Ma cosa accade dopo l’unità d’Italia? Il segreto d’ufficio, nato come fratello quasi gemello del segreto professionale, trova finalmente un riconoscimento codicistico autonomo, sia nel codice penale del 1889, meglio noto come codice Zanardelli, sia sul piano squisitamente processuale, nel codice di procedura penale del 1913.
In realtà il quadro giuridico è assai più articolato, perché deve tenere ulteriormente memoria di ben tre statuti del pubblico impiego, i primi due antecedenti alla Costituzione, rispettivamente del 1908 e del 1923, il terzo successivo alle disposizioni superiori, perché datato 1957 e, infatti, non più adeguato al panorama complessivo, rimasto indietro sul piano della visuale dei rapporti tra potere politico e cittadini rispetto ai valori nuovi espressi nella Costituzione del 1948, soprattutto quelli di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione desumibili dall’art. 97, ma anche la partecipazione alla vita pubblica ricavabile dall’art. 2 e il decentramento amministrativo di cui all’art. 5 della Carta40, quasi come se il legislatore ordinario del 1957 fosse rimasto varie marce indietro rispetto al disegno visionario dei padri costituenti del 1948; infatti solo tardivamente il legislatore ordinario provvederà, finalmente, a modificare41 la disciplina del segreto d’ufficio contenuta nel testo
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L’art. 169 del codice penale sardo supera l’idea del segreto di Stato sussistente solo sul presupposto di rapporti tra Stati ed estende la nozione al “segreto che interessi la conservazione politica dello Stato” configurando in questo modo il primo germoglio dell’idea che il segreto di Stato possa riguardare anche atti interni, che la sua sussistenza non sia indispensabilmente legata a rapporti internazionali tra gli Stati. A questa norma del 1859 si deve, per la prima volta, l’espresso superamento dell’idea che tutti i segreti diplomatici abbiano automaticamente natura di segreto di Stato, perché consente una valutazione concreta, quasi di tipo casistico, volta proprio a capire se, nel caso di specie, quel segreto ha un valore decisivo, o meno, per la conservazione degli equilibri e degli assetti istituzionali e socio-politici della nazione di cui si tratta.
40 L’inadeguatezza del Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato, rispetto ai nuovi principi emergenti dalla Costituzione in materia di attività amministrativa, è evidenziata, tra gli altri, da S. COGLIANI, “Commentario
alla legge sul procedimento amministrativo: L. n. 241 del 1990 e successive modificazioni”, 2007, p. 963 ss.
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L’art. 15 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato, non diversamente dalle primissime fonti normative, non individuava gli atti coperti dal segreto, per una ragione molto semplice: con evidente discrasia rispetto a valori di pubblicità e trasparenza emergenti dalla Carta costituzionale, il legislatore del 1957 ragionava ancora in termini di segreto, quale regola generale per tutti gli atti provenienti indistintamente dall’amministrazione. Per un quadro complessivo e sintetico della situazione si suggerisce la lettura di GIANNONE, “Il punto sul diritto di
accesso”, reperibile on-line all’indirizzo www.diritto.it, 2002, in cui l’autrice sottolinea che l’art. 15 del Testo Unico del 1957 si fonda sull’idea di un’amministrazione ancora fortemente autoritativa e organizzata in modo gerarchicamente molto rigido, nonché basata sull’idea che i momenti di partecipazione dei cittadini alla sua attività dovessero essere pochi, sia quantitativamente, che qualitativamente.
normativo del 1957, tramite l’art. 29 della 241/90 che consacra la normativa attuale.
Oltre a questi testi di carattere generale, sono numerosissime le normative speciali e i regolamenti42 emanati a cavallo dell’unità d’Italia che hanno prodotto un fenomeno giuridico opposto rispetto a quello cui in genere si assiste: infatti, laddove la normativa generale detta linee guida ed ispira poi quella speciale che si limita a dettagliare meglio le previsioni generali ed astratte contenute generalmente nella fonte legge che si abbevera dell’intervento in seconda battuta di altra fonte, in genere regolamenti, nella vicenda del segreto d’ufficio è accaduto il contrario: la normativa di specie ha influenzato quella generale, come nel caso della normativa dettata in materia di funzionamento dei nuovi servizi postali e dei telegrafi43.
