• Non ci sono risultati.

Principi del diritto amministrativo Gian Domenico Romagnosi e la trasparenza

Nell’andare a compiere una rapida rassegna sulle origini degli studi della scienza dell’amministrazione in Italia, emerge in modo abbastanza chiaro una significativa influenza da parte della Cameralistica tedesca64 del XVIII secolo. Furono molti e di gran fama gli studiosi che, in quel periodo storico, cominciarono ad approfondire la scienza dell’amministrazione, da Cesare Beccaria, cattedratico proprio in una materia abbastanza nuova e da chiarire ancora nella sua reale essenza, chiamata “Scienze Camerali”, a Pietro Verri, Presidente meneghino del Consiglio Camerale, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Pietro Giannone e Antonio Pagano, i più illustri.

Tuttavia, ormai si è da tempo concordi nel riconoscere che il vero fondatore del diritto amministrativo in Italia sia Gian Domenico Romagnosi, nativo di Piacenza in data 11 dicembre 1761, uomo eclettico dai molteplici interessi, non solo fine giurista, ma anche raffinato filosofo, apprezzato economista e grandissimo appassionato di matematica che ebbe un’influenza fondamentale nei ragionamenti rigorosi, lucidi, compatti e razionali che emersero in modo inequivocabile nei suoi scritti. E comunque, stando al diritto, non si può sottacere che i suoi contributi furono rilevantissimi anche in ambiti ulteriori

64 Renato D’Amico, in un recente libro, Teorie, concetti e metodi, 1, Hoepli, 2006, che in realtà costituisce solo il primo di quattro volumi, ha il merito di tentare una ricostruzione delle origini della scienza amministrativa in Italia attraverso un approccio multidisciplinare, avvalendosi anche del contributo di politologi, sociologi e psicologi. L’autore riprende il solco teorico degli studi già compiuti da Gianfranco Miglio e individua, nell’area germanica, il territorio nel quale la crisi religiosa è stata il fattore scatenante che ha determinato un cruciale passaggio da uno Stato patrimoniale – nazionale, ad uno Stato assoluto di polizia. Questa trasformazione ha comportato un mutamento di legittimazione nel potere del sovrano ma anche, come ulteriore conseguenza, un potente rafforzamento e una progressiva espansione della burocrazia. L’autore lo spiega chiaramente: “Il fatto che lo Stato assoluto fondi la sua legittimazione sul concetto dibene comune, lo costringe a dare vita ad un’ampia gamma di iniziative pubbliche. Tale forte attivismo dei pubblici poteri postula un aumento quantitativo e qualitativo degli addetti, dei dipendenti. Ma non solo. Il sovrano ha anche bisogno che questi dipendenti garantiscano una conduzione razionale ed efficace delle pubbliche attività”. L’attenzione si sposta, dunque, sul piano della conduzione efficiente della “azienda” Stato, sulla necessità di offrire ai sovrani i supporti scientifici su cui fondare la loro ‘arte di governare felicemente gli Stati’. A questa necessità, risponde, appunto, la Cameralistica, scienza che prende il nome dagli uffici o ‘camere’ dove si svolgeva a quel tempo l’attività burocratica.

rispetto a quello pubblicistico, dal diritto civile per proseguire con quello penale65.

Però certo, questo straordinario personaggio è soprattutto ricordato per essere ormai riconosciuto, secondo le ricostruzioni più accreditate, quale padre fondatore del diritto amministrativo italiano66.

Egli si dedica dapprima agli studi dell’uomo individuo, ma parte da questo come base per cercare di comprendere chi sia e come si debba muovere l’uomo sociale e, viceversa, ritiene che una migliore comprensione dell’uomo sociale possa aversi se si studia a fondo l’uomo nella sua individualità67.

Il suo pensiero, fortemente influenzato da vicende autobiografiche che visse con una certa insofferenza, fu completamente incentrato sull’esaltazione degli ideali di libertà68. Tuttavia, ormai in età avanzata, riconobbe l’importanza di quegli studi compiuti da ragazzo nel Collegio Alberoni di Piacenza, tanto che dedicò una delle sue opere proprio ai Direttori del Collegio Alberoni69.

