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Per quanto riguarda le origini del principio di pubblicità nel sistema giuridico italiano, va tenuto conto, in primo luogo, di una realtà innegabile; nonostante la pubblicità sia stata valorizzata dalla dottrina sin dall’inizio del XX secolo141, solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, sono cresciuti a dismisura gli sforzi degli autori per ancorare questo canone, con particolare riferimento all’amministrazione, ai nuovi riferimenti risultanti dalla Carta. Chiaro l’obiettivo di questa operazione interpretativa: giungere alla conclusione che anche l’esercizio dell’attività pubblica debba rifarsi a comportamenti limpidi che capovolgano quelle prassi amministrative che, in assenza della legge sul procedimento amministrativo erano, all’opposto, caratterizzate da segretezza. Come verificheremo brevemente, si trattava ormai di comportamenti inadeguati al nuovo quadro emergente in base alle Disposizioni Superiori e quindi, tutto sommato, anche discutibili e, auspicabilmente, da modificare.

Però, in realtà, quando entra in vigore la Costituzione, la situazione si presenta di difficile lettura, almeno a prima vista. Infatti, non solo siamo in tempi lontanissimi dalla legge sul procedimento, ma anche davanti all’ostacolo dell’inesistenza di una norma della Carta che sancisca espressamente un principio generale di pubblicità nell’ordinamento giuridico italiano e questo complica notevolmente il quadro.

Ed allora si può ben comprendere perché, al fine di superare l’ostacolo, l’attenzione iniziale degli autori sia stata quella di tentare di rinvenire, anzitutto, un collegamento della pubblicità con alcuni principi fondanti il nuovo Stato democratico142, al fine di capire se questo fosse armonico e in sintonia con questi nuovi input costituzionali.

In primo luogo la lente di osservazione è andata soffermandosi sul principio di informazione e in particolare sul’esigenza che l’informazione dei cittadini fosse effettiva143, coinvolgendo anche il principio democratico, ed ancora quello di imparzialità ed infine quello concernente il diritto di difesa del cittadino avverso comportamenti scorretti dell’amministrazione.

Partendo con il diritto all’informazione, per legarlo all’esistenza di un diritto costituzionale implicito di pubblicità, operazione possibile perché abbiamo già verificato che la caratteristica dei principi costituzionali espressi è la loro forte elasticità, cioè la capacità di accogliere anche dei valori che essi inizialmente non contemplano sul piano letterale, occorre subito dire che il dibattito sull’esistenza di un diritto costituzionale all’informazione, da cui fare discendere

141 E. MAZZOCCOLO, La legge comunale e provinciale, cit., p. 714.

142 G. PASTORI, Introduzione generale, in La procedura amministrativa, a cura di Pastori, Vicenza, 1964, pp. 13-15.

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un principio costituzionale di pubblicità dell’attività amministrativa, è stato assai tormentato.

Esiste, dunque, un diritto costituzionale all’informazione e in particolare al fatto che l’informazione del cittadino sia effettiva, cioè avvenga senza mediazioni ed ostacoli, si estrinsechi in modo limpido e corretto?

La domanda è fondata, in quanto il percorso argomentativo in materia è più complesso di quanto non sembri, perché l’esistenza all’interno della Carta di un siffatto diritto è stata assai discussa ed inizialmente negata nel corso degli anni ‘50 da quegli autori che si riconoscono in quella corrente di pensiero, cosiddetta del formalismo giuridico, e relegata addirittura nell’irrilevante giuridico144. A queste conclusioni si poteva giungere in quanto ci si scontra con l’assenza di norme costituzionali che stabiliscano espressamente l’esistenza di un diritto generale all’informazione e, di conseguenza, anche di un diritto relativo al contenuto dell’attività svolta dalle amministrazioni.

Eppure, basterebbe riflettere sul quadro costituzionale, per individuare, anche nel novero delle disposizioni generali concernenti i principi fondamentali della Costituzione, artt. 1-12, una serie di segnali di carattere ben diverso che avrebbero potuto orientare subito la dottrina in senso positivo.

