2.2. La capacità di mentalizzazione
2.2.1. Comprendere il comportamento altru
Assai complicate sono le competenze che rendono possibili le dinamiche relazionali umane, almeno se si pone mente alla sola notevole complessità della comunicazione, la quale implica il continuo sforzo di comprensione e di previsione dei comportamenti altrui, sempre sottoposti al tentativo di interpretazione che giustifica e rende possibile l‟interazione, e pertanto, almeno in questo senso, è possibile sostenere che il comportamento altrui sia osservabile, per quanto invece, appunto, le cause che lo generano non siano affatto unicamente condizionamenti esterni, ma piuttosto stati interiori, che non sono visibili e vanno dunque interpretati, nel far che consiste il nucleo centrale delle dinamiche relazionali, poiché quello sforzo ermeneutico consente la comprensione dei comportamenti passati e una previsione plausibile dei futuri; ma allora risulta di evidenza palmare come tale capacità faccia parte del processo d‟attribuzione tipico di una competenza fondamentale, di natura, però, schiettamente cognitiva, e che, oramai ampiamente studiata, ha nome “mentalizzazione”.
La facoltà di riconoscere e attribuire ai nostri simili una razionalità nella loro azione e nei loro comportamenti come specchio della razionalità dei loro pensieri determina una modalità peculiare di comprensione comportamentale che rende possibile la coesione sociale. Ma, ciò che ramassimo rilievo dal punto di vista non solo filosofico, ma anche metodologico ed epistemologico, tale concetto di razionalità non può venire confuso con una insperata perfezione deduttiva, che
66
peraltro allignerebbe nell‟infondato, e che avrebbe dunque per ciò stesso impossibili pretese argomentative, oppure con una fantomatica scientificità nelle attribuzioni di significato circa i comportamenti osservati: si tratta, ben più semplicemente, ma assai più coerentemente sul piano argomentativo, di ascrivere altri soggetti un processo di causazione e di coerenza dei comportamenti che fa capo alle modalità con cui una mente deve elaborare il reale e i propri stati interni, ovvero di attribuire loro una mente, col che si vede come, gli altri abbiano non proprio la ragione, ma almeno delle ragioni per pensare e comportarsi come fanno.
Il riconoscimento di stati mentali negli altri individui come differenti dai propri stati interni è quanto determina nei bambini l‟emergere della capacità di mentalizzazione, abilità che – stando ad alcuni autori, come Fonagy e Target (Fonagy, Target, 2001) –, emergerebbe come risultato di una funzione riflessiva che nasce dal riconoscimento della propria vita interiore, più che non come l‟esito di un processo di interazione con l‟altro.
Aspetto cruciale per lo sviluppo della mentalizzazione e di normali dinamiche relazionali è pertanto la capacità dei bambini di considerare l‟altro come un individuo con una vita mentale, diversa dalla propria, che ha un potere causale sul comportamento, dal che discende che la capacità di interpretare il comportamento altrui come coerente con motivi, di comprendere intenzioni e di prevedere possibili conseguenze, è un aspetto necessario al conseguimento del sé individuale e al suo successivo sviluppo come agente sociale.
Il paradigma di ricerca che fa riferimento a quella competenza definita «Teoria della Mente» (ToM) è quanto ha consentito di studiare con profondità tale insieme di tesi e di problemi ad esse connessi: notevoli sono le ripercussioni sui meccanismi di organizzazione degli stati mentali dovute alle caratteristiche peculiari del funzionamento della mente umana cui quella capacità fa capo.
Fondamentale – come apparirà chiaro nel seguito – per lo sviluppo psicologico individuale e per il riconoscimento degli altri come menti sociali in grado di interagire creando una coesione fondata sull‟attribuzioni di esperienze psicologiche è tale processo, complesso e articolato, poiché non è atto immediato dell‟esperienza quello che consiste nel pensarsi esseri dotati di mente e nell‟attribuire stati mentali agli altri, così come complesso è il processo, che nel corso dell‟ontogenesi si struttura in modo sistematico e peculiare stabilendo un importante vantaggio all‟interno delle interazioni, e che ha condotto alla possibilità di percepire “segnali sociali” come le emozioni, le azioni, l‟attenzione o le decisioni altrui: ciò emerge dal lavoro di una notevole quantità di studiosi, concentratisi sulle fasi dello sviluppo in cui si determinano le capacità di auto-attribuzione e, successivamente, l‟etero-
attribuzione di una mente nei bambini piccoli.
La regolarità nei registri di condotta messi in opera nell‟ontogenesi umana e le osservazioni provenienti dall‟ambito degli studi di psicologia dello sviluppo hanno
67
consentito di osservare il modo in cui si raggiunge il livello consapevolezza necessario a pensare se stessi e gli altri come individui dotati di una mente.