Questo riferimento alla normativa su poste e telegrafi è importante perché essa, inquadrando il segreto d’ufficio come uno di quei doveri richiesti a quei dipendenti quali rientranti geneticamente nella loro attività lavorativa, rappresenta un efficace esempio dell’emersione nella nuova società
42 Un esempio di regolamento, quindi di normativa speciale sul segreto datato addirittura 1856, quindi antecedente all’unità d’Italia, è quello contenuto nell’art. 170 del Ministero degli affari esteri che dichiarava espressamente: “Il segreto d’ufficio è inviolabile”. Certo, non sfugge però che, nel caso di specie, la particolare natura dell’attività esercitata influenza il legislatore, visto che si tratta di amministratori che sono custodi di segreti nevralgici per gli interessi della nazione intera e questo, forse, giustifica il tono perentorio della disposizione citata.
43 L’esempio più importante di attrazione e influenza della lex specialis sulla lex generalis è rappresentato dalle molteplici normative emanate in materia di servizio di poste e telegrafi che, per definizione, consiste nella trasmissione di informazioni, mediante mezzi meccanici manovrati da dipendenti pubblici, talmente importante che, le normative di specie in materia hanno poi dato la spinta all’emanazione del primo Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato, quello del 1908, talmente importante che il legislatore penale decise che la violazione del segreto d’ufficio in questa materia era meritevole di configurare una fattispecie di reato separata e distinta da quella generale, contenuta dunque in una norma diversa dall’art. 177, l’art. 162 del codice penale del 1889, che contiene il cosiddetto segreto epistolare. Questa figura nasce dalla considerazione che poste e telegrafi fossero un settore strategico dell’amministrazione italiana e, dunque, una volta che essa acquisiva informazioni al suo interno tramite questi nuovi strumenti di comunicazione, sorgeva immediatamente il problema dell’impermeabilità verso l’esterno, cioè di trattenere quel flusso di dati che gli amministrati riversavano su di essa e poi, soprattutto, l’esigenza di tutelare meglio il superiore interesse pubblico; si era pensato che lo strumento ideale fosse proprio il segreto d’ufficio, barriera efficace per bloccare la fuga di queste notizie verso l’esterno, con tutti i rischi del caso.
Questa era sembrata la soluzione migliore, argomentando in un modo già noto e ricorrente in tutta la storia dell’istituto: in fondo, si diceva, l’impermeabilità delle notizie verso l’esterno, oltre a curare al meglio l’interesse pubblico, tutela gli stessi interessi privati dei cittadini, perché li garantisce dal fatto che la stessa amministrazione avrebbe potuto fare uso di quelle preziose notizie, solo e soltanto per perseguire lo stesso interesse pubblico. Oltre a questo rilievo, si osservava che il segreto d’ufficio garantiva anche un funzionamento ordinato dell’amministrazione, che risultava così perfettamente rispondente alla sua struttura rigidamente gerarchizzata. Dunque, in questo caso, il soggetto attivo del reato contemplato nell’art. 162 del codice del 1889, cioè l’addetto al servizio delle poste o dei telegrafi che abusa di tale qualità, viene punito non tanto a causa del pregiudizio economico arrecato all’amministrazione postale divulgando quelle notizie segrete, ma in quanto arreca un danno al diritto all’intangibilità della corrispondenza quale espressione di protezione di superiori interessi pubblici. In altre parole, il valore in gioco tramite il segreto è la credibilità dell’amministrazione postale, quale supremo centro di tutela del superiore interesse pubblico.
industrializzata di un nuovo tipo di potere sconosciuto nei secoli passati: il potere disciplinare44.
Veniamo dunque al Regio Decreto 30 giugno 1889, cioè il codice penale Zanardelli che dispone ex art. 177: “Il pubblico ufficiale, che comunica o pubblica documenti o fatti, da lui posseduti per ragione d’ufficio, i quali debbano rimanere segreti, o che ne agevola in qualsiasi modo la cognizione, è punito con la detenzione sino a trenta mesi o con la multa non minore delle lire 300”. Quali gli elementi innovativi di questa disciplina ascrivibili al segreto d’ufficio?