Su tutti questi indizi campeggia una interpretazione evoluta dell’art. 4 della Costituzione145, che impone a ciascun cittadino di attivarsi, ciascuno secondo le proprie possibilità, per migliorare la società su un piano sia morale che spirituale. Da questa norma lo studioso Gregorio Arena legge la possibilità di far rientrare il diritto all’informazione come il primo appartenente alla categoria dei cosiddetti nuovi diritti, cioè quelli che contribuiscono in misura fondamentale allo sviluppo della persona. Per nuovi diritti si intendono, secondo questa impostazione giuridico filosofica, quelli aventi una valenza non individualistica, ma centrati sull’interscambio tra individui, su un flusso di informazioni che conferisce esiti di interesse generale, perché incentrati su un miglioramento complessivo della società, cioè quei diritti ben diversi dai diritti soggettivi classici, che hanno come scopo il soddisfacimento di un interesse meramente ed unicamente individuale.

Arena conclude il ragionamento nel senso che, già dall’art. 4 della Carta, si potrebbe rinvenire un diritto all’informazione, le cui giustificazioni vanno rinvenute non solo nel diritto, ma nella stessa filosofia, perché in realtà il diritto all’informazione, secondo l’insegnamento del filosofo Giambattista Vico, è il diritto posto a base di tutti gli altri, in ragione dell’essenza stessa della natura umana, in quanto l’uomo è concepito innanzitutto per apprendere la verità.

144 A. LOIODICE, Libertà e società dell’informazione, in Problemi attuali di diritto pubblico, a cura di Giocoli, Nacci e Loiodice, Bari, 1990, pp. 138-140.

145 G. ARENA, La trasparenza amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti amministrativi, in L’accesso

Ma, in realtà, questa scoperta può avvenire solo in base ad un interscambio con gli altri uomini, che crea un flusso virtuoso di conoscenze indispensabile per la scoperta del vero, che viene prima della ricerca dell’utile. Infatti, conclude Vico nel ragionamento proposto da Arena, “la società dell’utile non può esistere senza la società del vero”.

Bisogna tuttavia giungere agli anni ’60 e rifarsi ai contributi di giuristi tra i quali Barile, Mortati e, soprattutto, Loiodice, per una analisi molto approfondita ed innovativa della libertà di informazione, al fine di operare una ricostruzione che giunga a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle iniziali a cui, come sottolineato, si potrebbe invero addivenire anche dalla lettura dei principi fondamentali della Carta.

Loiodice, intorno agli anni 1964-65, si avvale delle tecniche dell’interpretazione sistematica per configurare l’esistenza implicita di una garanzia costituzionale in favore del diritto all’informazione. E’ importante essere estremamente rigorosi sul punto, perché l’evoluzione della dottrina giuridica è stata a 360 gradi, in quanto si è passati da una tesi meramente negazionista ad una prima evoluzione di tipo intermedio che, pur non negando l’esistenza di un presidio all’informazione nella Carta, lo relegava al rango inferiore di mera libertà e quindi lo incardinava nella “libertà di manifestazione del pensiero” ex art. 21 della Costituzione, il diritto all’informazione in realtà si esauriva nella libertà di espressione, cioè di diffusione delle proprie opinioni.

Però, a ben vedere, il diritto all’informazione è bifacciale perché, oltre a riguardare coloro che manifestano un orientamento politico, religioso o di qualsivoglia fatta, riguarda anche i fruitori di certe informazioni, la libertà di informazione in senso stretto.

Ebbene, l’art. 21 si rivela inefficace proprio sotto questo profilo, perché tutela solo la libertà di espressione, più precisamente la libertà di colui che esprime dei concetti o comunica delle notizie, ma si rivela insufficiente con riferimento alla tutela della libertà di apprendimento del destinatario delle notizie, cioè in relazione alla sua attività acquisitiva146. Infatti, a volere essere generosi, dando per presupposta la garanzia nient’affatto scontata che le informazioni non vengano manipolate, l’unica tutela che realmente riceve colui che apprende le informazioni, in base all’art 21 della Costituzione, è riflessa ed indiretta, come attesta chiaramente il primo comma della norma laddove afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

Quindi il punto preliminare al fine di affermare l’esistenza di un principio costituzionale di pubblicità amministrativa, non espresso ma immanente e coerente con tutto il sistema, è anzitutto investigare al fine di capire da quali

146 A. LOIODICE, voce Informazione, in Enc. Dir., XXI, Milano, 1971, p. 472 ss.. Lo studioso chiarisce, in questa sede, la reale ampiezza e portata del diritto all’informazione.

principi costituzionali se ne potrebbe eventualmente desumere l’esistenza e, con riferimento al diritto all’informazione, occorre chiedersi se esista nelle Disposizioni Superiori un diritto di informazione in senso stretto, cioè dal lato dell’utente, di apprendere le notizie in modo libero da qualsiasi condizionamento o manipolazione oppure se di esso non vi sia traccia nella Carta.