Infatti, particolarmente interessante perché consente di osservare il modo in cui maturano certe abilità cognitive decisive nel corso della vita individuale e sociale, è il percorso attraversato da un bambino, mentre, d‟altronde, l‟analisi serrata del momento in cui quelle fanno la loro comparsa, e delle modalità con cui ciò avviene, può condurre a formulare ipotesi plausibili circa il motivo per cui quelle, e non altre, furono selezionate dalla filogenesi, il che, appunto consentirebbe di ipotizzare il vantaggio evolutivo di competenze che mediano le interazioni con gli altri. Come detto, particolarmente significativo, in quest‟ambito è l‟approccio proposto dalla psicologia dello sviluppo impegnata nell‟individuazione degli stadii del percorso ontogenetico verso la strutturazione dell‟identità individuale: la consapevolezza della propria vita interiore come qualcosa che si articola nella forma degli stati mentali è ciò che secondo tale impostazione conduce alla strutturazione della coscienza di sé e quindi dell‟identità individuale.
Del resto continuamente mediate dall‟idea che gli esseri umani siano mossi da stati psicologici interni sono la vita interiore di ciascuno di noi, articolata nella forma del comune flusso di coscienza, nonché la maggior parte delle relazioni interpersonali (cfr. Perconti, 2006 p.32).
Il dibattito filosofico concernente tali questioni, in modo particolare l‟ambito della filosofia della mente, si interroga, nello specifico, su che cosa sia una mente, su
come essa funzioni e su come sia possibile l‟attribuzione di una mente agli altri individui.
Un dibattito, che nella modernità ha avuto una vasta e gloriosa tradizione, viene così risvegliato dall‟attenzione che oggigiorno si rivolge ai processi mentali, tanto da orientare, nell‟attuale controversia circa rapporto tra il sé mentale e il sé corporeo, le osservazioni dei filosofi della mente della seconda metà XX secolo e anche quelle dei nostri contemporanei.
In particolare, balza agli occhi il debito col grande filosofo francese, se proprio il dualismo cartesiano suggerisce un‟analisi separata delle entità, affatto distinte, definite res cogitans e res exstensa, la seconda delle quali, o «sostanza fisica», la cui essenza è determinata dall‟estensione spaziale, ha le specifiche proprietà di essere
conoscibile direttamente, determinata, infinitamente divisibile, distruttibile, laddove
la prima, o «sostanza pensante», la cui essenza è il pensiero, o la coscienza, sarebbe pure conoscibile direttamente, però avrebbe le proprietà, tutt‟affatto opposte a quelle dell‟altra res, della libertà, dell‟indivisibilità e dell‟indistruttibilità, cosicché anche oggi volentieri in letteratura ci si riferisce a due entità osservabili ed analizzabili separatamente, il che ha ingenerato un buon numero di questioni che ancora alimentano un acceso confronto.
68
Per esempio, il filosofo John Searle indaga nel suo libro La mente (Mind. A Brief Introduction, Oxford University Press, 2004) gli approcci al problema mente-
corpo che attualmente risultano essere i più influenti, sostenendo la falsità delle
posizioni correnti, ovvero del dualismo, del materialismo, del comportamentismo, del funzionalismo, del del computazionalismo, dell‟eliminativismo e dell‟epifenomenismo.
Nel ripercorrere le argomentazioni che in modo peculiare hanno impegnato gli studiosi Searle propone alcuni dei problemi che animano il dibattito e da lui definiti i «dodici problemi della filosofia della mente», ovvero il problema delle altre menti, il problema dello scetticismo verso il mondo esterno, la percezione, il libero arbitrio, l‟io e l‟identità personale, le menti degli altri animali, il sonno, il problema dell‟intenzionalità, la capacità causale della mente e l‟epifenomenismo, il problema dell‟inconscio.
Il dualismo mente-corpo, per quanto non sia stato definitivamente abbandonato, va tuttavia considerato oggi un approccio che si discosta dall‟immagine scientifica del mondo più diffusa, soprattutto se si tiene conto della ricerca svolta nell‟ambito verso cui confluiscono quelle discipline che tentano di approfondire la comprensione dei processi della cognizione, quello, appunto, delle scienze cognitive.
Le risultanze dell‟osservazione diretta provano inoltre come sia non solo possibile, ma veramente opportuno, attraverso lo studio serrato dei risultati provenienti dalle ricerche sul cervello umano, sforzarsi di spiegare i processi mentali più complessi al livello di descrizione delle neuroscienze. Si comprende pertanto come il dibattito attuale nella scienza della mente voglia esplorare con attenzione la possibilità di conciliare la natura apparentemente immateriale dei fenomeni mentali con una visione materialistica del mondo, così da interrogarsi su quale precisamente sia il ruolo della mente osservando il funzionamento del corpo.
Le due entità risultano peraltro congiunte dall‟ indagine materialista – declinata nel fisicalismo, funzionalismo, computazionalismo, e nel riduzionismo – la quale osserva come stati mentali e stati fisici siano in una relazione reciproca causalità: in altri termini, il funzionamento anche biochimico del cervello, ben più che non presunte entità spirituali e impalpabili, è quanto sta dietro il nostro comportamento.
Fondamentali sono, per l‟indagine della mente, le questioni sollevate da tali riflessioni. L‟inclinazione, tipica degli esseri umani, a riconoscere esseri pensanti da esseri che non possiedono una vita mentale costituirà il fulcro del presente paragrafo: l‟esistenza di una mente che permetta di creare una prospettiva – eventualmente prevedibili – sulle cose è precisamente quanto, ci accomuna invece agli altri esseri umani e che siamo in genere restii ad attribuire agli altri animali e che mai riconosceremmo negli oggetti, a meno di casi patologici.
69