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2.1. L’empatia: un fenomeno complesso

2.1.2 Il continuum dell’empatia

Questo succinto percorso ha dunque mostrato che nel corso del XX secolo molti e diversi sono stati gli approcci che hanno informato gli studii sul concetto di empatia: l‟attenzione si è concentrata – come detto – ora sul contagio emotivo che susciterebbe l‟imitazione motoria automatica, ora sugli aspetti schiettamente cognitivi; talora, invece, si sono esaminati i risvolti che quel sentimento ha sul piano sociale e talaltra si è affrontato il solo tema della condivisione affettiva, dal che non poté non nascere una babele di lingue e definizioni, nella quale si è spesso smarrita la natura intrinsecamente complessa e multidimensionale del fenomeno. Quello di ricomporre un quadro teorico che rendesse ragione di tale complessità, delle sue diverse modalità di espressione, dei processi cognitivi ed emotivi che

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mediano il fenomeno in questione, è stato il compito che si sono posti, soprattutto negli ultimi anni, i ricercatori più attenti, ai quali si deve allora la possibilità, che oggi si è guadagnata, di delineare un modello di empatia tale da spiegare la complessità del fenomeno e le modificazioni subite nel corso della ricerca dalle varie definizioni, che di quello si sono tentate.

Il primo contributo di chi ha provato a ravvisare nell‟empatia un costrutto multicomponenziale è stato quello della Feshbach (Feshbach, Roe, 1968), secondo la quale empatizzare con qualcuno significa sperimentare esattamente l‟emozione da quello provata, col che si vede come si tratti di esatta concordanza affettiva (affect

match), in cui, tuttavia, vi è piena consapevolezza di come l‟emozione condivisa derivi quella dell‟altro (condivisione vicaria) e non sia quest‟emozione. Sapere

accuratamente riconoscere l‟emozione vissuta dall‟altro, in modo tale da poter mettersi nei suoi panni è l‟abilità richiesta per questo tipo d‟immedesimazione, pertanto, affinché si generi una risposta empatica, la componente affettiva e quella cognitiva s‟integrano reciprocamente, per quanto, in effetti, la Feshbach non distingua perspicuamente dall‟empatia i processi cognitivi la rendono possibile.

Già negli anni Ottanta, tuttavia, v‟è stata, da parte delle trattazioni più approfondite una notevole rivalutazione della la natura sostanzialmente affettiva dell‟empatia, com‟è certamente, avvenuto, del resto prevedibilmente, da parte di autori – in particolare Hoffman (1982; 1984; 1987) e Strayer (1987a) – che considerano l‟empatia da una prospettiva della psicologia evolutiva: infatti, nel corso dello sviluppo mutano sia i tipi di mediazione cognitiva sia le forme di empatia che il soggetto mette in atto.

Uno dei più importanti studiosi dell‟argomento, Hoffman, vede nell‟empatia un processo di attivazione emotiva appropriato e consonante con quello di un altro individuo. Peraltro va detto che, sebbene in tale modello sia assegnata agli aspetti cognitivi un‟importanza cruciale, essi non qualificano in quanto tali l‟esperienza empatica. Hoffman, il primo in ciò, inquadra l‟empatia pienamente secondo un‟ottica di psicologia dello sviluppo: l‟empatia è ora un‟abilità che evolve, che cambia forma, differenziandosi progressivamente, non più imprigionata nella dimensione monolitica in cui la Feshbach ed altri autori che la precedettero, l‟avevano rinchiusa, poiché se quell‟autrice concettualizza un‟unica forma di empatia mediata da processi cognitivi complessi, Hoffman, secondo il quale l‟empatia non è più un blocco “unitario”, poiché si articola invece in diverse forme sempre più mature e sofisticate col procedere dello sviluppo, riesce, come detto, ad individuare e specificare diversi tipi di empatia, mutevoli e via via più complessi con l‟evolvere dei processi cognitivi, che quella abilità mediano.

Va anche detto che lo Hoffman, rispetto alla Feshbach, definisce i comportamenti empatici in maniera, per così dire, meno restrittiva, poiché a ben vedere egli, con il termine “empatia”, non si riferisce solo all‟esatta corrispondenza

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tra sentimenti ma anche all‟insieme di processi che accompagnano la percezione dello stato emotivo di chi si ha di fronte e suscitano, nel soggetto che è immerso nell‟interazione empatica, una risposta affettiva che si adatta alla situazione in cui si trova il suo interlocutore meglio che al proprio stato interiore.

Stando a Hoffman, nelle primissime manifestazioni empatiche, che si registrerebbero fin dai primi giorni di vita infatti, la dimensione affettiva avrebbe il ruolo di maggiore rilevanza, mentre la dimensione cognitiva sarebbe pressoché assente,mente col procedere dello sviluppo si avranno forme più evolute di empatia, in quanto la componente cognitiva acquisirà importanza crescente e si compenetrerà sempre di più con quella affettiva.