L’interpretazione sistematica conduce Loiodice ad effettuare una lettura complessiva della Costituzione e a rilevare la presenza in essa di una serie di disposizioni che, in generale, tutelano con forte accento positivo, la libertà di scelta. Si ritiene cioè che, se si salvaguardia la libertà di fare una scelta, qualsiasi essa sia, per poterla effettuare con cognizione di causa è necessario tutelare l’aspetto preliminare di questo percorso, cioè quello conoscitivo perché, per operare qualsiasi determinazione, bisogna anzitutto averne contezza e, per averne consapevolezza, è necessario essere informati.

Uno degli esempi più lampanti emergenti da una rapida lettura della Costituzione è la libertà religiosa o meglio, il diritto sancito nell’art. 19 di professare liberamente il culto preferito; ma questa facoltà presuppone anche quella di potersi informare, al fine di conoscere i riti che caratterizzano quel determinato culto.

Considerazioni analoghe merita il diritto di voto contenuto nell’art. 48 della Costituzione; ma sono solo due esempi, altri se ne potrebbero fare, che rappresentano la spia dell’esistenza di un disegno coerente ed unitario nella Carta, che esprime un completo favore e piena tutela verso il diritto di informarsi in modo libero e completo, senza filtri che alterino le notizie nella loro realtà fattuale.

Ma, se esiste un presidio costituzionale alla possibilità di apprendere informazioni in modo libero e non manipolato da alcuno, allora possiamo supporre che debba necessariamente esistere anche un generale principio di pubblicità e che questo pervada tutta l’attività istituzionale in generale, salvo limitate eccezioni e quindi che investa a cascata tutta l’attività amministrativa; infatti, se è pur vero che questa è dotata di poteri autoritativi al fine di raggiungere fini pubblici, non si vede per quale ragione dovrebbe poter agire, addirittura al di fuori del quadro tracciato dai principi costituzionali, mantenendo un potere generale di secretare i suoi atti.

Quindi, la consistenza costituzionale del principio di pubblicità amministrativa deriva in primo luogo dal diritto costituzionale ad essere informati senza impedimenti che, più di ogni altra considerazione, impedisce di ipotizzare che il principio costituzionale implicito di pubblicità sia una forzatura e addirittura tacciabile di abusivismo costituzionale.

Non si può, inoltre, certo negare una diretta connessione del principio di pubblicità al principio democratico; addirittura vi è stato chi già nel 1964147 ha ritenuto che esso rappresenti una specificazione del principio democratico, un elemento intrinseco e coessenziale ad esso e del quale non vi è alcuna ragione di dubitare.

Secondo questo orientamento, la pubblicità non è altro che una delle molteplici manifestazioni di detto principio, cioè di quell’assunto in base al quale, immersi in una società formata da cittadini, questi devono essere messi in grado di conoscere le informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni; una volta fatte proprie queste nozioni potranno poi formarsi un’opinione e, su questa base, operare delle scelte.

Certo, è stato necessario attendere a lungo perché solamente nel 1990 l’art. 1 della 241 ha sancito espressamente, con legge ordinaria, che la pubblicità diventasse una regola di condotta dell’amministrazione, ma, si diceva, era stato intuito in tempi molto più risalenti che proprio la pubblicità fosse il criterio in grado di soddisfare, nel grado più alto possibile, l’esigenza di un controllo democratico, cioè della visibilità da parte dei cittadini dell’attività amministrativa realizzata, come ben sappiamo tramite una serie di obblighi imposti ai pubblici poteri che vanno da quello di pubblicare, a quello di comunicare o rendere accessibili notizie, documenti, atti e procedure. Già nel 1964 il professor Giorgio Pastori affermava con parole anticipatrici : “la pubblicità esprime direttamente ed esclusivamente nella procedura il principio democratico”.

