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Un primo dato lo si può dare per acquisito: ormai, il passaggio alla informatizzazione delle amministrazioni, pur tra mille difficoltà, ha assunto una dimensione rilevante anche in Italia; è da salutare con fiducia ed ottimismo, perché in grado di risolvere certamente problemi pratici di grande momento. Si pensi, ad esempio, a quelli di spazio, che in un ente di grandi dimensioni ha raccolto dati dei cittadini per decenni; avrebbero assunto livelli ingestibili e l’esito più probabile sarebbe stato quello della inevitabile eliminazione di parte degli archivi, pena la condanna inevitabile ad essere sommersi da voluminosi faldoni, o a quelli di celerità, risolti dalla magia delle autostrade informatiche che consentono sia la immediata trasmissione di informazioni verso l’esterno ai cittadini, ma anche l’enorme facilitazione delle comunicazioni tra gli stessi enti, in quanto possono ormai avvenire anche istantaneamente, ed ancora, alla teorica possibilità di arrivare ad un procedimento amministrativo che, una volta composti tutti gli eventuali interessi pubblici e privati, possa compiersi istantaneamente293, ma ne ha aperto inevitabilmente di nuovi.

Sul proscenio, infatti, balza agli onori non solo quello dell’eventuale sovra informazione, ma emergono anche delicati profili relativi alla conservazione del

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E’ la tesi elaborata dal professor Giovanni Duni, G. DUNI, L’amministrazione digitale. Il diritto

amministrativo nella evoluzione telematica, Milano, 2008, in cui l’autore ribadisce una tesi frutto di 30 anni di

studi sulla telematica, cioè il fatto che la dematerializzazione può influire sulla struttura genetica del procedimento amministrativo, annullandone la tradizionale natura sequenziale, in favore di uno schema a stella. Tuttavia, l’autore è consapevole del fatto che all’annullamento della sequenzialità procedimentale vi possano essere importanti eccezioni, come quella della presenza di leggi che, più o meno implicitamente, impongano che quel dato procedimento sia fondato sul mantenimento della sequenzialità, oppure che a questa stessa situazione si pervenga per ragioni di opportunità, per esempio valutazioni non complesse da effettuarsi sull’istanza del cittadino, tuttavia decisive per l’accoglimento della medesima.

dato telematico, alla sicurezza e alla sua trasferibilità, con garanzie assolute di intangibilità, da un’amministrazione ad un’altra. Si potrebbe obiettare che ormai vi sono ritrovati tecnologici, su tutti la firma digitale disciplinata dal codice dell’amministrazione digitale, che sembrerebbero fornire garanzie importanti per il superamento di alcune di queste questioni, ma proprio la storia recente ha dimostrato che si tratta di problemi ancora aperti294.

294 La firma digitale, (si consiglia in proposito anche la consultazione della voce on-line:

http://www.digitpa.gov.it/fiirma-digitale, beneficia, si fa per dire, nel nostro ordinamento, di più definizioni che rischiano di generare confusione nell’interprete. Infatti, se prendiamo come punto di riferimento la definizione più recente del Codice dell’amministrazione digitale modificato per effetto del l’art. 1 comma 1, lettera s, la qualifica come: “un particolare tipo di firma elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”. Una definizione che, balza subito all’occhio, è quantomeno sui generis, sia perché incompleta, in quanto priva del riferimento alla sicurezza del dispositivo che, da sempre, vorrebbe essere una delle prerogative di questo strumento, sia perché si torna, sorprendentemente, a ripescare un istituto, la firma elettronica avanzata, che sorprende l’interprete in quanto sembrava ormai sparito dal nostro ordinamento. Si assiste a un vero e proprio cambio di genere, per il legislatore del 2010 la firma digitale è una firma elettronica avanzata.