Certamente non si può che partire dalla acquistata dignità autonoma dell’istituto in materia che, per la prima volta in assoluto, ha un rilievo individuale almeno sul piano penale, dato che si presenta quale fattispecie di reato separata e distinta rispetto al segreto professionale; quindi c’è un salto evolutivo evidente, il segreto d’ufficio nasce come costola del segreto professionale sulla spinta di ragioni economico-sociali, quale comportamento a cui sono tenuti coloro che operano nelle categorie professionali della nascente società borghese ma ora, siamo nel 1889, da esso si separa per avvicinarsi maggiormente al segreto di Stato.
Certo, questa vicinanza non ne annulla le reciproche diversità che possono sintetizzarsi nel fatto che il segreto d’ufficio attiene l’andamento interno dell’attività della pubblica amministrazione, il segreto di Stato, che a sua volta contempla due sottofigure, quello politico e quello militare, ha come area operativa la garanzia e la sicurezza dello Stato. Il soggetto attivo del reato è ovviamente un pubblico ufficiale per la cui concreta individuazione il codice Zanardelli rimanda ad un’altra norma, l’art. 20745 del codice medesimo.
Interessante notare che, a prima vista, la normativa non è blindata perché, se il progetto originario della norma, l’art. 194 del codice Vagliani, estendeva l’obbligo di segreto anche ai dipendenti non più in servizio, la normativa in esame non ne fa menzione; ma in realtà non c’è spazio a varchi perché, combinando l’art. 177 del codice con l’art. 20846, la conclusione scaturisce
44 Si consiglia la lettura di M. FOUCAULT, “Microfisica del potere”, p.190 s. in cui l’autore evidenzia l’emersione di una tipologia di potere del tutto nuova nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo che sostituisce, a quello millenario della terra e dei suoi prodotti, cioè quello legato ai grandi proprietari terrieri, a quello sui corpi e al loro sfruttamento, in quanto strumenti dai quali estrarre il maggior numero possibile di ore di lavoro nella nascente industria. E quindi, naturalmente, sorgeva il problema di piegare quei corpi, in modo efficace, da parte di forze autoritarie espressioni del novello capitalismo industriale; questo nuovo potere si chiama potere disciplinare.
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La norma in questione considera pubblici ufficiali: “1°. Coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche
temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello Stato, delle Province o dei Comuni, o di un istituto sottoposto per legge alla tutela dello Stato, di una Provincia o di un Comune; 2°. I notai; 3°. Gli agenti della Forza Pubblica e gli uscieri addetti all’ordine giudiziario”.
46 L’art. 208 del codice penale del 1889 prevede che: “Quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale
come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, perché commesso a causa delle funzioni da esso esercitate, comprende anche il caso in cui le persone indicate nell’articolo precedente più non abbiano la qualità di pubblico ufficiale o non esercitino quelle funzioni nel momento in cui è commesso il reato”. Si
“deplano”: il segreto d’ufficio vincola anche gli ex pubblico ufficiali. Vi è poi da rilevare che l’oggetto, in ossequio ad una tradizione consolidata ma non per questo da accogliere con entusiasmo, è palesemente indeterminato, visto che l’art. 177 parla di “documenti o fatti...che debbano rimanere segreti”.
La locuzione in esame, come non mancò di sottolineare la dottrina del tempo47, pecca di genericità perché non dice nulla in relazione a quali siano gli atti che debbano rimanere segreti, sulla base della motivazione48, discutibile ma comprensibile, che sarebbe pressoché impossibile stilare in anticipo un elenco puntuale e rigoroso di tutti gli atti e i fatti che debbano rimanere segreti; questo richiama ad uno sforzo interpretativo enorme la dottrina e la giurisprudenza del tempo, nel tentativo titanico di individuare con l’esperienza concreta quali dovessero essere i singoli fatti ed atti che avevano da restare segreti.