65

Non è un caso che la prima opera scritta dal Romagnosi fu “Genesi del diritto penale”, rinnovata per ben tre volte sino all’edizione finale del 1824, incentrata sui requisiti della pena in genere e, nel particolare, sulla liceità o meno della pena di morte, ispirata da un dibattito in corso in Italia negli anni intorno al 1790, in seguito al grande interesse sollevato per questi temi da un eminente studioso, Cesare Beccaria. Romagnosi fu il primo in Italia a costruire un fondamento teorico al diritto di punire, costruendolo intorno all’esistenza in capo al danneggiato di un vero e proprio diritto di difesa. Ed ancora, dopo che nel 1796 Napoleone Bonaparte lanciò la campagna d’Italia, cacciò gli austriaci dalla Lombardia e venne creata la federazione cisalpina instaurando il Regno d’Italia sotto il potere dei francesi, Romagnosi venne incaricato, alcuni anni dopo, di redigere un Codice di Procedura Penale per il Regno d’Italia che entrò in vigore il 1° gennaio 1807. E, anche in questa occasione, pur non potendo fare prevalere in pieno le sue idee ispirate al rispetto dei colpevoli e a un grande senso di umanità, si rese comunque protagonista di soluzioni rimaste, ancora oggi, storiche, una su tutte, la celeberrima formula del “non liquet”, cioè “in dubio pro reo”, necessaria per orientare in modo equilibrato l’operato dei giudici, evitando condanne vergognose, ma anche assoluzioni che fanno arrossire, per quanto immotivate. 66 Gian Domenico Romagnosi si trovava a Milano, titolare della cattedra di Alta Legislazione, quando scrisse la prima opera conosciuta in Italia dedicata al diritto amministrativo: “I principi fondamentali del diritto amministrativo, onde tesserne le Istituzioni”.

67

Il percorso intellettivo e l’evoluzione del pensiero di Gian Domenico Romagnosi viene così fotografato da M. F. Sciacca nell’opera Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Marzorati, Milano, 1963, p. 152: “Aiutarsi dello studio dell’uomo individuo, per intendere e conoscere l’uomo sociale, e delle manifestazioni sociali, per comprendere i fenomeni dell’uomo individuo, questa è, dal Vico in poi, la tendenza e il metodo della filosofia italiana. Il Romagnosi compì il lavoro”.

68 Nacque da una famiglia piuttosto disagiata che lo mandò, neanche quattordicenne, nel Collegio Alberoni, invero molto celebre, così chiamato dal nome del cardinale Giulio Alberoni, fondatore del famoso collegio di Piacenza. Comunque, è bene sottolinearlo, si trattò di una scelta di ripiego, motivata dalle ristrettezze economiche della sua famiglia; ivi restò per sei anni, tra il 1775 e il 1781. In questo ambiente clericale era tenuto a rigide costrizioni, quali l’obbligo di vestire l’abito ecclesiastico con lo stemma del cardinale sul petto o di recitare per ben due volte al giorno il De Profundis sulla tomba del benefattore del Collegio, il ricchissimo Alberoni e, da questa infanzia si capisce perché matura uno spirito fortemente riformatore e critico verso ogni forma di costrizione bigotta. Tuttavia, non si possono neppure sottacere i meriti di questa formazione collegiale, consistente soprattutto nel fatto che i maestri dell’Alberoni facevano conoscere le opinioni dei vari pensatori ai loro allievi, soprattutto con riferimento agli insegnamenti di tipo filosofico, che peraltro lo infiammavano assai poco, comunque molto meno di matematica e fisica, senza imporre una tesi su un’altra e questo fu un aspetto fondamentale perché lo abituò, sin da ragazzo, all’esame critico e all’approfondimento non preconcetto di qualsiasi insegnamento appreso.

69 Ci si riferisce allo scritto intitolato “Dell’insegnamento primitivo delle matematiche”, in cui esprime grande gratitudine per l’insegnamento ricevuto, definendolo scientifico, cioè pieno a 360° senza alcuna prevenzione e veramente orientato ad aiutare gli alunni a cercare di conoscere la verità.

Recitano le sue biografie che Romagnosi fu il primo titolare in assoluto nel nostro paese di una cattedra di diritto pubblico, il che avvenne presso l’Università di Parma nel 1806. Tra le sue grandi intuizioni anche il fermo convincimento che il diritto amministrativo, per essere compreso appieno, va studiato non solo basandosi sull’uso di regole giuridiche ma anche extragiuridiche70.