Per non perdere la bussola, val la pena ricordare che la firma elettronica avanzata non è una novità assoluta, in quanto era stata introdotta nel nostro ordinamento, una prima volta, con il Decreto Legislativo 10/2002, come conseguenza della ricezione della direttiva comunitaria 1999/93; inoltre si può affermare, che la firma elettronica avanzata è una firma con alcune caratteristiche di sicurezza, ma non tutte quelle che offre la firma digitale. Per definirla ci affidiamo alle parole del legislatore, ex art. 1 lettera q-bis del Codice dell’amministrazione digitale novellato, che parla di “un insieme di dati in forma elettronica, allegati oppure connessi, a un documento informatico che consentono l’identificazione del firmatario del documento e garantiscono la connessione univoca al firmatario, creati con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo, collegati ai dati ai quali detta firma si riferisce, in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati”; questa era ormai abituato sin dalla emanazione del CAD nella sua versione originaria nel 2005, art. 1 lettera s, a configurare la firma digitale come “un particolare tipo di firma elettronica qualificata”, ora il codice parla di firma avanzata.

Ma le stranezze non finiscono certo qui. Infatti, stando alla recente definizione contenuta nel Decreto del Ministero della Giustizia, n. 44 del 2011, recante regole tecniche di svolgimento del processo telematico in materia civile e penale, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 aprile 2011, n. 89, nell’art. 2, comma 1, lettera g, vi si trova, singolarmente, una definizione di firma digitale diversa da quella contenuta nel CAD, in quanto si torna a parlare di “firma elettronica avanzata”, segnando ormai in via definitiva il cambiamento di genere, “basata su un certificato qualificato, rilasciato da un certificatore accreditato, e generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”. Ebbene, va rimarcato che anche la definizione contenuta nel Decreto del Ministero della Giustizia è incompleta, dato che sparisce il riferimento alle chiavi crittografiche e si tratta di una mancanza gravissima, forse una svista, ma pesante, perché le chiavi crittografiche asimmetriche sono l’elemento caratterizzante della firma digitale.

Staccandoci per un momento dalle difficoltà interpretative generate da queste differenti e incomplete definizioni del legislatore, possiamo comunque analizzarle in modo combinato, per cogliere i caratteri identificativi di questo strumento, così come risultanti da queste due definizioni. Si può affermare che la firma digitale è, nel nostro ordinamento, una particolare tipologia di firma elettronica avanzata, basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra di loro, che consente, rispettivamente, al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di uno o più documenti informatici, cioè nasce per assicurare la garanzia di integrità dei dati oggetto della sottoscrizione e di autenticità delle informazioni relative al sottoscrittore. E’ fondata su un sistema crittografico asimmetrico, detto anche a chiave pubblica, che attribuisce a ogni utente, tramite appositi soggetti autorizzati al rilascio, chiamati certificatori, due coppie di chiavi, una privata, da non svelare a nessuno, e una pubblica, in mano ad altri utenti e utilizzata sia per decifrare i messaggi provenienti dall’utente con la chiave privata, sia per cifrare i messaggi da mandare all’utente in modo da renderli illeggibili. Lo scopo di questo strumento è quindi triplice: 1) autenticità, cioè garantire che il destinatario possa verificare l’identità del mittente; 2) non ripudio, garantire che il mittente non possa disconoscere un documento da lui firmato; 3) integrità, garantire che il destinatario non possa modificare un documento firmato da altri. Inoltre, sullo sfondo di

Ed infine, non certo ultimo in ordine di importanza, tutt’altro, su un piano di primo livello in ragione dell’accresciuta forza che il diritto alla riservatezza ha acquistato nel nostro ordinamento, come testimoniato chiaramente dal legislatore del 2005 in sede di riforma della 241/1990, si pone il serio quesito di come regolamentare in modo soddisfacente, per tutti i contendenti, l’insanabile dissidio tra l’esigenza di trasparenza, sempre più forte nel nostro paese in tempi di forte crisi economica e quindi di necessità di sapere con quali modalità e per quali obiettivi avviene la spendita del denaro pubblico, con l’accresciuta dimensione del diritto alla riservatezza, minacciato ancor più, nella sua aspirazione al segreto di taluni dati personali o addirittura personalissimi dell’individuo, dalle aumentate capacità di elaborazione dei dati delle amministrazioni pubbliche. Sotto questo profilo nulla di nuovo: la battaglia tra le due duplici tensioni è in corso, il legislatore ha armato dal 2005 la riservatezza di una grande autorità, data la sua potenziale capacità di neutralizzare il diritto di accesso; ciò cha cambia è solo la scena della battaglia finale che, fuoriuscita dalla cellulosa, è già cominciata, con esiti tutti da verificare, sul terreno ignoto delle autostrade informatiche.

