza ha quella marcia in più consistente nel fatto che, anche quando ci si trova davanti ad un atto la cui conoscibilità è in qualche modo limitata a determinati soggetti e solo al ricorrere di certi requisiti, il fatto importante è che comunque quell’atto, seppur a determinate condizioni, è comunque conoscibile e non resta segreto.

134 Basta dare una lettura al sito internet www.transparency.gov, dotato di numerosi documenti aperti alla libera consultazione, per avere la conferma che il fenomeno dei rapporti malati e votati alla vasta corruzione, intercorrenti tra politica e amministrazione, sta vivendo un momento di altissima espansione.

135 E. CARLONI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa: dall’accesso ai documenti alla

disponibilità delle informazioni, in Dir. Pubbl., n. 2, 2005, pp. 573-600, in cui l’autore ricostruisce la trasparenza

come un principio che costituisce, in realtà, la sintesi finale di una serie di strumenti aventi diversa funzione e natura. Con questa premessa si suggerisce l’idea che, in verità, la trasparenza non coincide e soprattutto non si esaurisce sempre con la messa a disposizione dei cittadini dei documenti da parte dell’amministrazione, ma può realizzarsi anche attraverso strumenti diversi che vanno dalla partecipazione al procedimento, all’esistenza di figure organizzative cui rivolgersi per chiedere lumi sull’evoluzione di un procedimento, all’obbligo di motivazione, alla diffusione di relazioni sull’attività svolta, in modo da ispezionarne le modalità ed i contenuti e così via.

136 A. SIMONATI, L’accesso amministrativo e la tutela della riservatezza, in Quaderni del dipartimento di

scienze giuridiche, Trento, Università degli studi, 2002, in cui si ricostruisce la trasparenza quale principio sia

orizzontale, nel senso che il cittadino si attiva per cercare in seno all’amministrazione quelle notizie che gli sono necessari, sia verticale nel senso che la P. A. è una struttura gerarchizzata e quindi la trasparenza va inseguita anche tra organi e uffici magari appartenenti ad enti diversi, tra tutti quelli che compongono questa macchina complessa.

Questa sembra la marcia in più che distingue realmente le due categorie di pubblicità e trasparenza; il di più della seconda rispetto alla prima ha un solido fondamento giuridico non contestabile nel principio democratico137, se è vero, come osserva Bobbio, che “si può definire il governo della democrazia come il governo del potere in pubblico” su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico. Questo profilo, al di là della non sovrapponibilità tra le due categorie, comunque dimostrata con gli esempi già ricordati che testimoniano come in taluni casi ci possa essere un’antitesi tra l’una e l’altra, sembra evidenziare l’elemento di unicità della trasparenza: questa arriva dove non può arrivare la pubblicità, che si arresta per via dell’occultamento che il potere altrimenti effettuerebbe tramite gli “arcana burocratici138”.

A conclusione di questo parallelo tra principio di pubblicità e di trasparenza, sembrano potersi trarre alcune considerazioni: anzitutto si può affermare che, la dimensione più ampia ed articolata di questo brocardo rispetto a quello di pubblicità, e la conseguente constatazione che in effetti la trasparenza è anche l’esito dell’uso di strumenti ulteriori e diversi rispetto al solo diritto di accesso, dall’obbligo di motivazione alla partecipazione al procedimento dei cittadini, ridimensioni fatalmente la centralità dell’accesso come figura unica o comunque chiave per il fine trasparenza, perché in realtà la prospettiva in cui porsi è quella di avere come fine ultimo, non tanto quello della trasparenza di atti considerati singolarmente, ma quanto quello della trasparenza dell’azione amministrativa nel suo complesso.

Da questa affermazione discende poi anche la conseguente constatazione che, da un punto di vista delle categorie giuridiche, il segreto possa essere l’antagonista naturale della sola pubblicità, ma non certo della trasparenza.

Infine, giova evidenziare che il legislatore del 1990 si è mosso con l’obiettivo trasparenza, e non della meno appagante categoria della pubblicità, quale fine di

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N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, cit., in cui l’autore ricorda la lezione visionaria e anticipatrice di Kant per il quale, il principio trascendente del diritto pubblico è quello secondo cui tutte le azioni relative al diritto degli altri uomini devono essere suscettibili di pubblicità, pena la condanna all’ingiustizia delle stesse. 138

N. BOBBIO, op. cit., p. 96 ss., in cui Bobbio descrive, dapprima, alla perfezione il bisogno di occultamento fisiologico degli stati autocratici: in essi il segreto di stato è semplicemente la regola. Infatti i sovrani, quanto sono più assoluti, tanto più hanno la necessità impellente di mostrare sia segni esteriori di potere all’esterno, quale ad esempio può essere la reggia collocata proprio in centro città in modo da essere visibile a tutti ed incutere rispetto e timore nei governati, sia di esercitare un’attività che, per potere essere del tutto incontrollabile, deve presentarsi la più opaca e nascosta possibile. A questa tipologia di società, spiega Bobbio, si contrappone

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