D’altronde, se si passa in rassegna in maniera molto generale e pur sempre superficiale tutta la disciplina odierna sul procedimento amministrativo al solo scopo preliminare di trovare conferma della rispondenza degli istituti previsti dal legislatore ordinario, in essa contenuti e rispondenti con il principio di pubblicità, la casistica degli strumenti che sono diretta esplicazione della pubblicità amministrativa e dunque del principio democratico è assai vasta: si parte dall’obbligo di motivazione, per proseguire con tutte quelle norme che prevedono la partecipazione espressa, attraverso le varie categorie di interventori necessari o facoltativi, per finire con tutta la normativa che disciplina il diritto di accesso; ad essere onesti, è bene anticipare un aspetto che andrà approfondito oltre, cioè che le recenti riforme, segnatamente quella intervenuta tramite la legge 15/2005, sembrerebbero segnalare un legislatore che tradisca qualche segno di insofferenza verso l’accesso, quasi come se, con un moto reazionario, intendesse porre un freno a una presunto eccesso di accesso.

Quindi, come spesso accade, il legislatore che ha emanato la legge sul procedimento amministrativo nel 1990, non ha fatto altro che adeguarsi al

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maturo pensiero determinato da una interpretazione evolutiva dei principi costituzionali.

Si potrebbe anche ragionare in astratto e conferire al problema della conoscibilità dei comportamenti dell’amministrazione una soluzione del tutto differente, di più, diametralmente opposta a quella che pare sancire la indispensabile pubblicità degli atti dell’amministrazione se immaginassimo, anche solo per un momento, l’esistenza nell’ordinamento italiano, segnatamente nell’ambito dei principi costituzionali, di un principio di segretezza o, se si preferisce, di pubblicità vietata. La conseguenza sarebbe semplice: i documenti amministrativi dovrebbero rimanere segreti come regola generale, fatti salvi i casi in cui l’amministrazione stessa decida di divulgarli e salve le ipotesi ulteriori di norme che espressamente e, comunque in via di eccezione, stabiliscano la possibilità di visionare determinati documenti.

Attenzione, non è detto che un’amministrazione retta dal principio di segretezza sia destinata sicuramente a non funzionare. Si pensi, a titolo puramente esemplificativo, alla Francia, nella quale, prima della legge 17 luglio 1978, n. 753 “La liberté d’accès aux documents administratifs148”, peraltro poi immediatamente corretta e modificata ad appena un anno di distanza dalla sua entrata in vigore dalla legge 11 luglio 1979, n. 587, l’amministrazione pubblica stava comunque dando dimostrazioni di grande efficienza; tuttavia si era ritenuto che, per migliorare ulteriormente l’amministrazione e convincere più facilmente l’opinione pubblica della bontà dei progetti dei pubblici poteri, fosse utile, oltre che necessario, garantire l’accesso alle informazioni detenute dalle amministrazioni149. Semplicemente, criteri di scelta diversi, non vincolati a canoni di pubblicità e trasparenza dell’attività amministrativa.

Però, come stiamo ampiamente verificando, nessuna norma costituzionale consente di trovare appigli per ipotizzare l’esistenza del principio di segretezza nel nostro sistema, anzi, uno sguardo ad un altro principio, quello di imparzialità, consente di avere un altro elemento in favore della vigenza del canone contrario.

Infatti, secondo l’impostazione di Allegretti150, la pubblicità dell’atto amministrativo è ricollegabile anche all’imparzialità, sia perché è un fondamentale strumento per assicurarla, ma anche perché si tratta di una conseguenza del carattere imparziale dell’Amministrazione Pubblica in un rapporto biunivoco ed ormai inscindibile; ovvero l’amministrazione è imparziale e rispetta l’art. 97 della Costituzione proprio perché conferisce pubblicità ai

148 Si fa riferimento a quella legge concernente “Diverses misures d’amelioration des relations entre

l’administration et le public et diverses dispotitions d’ordre administratif, social et fiscal”.

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Per una ricostruzione storico-giuridica, che ha portato all’emanazione della prima legge francese sull’accesso ai documenti, nonché per le sue evoluzioni ed un bilancio sul suo funzionamento, si consiglia la lettura della voce informatica: www.cada.fr/rapport/transparence che, in occasione dei 25 anni dalla sua emanazione, traccia un bilancio complessivo di questa esperienza normativa.