Questi sforzi della dottrina conducono ad un risultato che, nella sostanza, è un nulla di fatto perché essa ad onor del vero individua tre criteri, ma uno, la natura del fatto, risponde alla lettera della norma in esame; gli altri due: la legge ed un ordine di un’autorità superiore non aiutano ad individuare l’oggetto del segreto, perché la legge è in realtà un complesso di fonti delle quali non ve n’è una che chiarisca l’oggetto del segreto in modo definito ed infine l’ordine dell’autorità superiore non fa altro che rimandare ad una stessa autorità amministrativa rispetto a quella che ha emanato l’atto; siamo davanti ad un circolo chiuso. Vi è poi il profilo relativo alle modalità di rivelazione del segreto e la norma ne individua due; uno consiste nel “comunicare e pubblicare” che sono in evidente rapporto moltiplicato. Infatti, se il segreto deve rimanere occulto, è chiaro che basta la comunicazione, cioè la rivelazione anche ad un solo soggetto; quindi la pubblicazione è una circostanza aggravante perché si fonda sulla diffusione del segreto presso un numero moltiplicato di soggetti, una circostanza aggravante rispetto al solo comunicare che può avvenire anche presso un solo individuo.
porrebbe in questo caso il problema della pena applicabile all’ex funzionario pubblico, che rivela notizie che invece avrebbe dovuto mantenere segrete, e la dottrina del tempo risolve il problema ritenendo applicabili per simmetria le sanzioni inerenti la rivelazione indebita di segreto professionale, ex art. 163 del codice penale. Si veda infatti, sul punto, M. CARBONI, “Lo stato giuridico”, 1911, p. 349.
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S. LOLLINI, Dei delitti, in Enc. Dir. pen. It., 1907, VII, p. 124.
48 Nella Relazione stesa dalla Commissione sul disegno di legge, volto all’approvazione del codice Zanardelli si legge, tra l’altro che: “…la disposizione del comma 1° del nostro articolo, si leggeva in termini identici nei
precedenti progetti del 1868 e del 1870, né si ha traccia nei verbali delle Commissioni compilatrici, di apprensioni o di difficoltà sorte allora a questo proposito”. Il che equivale a dire che la prassi era quella, che
l’oggetto del reato non poteva che restare indeterminato, con il conseguente problema di favorire, nella realtà dei fatti, anche interpretazioni troppo estese della normativa in questione. E d’altronde, questo dell’oggetto non è altro che il riflesso dell’idea che la pubblica amministrazione diventava, al tempo stesso, proprietaria assoluta e custode delle informazioni che arrivava a detenere. Alla fine, il fatto che prima il legislatore, poi anche la dottrina e la giurisprudenza non abbiano potuto o voluto individuare con più chiarezza l’oggetto del segreto, riflette semplicemente la convinzione profonda, radicata nel sentire di quel tempo, che l’unico vero soggetto deputato a decidere quali atti o fatti dovessero rimanere segreti e quali invece no, non potesse che essere la stessa pubblica amministrazione
L’altra modalità di rivelazione del segreto è quella del pubblico ufficiale che “agevola in qualsiasi modo la cognizione”. Quindi, in questo secondo caso si sarebbe davanti, presa la lettera dell’art. 177 del codice Zanardelli, davanti ad una estensione a dismisura del reato, basterebbe una semplice agevolazione della comunicazione o della pubblicazione perché si abbia violazione del segreto d’ufficio, tanto è vero che la dottrina del tempo si divise49.
Infine gli ultimi due elementi della fattispecie: anzitutto l’elemento soggettivo, che l’art. 177 individua nel dolo, distinguendolo, sotto questo profilo, dal segreto di Stato contenuto negli artt. 107-109, per la cui integrazione del reato è sufficiente la colpa, che consiste nella classica volizione intenzionale di quel comportamento di rivelazione, pubblicazione o agevolazione; va precisato, sul punto, che per aversi dolo non è anche necessaria la volontà di nuocere o la realizzazione effettiva di un danno, basta l’intenzione di voler rivelare qualcosa che invece non si può divulgare. Naturalmente il ricorrere del danno si rileverà davanti ad un giudice come circostanza aggravante ai fini dell’entità della pena. Infine, l’ultimo elemento, l’art. 177 afferma che questi segreti devono essere “posseduti da lui”, cioè dal pubblico ufficiale, “in ragione del suo ufficio”. Questa affermazione è stata discussa all’epoca partendo dalle tesi più estreme50 di autori come De Giorgio che addirittura ipotizza che il segreto, una volta fatto proprio dalla pubblica amministrazione, vincola tutto il personale dell’amministrazione a prescindere dal fatto di avere appreso personalmente quella notizia, per arrivare ad opinioni più rispondenti al reale spirito della legge.51
Da questa descrizione dell’istituto si può ben comprendere che, a quei tempi, il segreto aveva delle caratteristiche ben differenti da oggi: si pensi anzitutto alla dinamicità, intesa nel senso che esso si fonda su un’attività di selezione volta a individuare ciò che si deve sapere e ciò che non può essere svelato.