Oltre a queste considerazioni, merita di essere segnalato un aspetto quasi filosofico, più che giuridico, che assumerà sempre più rilievo man mano che prenderà definitivamente corpo questa rivoluzione il quale, ancora poco esplorata, si presenta come un’opportunità monetizzabile, cioè una possibile voce di guadagno per gli enti pubblici. Quella che oggi appare una mera sostituzione del dato di interesse, da un supporto ad un altro, dal cartaceo a quello tecnologico, un domani ormai prossimo non potrà che divenire una politica concertata di valorizzazione di tutto il patrimonio informativo pubblico, con prospettive interessanti non solo sul piano culturale, perché tutto l’enorme patrimonio informativo in capo alle amministrazioni italiane potrà fornire, certamente, il suo contributo a migliorare la cultura dell’Italia; potrebbe anche

queste tre esigenze soddisfatte con la firma digitale, ve n’è un’altra, più generale, che appare forse oramai scontata, ma che è giusto evidenziare, perché su di essa poggia la stessa ragion d’essere dello strumento in analisi: si tratta di un meccanismo che consente di trasmettere informazioni in completa riservatezza.

Cambiano, poi, gli scenari anche sul piano probatorio: infatti, coerentemente con il cambio di rotta sul piano definitorio, avvenuto qualificando la firma digitale come firma avanzata, vi è da segnalare il conseguente ampliamento di prospettive del legislatore anche sul piano probatorio, avvenuto estendo l’efficacia probatoria propria della firma digitale sin dalla sua origine, cioè quella di cui all’art. 2702 del c.c., anche alle altre firme elettroniche avanzate, cioè a quelle tipologie di firme elettroniche accomunate dal fatto di garantire certezze di connessione univoca al firmatario, con l’ulteriore conseguenza che oggi abbiamo tre tipologie di firme che hanno tutte la stessa efficacia probatoria: la firma digitale, la firma avanzata, e anche, stando all’art. 21, II comma, del CAD, la firma qualificata. Tutte e tre hanno, dunque, la stessa forza della firma autografa espressa in forma scritta, cioè si presume che provengano dal loro sottoscrittore, con esclusione della sola firma elettronica semplice, cioè quella tipologia di firme elettroniche che, pur essendo rilasciata anch’essa da certificatori, non offre garanzie totali di connessione univoca al firmatario. Questa minore affidabilità delle firme elettroniche semplici si spiega, soprattutto, con il fatto che i soggetti preposti al loro rilascio sono certificatori non qualificati e neppure accreditati, cioè certificatori semplici che, pur dovendo fornire requisiti di affidabilità e onorabilità e pur essendo, comunque, sottoposti a controlli da parte del Dipartimento delle Tecnologia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non sono tuttavia in grado di fornire gli stessi standard di qualità e sicurezza dei certificatori accreditati e qualificati.

presentare eventuali ricadute economiche, perché le tecnologie informatiche consentono non solo di raccogliere dati, ma anche di fare sopraffine operazioni di elaborazione di questi, al fine di creare contenuti e servizi che hanno un valore aggiunto e che, di conseguenza, sono monetizzabili.

Nonostante le difficoltà brevemente ricordate, sulle quali si tornerà più in profondità, si può comunque arrivare ad una conclusione certa: la tendenza in atto è ormai inarrestabile, indietro non si torna. Tutti i settori della società contemporanea, e quindi anche le amministrazioni, tra l’altro con un ruolo da grandi protagoniste, sono interessate da un impiego sempre più massiccio e penetrante delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, denominate ICT, quale sigla della locuzione inglese Information and Communication Technologies295.