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propri atti e dunque pare potersi concludere che la pubblicità sia uno degli elementi che caratterizzano geneticamente l’imparzialità stessa.

Giova ribadire l’importanza di queste riflessioni, perché avvenute addirittura decenni prima che venisse emanata la legge sul procedimento e, alla stesse conclusioni, si può giungere in relazione al diritto di difesa, che appare anch’esso una manifestazione dell’esistenza del principio costituzionale implicito di pubblicità.

Tuttavia, pare indispensabile precisare che, nel caso del diritto di difesa, la situazione è assai diversa rispetto al rapporto tra pubblicità ed imparzialità. Infatti, mentre esiste una compenetrazione tra pubblicità ed imparzialità, lo stesso non può dirsi con riferimento al rapporto tra diritto di difesa e pubblicità, in quanto questo rapporto si caratterizza per la circostanza che l’interesse alla conoscibilità di un atto amministrativo non è riconosciuto alla generalità dei cittadini e quindi protetto in quanto tale con efficacia “erga omnes”, ma soltanto in connessione con un altro interesse sostanziale, ovverossia quello al mantenimento dell’integrità della propria sfera giuridica151.

Esprimendoci in termini odierni, coerenti con l’attuale strumentario normativo, diremmo che il diritto alla pubblicità degli atti amministrativi e in particolare quello di prenderne visione ed estrarne copia, si collega al presupposto dell’indispensabile preesistenza di un rapporto con l’amministrazione, dal quale sia derivato evidentemente un pregiudizio.

Questo è un meccanismo che opera in modo non dissimile da quello esistente nel diritto privato, laddove l’esistenza di un contatto tra le parti è il presupposto per l’attribuzione di diritti di informazione in capo a chi è nella condizione di poter subire gli effetti di una scelta altrui. In tempi antecedenti la legge sul procedimento, il percorso argomentativo sarebbe stato più o meno simile: il diritto ad apprendere il contenuto di uno o più atti, cioè il principio di pubblicità, è esercitabile solo se e nei limiti in cui esista in capo al cittadino un concreto diritto a tutelare un proprio diritto soggettivo o interesse legittimo, in conformità

151 A. LOIODICE, Conoscibilità dell’attività amministrativa e difesa giudiziaria, in Rass. Dir. pubbl., 1967. In questo lavoro, l’autore collega il diritto di difesa al principio di pubblicità, mediante lo schema delle imputazioni soggettive, già elaborato, precedentemente da Sica, in uno dei suoi lavori più noti, “L’imputazione delle

situazioni costituzionali”, sulla base del quale va prima individuata l’imputazione soggettiva primaria, in seguito

si possono cogliere le ulteriori ramificazioni, cioè individuare tutte le imputazioni secondarie, derivanti da quella principale. E così Lojodice, facendo proprio questo metodo di lavoro, individua l’imputazione soggettiva primaria nel diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione ed afferma che questa rappresenta il presupposto per un’imputazione soggettiva secondaria, cioè quella della conoscibilità dell’azione amministrativa, e dunque, in senso lato, della pubblicità degli atti compiuti dai pubblici poteri, al fine di potere rendere operante e di realizzare concretamente il diritto di difesa. Pare, evidente, che il diritto correlato di acquisire notizie sull’attività dell’amministrazione discenda in, questo caso, dalla necessità dell’esercizio del diritto di difesa, cioè dell’imputazione soggettiva primaria e quindi che esso non possa operare in modo indeterminato e generalizzato, ma si debba arrestare solo in relazione all’acquisizione di quei documenti che, nella situazione concreta, sono effettivamente necessari per esercitare lo stesso diritto di difesa, in un rapporto nel quale l’imputazione soggettiva primaria è il presupposto per potere esercitare quella secondaria.

al fondamentale diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione che, in conseguenza dell’agire amministrativo, viene messo a concreto rischio.

Parlare di principio di pubblicità impone una ulteriore cura, ovverossia quella di precisare sin da ora che esistono grandissime difficoltà ad identificare la pubblicità con il diritto di accesso. Questo perché, in primissima approssimazione, se la trasparenza e l’accesso rappresentano, pur nella loro

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