Ma a queste due componenti si aggiunge in questo modello un terzo fattore: la componente motivazionale, poiché l‟esperienza che consiste nell‟empatizzare col sofferente, infatti, rappresenterebbe una motivazione all‟aiuto, poiché condividere l‟emozione dell‟altro, soccorrerlo e, quindi, alleviarne la sofferenza, induce in chi aiuta uno stato di benessere, mentre la scelta opposta avrebbe come conseguenza uno sgradevole senso di colpa, dal che s‟intende facilmente come il collegamento tra l‟empatia e il comportamento prosociale sia centrale in questa prospettiva, che ha informato anche gli studi della Strayer (1987): le intuizioni di Hoffman rappresentano uno spunto utile, sempre, però, corredato da numerose e accurate ricerche empiriche, svolte in oltre un ventennio, spesso in collaborazione Eisenberg, per la formulazione di un modello forse non particolarmente innovativo in termini teorici, il risultato più interessante del quale, è però la notevole escogitazione di nuove procedure per operazionalizzare l‟empatia, coerentemente con il modello multidimensionale che la studiosa americana propugna.

La misura multidimensionale dell‟empatia elaborata dalla Stayer prende in considerazione quei diversi tipi di mediazione cognitiva e le differenti forme di condivisione empatica che ad essi corrispondono (Empathy Continuum: EC), attuando in tal modo un interessante tentativo di considerare sia i processi cognitivi sia il grado di condivisione affettiva, e poi di esaminarne l‟andamento lungo lo sviluppo.

La valenza relazionale del comportamento empatico è poi debitamente analizzata nel modello, proposto Davis negli anni Ottanta e Novanta del secolo passato, che formalizza interazioni complesse e che comprende una serie di variabili sociali molto ampia (l‟autore stesso lo definisce “psicosociale”), nel quale l‟empatia è definita come una serie di costrutti, tra loro fortemente intrecciati, attivi ogniqualvolta si assiste all‟esperienza emotiva di qualcuno.

Peraltro anche Vreeke e Van der Marke (2003) si muovono su una linea simile, proponendo una definizione di empatia che coinvolge anche il contesto comunicativo che dà luogo alla risposta empatica, permettendole quindi anche di evolvere: s‟identicica quindi volentieri l‟empatia come risposta comportamentale ed emotiva a

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una specifica domanda dell‟interlocutore, dunque empatizzare con qualcuno significherebbe dare risposta adeguata ai bisogni che l‟altro ha esplicitati. Tale modello non risulta affatto carente in termini di territorio esplorato e formalizzato, poiché in quella modalità di risposta sono coinvolti molti aspetti che hanno la funzione di mediare o moderare, e riguardano le caratteristiche personali tanto di chi empatizza e quanto del suo interlocutore: la storia delle proprie relazioni affettive e le caratteristiche del contesto sono risultano avere importanza fondamentale, dal che si vede anche, però quanto decisivo, nella modalità con cui l‟individuo risponde al dolore altrui, sia il contesto comunicativo-relazionale che quindi co-determina le future reazioni empatiche.

Agevole è dunque la conclusione secondo cui l‟empatia sia considerata dalla ricerca recente, che in ciò si fonde, quindi, con i primi studii sull‟argomento, come esperienza, sostanzialmente affettiva, di condivisione, come del resto appare chiaro dalla definizione di empatia che dànno Eisenberg e Strayer (1987, p. 5): «una risposta emotiva che è provocata dallo stato emotivo o dalla condizione di un‟altra persona, e che è congruente con lo stato emotivo o la situazione dell‟altro», concezione che informa anche il presente lavoro, secondo il quale, appunto, l‟empatico non solo comprende, ma anche condivide e partecipa e tale sua partecipazione non si esaurisce in una mera risposta cognitiva, poiché, invece, nel fatto comporta un sentire comune e, come detto, non si dà empatia senza “risonanza” emotiva.

L‟empatia diviene pertanto davvero fenomeno non unitario né unidimensionale, ove la si consideri come esperienza emotiva di condivisione mediata quindi da processi cognitivi, poiché la condivisione emotiva indubbiamente presenta differenti livelli di attivazione, caratterizzati da un altrettanti gradi di coinvolgimento nell‟altrui stato emotivo e quindi, i diversi livelli e tipi di mediazione cognitiva presuppongono – il che comporta inoltre diversi gradi di differenziazione tra sé ed altro –., come risulta chiaro, diverse forme di empatia. Diversi sono per tali ragioni i tipi di empatia che i modelli appena citati, che sono anche multidimensionali, portano a considerare ed esaminare, poiché, attenendosi strettamente ad essi si vede che non esiste un‟unica empatia, che ora appare per quello che è: una complessa esperienza affettiva di condivisione diversamente mediata, di volta in volta, da varii processi cognitivi. È stato, del resto, soprattutto grazie agli studi evolutivi che sottolineano come non sia possibile attribuire etichette terminologiche a fenomeni che presentano al loro interno molteplici sfaccettature e differenziazioni, se oggi si possiede la consapevolezza del fatto che i fenomeni interpersonali, per il loro grado di complessità, non possano essere trattati in modo unitario e unidimensionale.

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