Perché le amministrazioni, più di altri soggetti, sono protagoniste della rivoluzione informatica? Le ragioni, a rifletterci, sono soprattutto due, ben evidenziate dal professor Francesco Merloni: in primo luogo, le più grandi produttrici e insieme detentrici di informazioni riguardanti la vita degli individui sono proprio le amministrazioni, che raccolgono informazioni sia a fini strumentali del soddisfacimento degli interessi pubblici a cui sono preposte, e sia a fini informativi; casi classici le grandi campagne contro il tabacco per i rischi diretti sulla salute o quelle contro l’alcool, finalizzate ad evitare che ci si metta alla guida in stato di ebbrezza. In seconda battuta, non si deve dimenticare che spetta proprio alle amministrazioni sia fissare le regole con le quali si devono diffondere i servizi informatici all’interno dei servizi pubblici e di quelli pubblici privatizzati, sia intervenire per consentire un’adeguata diffusione delle tecnologie informatiche tra i cittadini, onde evitare l’insorgere dell’irrisolto problema del divario digitale, meglio noto come digital divide296; esiste, infatti,

295 Per un approfondimento delle ICT ed in particolare della stretta convergenza tra tecnologie informatiche e sistema delle telecomunicazioni, si consiglia di consultare AA.VV., ICT e società dell’informazione, Milano 2010.

296 L’espressione digital divide è apparsa, per la prima volta, all’inizio degli anni novanta negli Stati Uniti, dove si era notato che il possesso e la diffusione dei personal computer aumentavano progressivamente e regolarmente, solo presso alcuni gruppi etnici. Fu però un famoso discorso tenuto dall’allora Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton nel 1996, a Knoxville in Tennessee, in cui era stata messa in evidenza dall’amministrazione centrale proprio la disparità di accesso ai servizi telematici, tra i vari strati di popolazione del paese, a conferire successo a questa locuzione. Questa terminologia ha avuto così tanta fortuna, da uscire ben presto dai confini degli Stati Uniti, per essere usata anche a livello globale, contrassegnandosi oggi di un duplice significato: indica sia il divario esistente tra coloro che hanno accesso agli strumenti informatici e coloro che invece non hanno questa opportunità, in una realtà localizzata come ad esempio un singolo Stato ma, in una prospettiva planetaria, evidenzia la grande differenza di opportunità tecnologiche tra i paesi più ricchi e quelli in via di sviluppo. In particolare; fu a Davos nel 2000, durante l’incontro annuale del World Economic Forum, che molti interventi dei relatori puntarono proprio l’attenzione sull’esistenza di un divario digitale tra taluni paesi e altri del sud del mondo e venne creata, per la prima volta, una Task Force, a cui aderirono anche multinazionali del settore tecnologico, quali Sony, Microsoft, Motorola e altre, con il compito di studiare il problema e proporre soluzioni. Tuttavia, nonostante l’esistenza indiscutibile di questa disparità tra stati e cittadini di una stessa comunità, è di un certo interesse evidenziare che, sia negli Stati Uniti, che a livello globale, Internet è la tecnologia con la più rapida diffusione nella storia dell’uomo: prendendo a parametro il 30% delle famiglie americane, si è calcolato che ci sono voluti 46 anni prima che esse fossero collegate alla rete elettrica, 38 per la diffusione del telefono, 17 per quella della televisione e solo 7 per Internet. Stessi numeri impressionanti, su

disuguaglianza tra quei cittadini che, per effetto di un efficace agire amministrativo, hanno accesso alle tecnologie informatiche e quindi, grazie a questo risultato, potranno interloquire con le amministrazioni usufruendo direttamente di questi nuovi strumenti, e coloro che non hanno pienamente questa opportunità o, addirittura, nei casi gravi, non ce l’hanno ancora per niente. Si pensi, banalmente, alla carente diffusione in Italia di Internet a banda larga, posseduta alla fine del 2010 solo da una famiglia italiana su tre, fondamentale se si vuole accedere con facilità a materiali di una certa grandezza, soprattutto contenuti grafici e visivi posti in files maneggiabili agevolmente, solo in presenza di connessioni di una certa velocità. E d’altronde, che in Italia la diffusione delle tecnologie ICT sia oggi ancora insufficiente lo certificano gli ultimi dati ONU disponibili, quelli del 2010297, che spingono a sostenere che forse, ad oggi, l’incognita più grande non è nessuna di quelle ricordate, tutte risolvibili con il progredire inevitabile di queste tecnologie, è invece la mancanza di conoscenza nei cittadini, cioè l’ignoranza in larghi strati della popolazione di queste nuove opportunità, sia perché non ancora raggiunti fisicamente da questi servizi, sia perché, quando questi finalmente arrivano, non