E’ ovvio che, il quadro del codice Zanardelli individua un istituto granitico e niente affatto dinamico, visto che il ragionamento del legislatore si fonda sul fatto che ciò che conta è l’ufficio, cioè l’appartenere ad una amministrazione sia statale, ma anche speciale. Basta questo prerequisito per designare un’attività
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Alcuni commentatori del tempo, tra cui G. DE GIORGIO, “La rivelazione”, in Riv. dir. pubbl., 1909, I, p. 229, ritenevano che l’agevolazione potesse essere attuata solo dal medesimo soggetto che detiene il documento che dovrebbe rimanere segreto, altri addirittura, tra questi G. CRIVELLARI, “Il codice penale”, VI, 1895, p. 40, sposavano la tesi estensiva, secondo la quale il segreto potesse essere violato da qualsiasi pubblico ufficiale, anche se non deteneva il documento segreto, perché avrebbe potuto apprendere della sua esistenza da un collega, quindi da un altro pubblico ufficiale e anche in questo caso ricorrerebbe il reato, perché si avrebbe comunque rivelazione della cognizione.
50 G. DE GIORGIO,”Ibidem”, pag. 230. 51
G. BORSANI, L. CASORATI, Codice, 1876, II, p. 386. Nel commentario in esame, si sostiene che il fatto deve essere compiuto per motivi legati all’attività del pubblico ufficiale, deve esservi quindi un profilo di soggettivizzazione, di nesso causale tra la rivelazione del segreto e l’attività esercitata, anche se non è necessario che esso eserciti la sua attività proprio nel momento in cui avviene la rivelazione indebita, può verificarsi anche in un momento successivo.
lavorativa che deve rimanere vincolata, tramite il parametro dei doveri di fedeltà del dipendente, alla segretezza. Si rifletta, ancora, sull’idea del segreto come scelta, per pensare che esso è il risultato finale di tale scelta, come confermano le codificazioni odierne, a partire dalla 241/90 che identifica gli atti amministrativi che sono sottratti al diritto di accesso.
Ma, ad inizio del ‘900, ben poco vi era di questa scelta intesa come valutazione soggettiva di notizie segrete o meno; anzi, la scelta era quella di tenere segreta l’attività amministrativa in quanto tale. Nel segreto del codice Zanardelli non vi è dunque la dinamicità, non vi è una preventiva attività selettiva ed affiora tuttavia un suo requisito moderno, la sua molteplice essenza in quanto può essere sia allo stato puro, sotto forma di pensiero, come è sempre stato, ma anche il risultato di una attività materiale intermedia custodito, come è il caso delle notizie apprese dagli impiegati di poste e telegrafi. Ma cosa accade sul piano processuale?
La presenza dell’art. 177 del codice Zanardelli impone al legislatore di considerare il segreto d’ufficio anche sul piano processuale e così nel codice di procedura penale emanato nel 1913, il Regio Decreto 27 febbraio 1913, n. 127, si trova una norma l’art. 248, che disciplina sia il segreto professionale che quello d’ufficio.
Quindi si ha finalmente una norma che considera il segreto d’ufficio anche sul piano processuale. Dalla lettura della disciplina in esame52, dedicata nel primo comma al segreto professionale, nel secondo al segreto di Stato e a quello d’ufficio, emerge una disciplina più stringente per il segreto di Stato perché i pubblici ufficiali addirittura “non possono essere interrogati” quando si tratti di “segreti politici o militari concernenti la sicurezza dello Stato”, mentre gli stessi pubblici ufficiali “non possono essere obbligati a deporre” su atti concernenti il segreto d’ufficio.
Niente di nuovo in realtà sia sul piano sostanziale, perché la norma assimila il segreto professionale a quello d’ufficio prevedendo la facoltà per entrambe le categorie di soggetti di astenersi dal deporre, sia concettuale perché in fondo si torna all’idea del rapporto fiduciario che, come tra un avvocato o un medico si