Allo straordinario contributo teorico di questo insigne giurista dobbiamo rendere onore sia per una chiara definizione di che cosa si debba intendere quando si parla di attività amministrativa, sia per la chiara enunciazione di principi cardine del diritto amministrativo moderno, da quello di legalità a quello di pubblicità. Il pensatore spiega chiaramente che l’attività amministrativa è un’attività di governo, esecutiva, che in quanto tale comportava “l’uso di un’autorità sovrana o propria o delegata per lo svolgimento di azioni interessanti il corpo politico. In questo senso si dice spesso legge o regolamento di Pubblica Amministrazione per indicare che esso viene emanato dal potere esecutivo.” Quindi una considerazione dell’attività amministrativa che, a quei tempi, mai era stata inquadrata con questa chiarezza: essa è un’attività di governo, e quando si parla di leggi o di regolamenti dell’amministrazione non si vuole significare altro se non che si tratta di atti emanati dal potere esecutivo.

Ma è sul piano dei principi che il contributo diviene cardine e anticipatore di nozioni oggi pacifiche nel diritto amministrativo moderno, come attesta la presenza implicita del principio di legalità in più norme costituzionali e principalmente nell’art. 97 della Carta.

Egli infatti muoveva dalla premessa indiscutibile che ogni amministratore pubblico fosse suddito della legge e quindi poneva in modo limpido la base fondante del diritto amministrativo proprio nel principio di legalità, quindi, in un codice amministrativo contenente un nucleo di leggi atte a guidare gli amministratori pubblici; tuttavia la legge non consente, di per se stessa, di regolare tutti i possibili casi concreti del rapporto tra amministratori e amministrati e questo obbliga ciascun pubblico amministratore, difettando norme di diritto positivo, a ricorrere a norme che si rifanno all’equità e ai principi di natura.

E comunque il Romagnosi considerava questo un male, solo che era un difetto ineliminabile e quindi auspicava che gli amministratori facessero uso del diritto positivo quanto più possibile, non solo, ma anche che essi avessero la piena

70

Va precisato, a tal proposito, che lo studioso non porta questa sua intuizione verso lidi di approfondimento molto elevati, nel senso che si limita ad intuire la necessità che l’amministrazione, per essere compresa appieno, comporti uno sforzo scientifico interdisciplinare, anzitutto legandolo all’economia; tuttavia, questi lampi non si tradussero mai in studi sistematici, come avvenne invece in Germania, il paese dove forse, più di tutti, si cercò di compiere uno sforzo dottrinale, dovuto proprio all’impulso dei cameralisti, teso a ricostruire la scienza dell’amministrazione in modo sistematico, collegandola a contributi di altre materie, non solo l’economia, ma, in misura molto intensa, anche la filosofia. Quindi, tirando le fila di queste considerazioni, sembra potersi concludere che, con Romagnosi, ci si muova su un piano prevalentemente giuridico

consapevolezza del significato più profondo delle norme che lo Stato emanava. Solo così sarebbe stato possibile confinare i possibili arbitrii derivanti dall’operato umano extra - legem in un ambito il più piccolo possibile.

Un altro principio che trova la massima esaltazione nelle idee del Romagnosi è quello della circolazione delle conoscenze. Lo studioso infatti è uno strenuo sostenitore della necessità che gli atti amministrativi siano sottoposti alla massima pubblicità possibile; ora è vero, ragionando in termini attuali, che esiste una profonda differenza tra pubblicità e trasparenza che, in prima approssimazione si può tracciare in un rapporto di genus a species,essendo la prima una categoria più ampia nella quale rientra anche la seconda, però, certo, non sfugge l’attualità di quel pensiero di ormai quasi 200 anni fa. Non solo pubblicità degli atti, ma anche pubblicità e circolazione delle opinioni sulla legislazione e sulla amministrazione dello Stato.

Già allora si fa strada anche l’idea che alla pubblicità degli atti si potesse anche mettere un qualche limite; tuttavia doveva trattarsi di poche eccezioni, tassativamente

previste dalla legge, e anche qui, non sfugge, pensando alla disciplina contenuta nella legge 241/90, la freschezza e l’attualità di quel contenuto teorico71.

Documenti correlati