scala globale: nel 1993 gli utilizzatori nel mondo di Internet erano circa due milioni, su cinque miliardi e settecento milioni circa di abitanti del pianeta, neanche lo 0,05%, ma nel 2002 erano arrivati già a circa 580 milioni su 6 miliardi e trecento milioni di abitanti, quasi il 9% della popolazione mondiale e, si stima che, grazie alla notevole diffusione dei telefonini intelligenti che stanno consentendo ai paesi in via di sviluppo di saltare direttamente la necessità fisica di avere un personal computer per collegarsi ad Internet, nel 2012 verrà toccata l’impressionante cifra di due miliardi e mezzo di persone potenzialmente in grado di collegarsi alla grande rete, circa il 36% di tutti i 7 miliardi e 100 milioni di abitanti che il globo avrà a fine 2012! Questo dato è evidenzia che, in meno di 20 anni, Internet ha saputo raggiungere più di un terzo di tutti gli abitanti della terra, il che ne fa la tecnologia largamente a più rapida diffusione di tutta la storia dell’umanità.

297 La classifica ONU del 2010, sulla diffusione delle tecnologie ICT all’interno dei singoli paesi,, contenuta nel

report Measuring the Information Society 2011, colloca l’Italia in una sconsolante ventottesima posizione a

livello mondiale, addirittura in regresso di due posizioni rispetto alla graduatoria del 2009; il dato interessante di questa graduatoria è anzitutto il primo posto che, ormai da anni, non è ad appannaggio degli Stati Uniti, solo diciassettesimi in classifica nonostante siano stati il paese del mondo che ha avuto negli anni ’90 la più forte penetrazione in Internet per famiglie, ma della Corea del Sud, seguita a ruota da tutti i paesi dell’Europa del nord, Svezia, Islanda, Danimarca e Finlandia; inoltre, dai rilievi dell’ONU, risulta che quasi tutti i 152 Stati indipendenti presi in esame hanno migliorato il proprio punteggio; tra le poche eccezioni l’Italia che, a causa di politiche di vivo disinteresse del governo per questa materia ormai cruciale, decresce. Tra i tanti dati resi pubblici da questa relazione, vale la pena segnalare anche: 1) il fatto che il costo medio di un servizio a banda larga in Africa, sebbene ancora altissimo, sta scendendo molto rapidamente: se nel 2008 era pari addirittura al 650% del reddito medio mensile, nel 2010% è sceso sino al 250% di tale reddito medio e si stima che tale soglia possa scendere sotto il 100%, tra il 2012 ed il 2013; 2) infine, ma non certo ultimo in ordine di importanza, il ruolo decisivo dei giovani nei paesi in via di sviluppo, per favorire la rivoluzione digitale: infatti in tali zone del mondo, addirittura il 46% della popolazione, ha meno di 25 anni e quindi bisogna puntare alla diffusione di queste tecnologie proprio presso le giovani generazioni, che rappresentano quasi il 40% della popolazione mondiale; infatti si stima che siano circa 2 miliardi e mezzo di persone e, presso questi ragazzi l’uso di Internet raggiunge ancora una percentuale bassa, il 21% contro il 70% dei loro coetanei dei paesi sviluppati. Infine, un ultimo cenno relativo all’Italia, dove le difficoltà endemiche e apparentemente non superabili di diffusione di accessi Intenet a banda larga da rete fissa, stanno curiosamente dando vita a un fenomeno molto simile a quello dei paesi del sud del mondo, l’accesso alla rete sta aumentando costantemente, ma attraverso i telefonini intelligenti. E’ quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio trimestrale sulle telecomunicazioni, aggiornato al 30 settembre 2011, da cui emerge che gli accessi al web da rete fissa sono addirittura calati, e non

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