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2.1. L’empatia: un fenomeno complesso

2.1.1. L’empatia tra cognizione e affettività

Impresa di notevole difficoltà è la ricerca di una possibile definizione di empatia all‟interno della vasta bibliografia sull‟argomento, specie considerando che il termine

empathy fu coniato nel 1909 da Titchener come traduzione del termine tedesco Einfühlung, traduzione letterale “sentire dentro”. Titchener era per lo più interessato,

per le sue ricerche, all‟individuazione di un concetto che denotasse un fenomeno estetico. Theodor Lipps, in seguito, sviluppò ulteriormente l‟intuizione di Titchener, utilizzandola, dopo averne ideato una formulazione meno prossima all‟esperienza estetica che al vissuto psichico, nei proprii studii. Se “ein” sta per “dentro” (come in

Einsicht, che significa “intuito”, ma non come ein-/Eins = uno) e “Fühlung” vale

“sentire/sentimento”, Lipps sottolinea come il piacere estetico consista nel godere di un oggetto esterno, ponendo in tal modo l‟accento non tanto nell‟oggetto stesso quanto nel soggetto percipiente. Il termine Einfühlung implica che chi osserva un certo gesto in un‟altra persona proietti se stesso su di lei e creda perciò di sentire ciò che l‟altro sta provando, manifestando una tendenza ad imitare il gesto percepito. Fu per questa sorta di immedesimazione che Titchener reputò la nuova parola empatia, da lui coniata sulla base greca empatheia, il termine più adatto a tradurre l‟originario tedesco.

Freud, da parte sua, aveva già parlato del meccanismo dell‟identificazione come capacità di far propria l‟esperienza dell‟altro: tale risorsa consentiva ai pazienti di esprimere nei loro sintomi le esperienze altrui, quindi produceva, ad esempio, sofferenza psichica nel caso ci si immedesimasse con persone sofferenti.

La condivisione emotiva è stata largamente studiata anche da altri orientamenti, per lo più in ambito psicoterapeutico: si consideri, ad esempio, il Rogers (1959; 1975) che ha letto quell‟esperienza come indispensabile strumento del terapeuta per entrare nel mondo del paziente senza giudicarlo. Allo stesso modo, Kohut (1959;

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1984) riconosce all‟empatia un ruolo centrale in quanto la definisce come la modalità attraverso la quale il mondo psicologico del paziente è contattato dal terapeuta, spingendosi sino a parlare di una capacità innata che permetterebbe a chiunque di comprendere gli stati psicologici altrui, ciò di cui si vedono le ovvie e forti implicazioni, visti gli effetti positivi dell‟empatia nella creazione di legami tra gli individui. Studii di carattere sociale e relativi alla psicologia della personalità avevano in precedenza mostrato spiccato interesse per l‟empatia,come testimoniano i lavori di Allport (1937) che, ponendo enfasi sull‟aspetto fisico ed espressivo della partecipazione empatica, ha trattato della tendenza all‟imitazione delle posture e delle espressioni facciali altrui. Murphy (1947) ha dal canto suo ritenuto quello stato psichico un‟esperienza sostanzialmente affettiva, di condivisione emotiva, e comunque, in generale, gli studii clinici, sociali e di psicologia della personalità sembrano comunque dar maggior risalto alla concezione affettiva dell‟empatia.

Fondamentale è il ruolo giocato, nell‟affrontare questo complesso tema, dalla psicologia umanistica, in particolare da Rogers, Maslow e da altri ancora. Stando alla concezione rogersiana sono 3 le condizioni fondamentali che creano un clima favorevole alla crescita, ovvero che forniscono i presupposti per l‟autorealizzazione del soggetto; tali componenti sono: la congruenza, l‟accettazione incondizionata e la comprensione empatica (Rogers, 1970, 1983). La comprensione empatica, in particolare, è da Rogers definita come “la capacità del terapeuta di percepire con precisione i sentimenti e i significati personali sperimentati dal cliente e la possibilità di comunicare questa comprensione”.

Una concezione fondamentalmente affettiva dell‟empatia, considerata un‟esperienza di condivisione emotiva è, pertanto, come detto, ciò che accomuna gli studii clinici e quelli degli psicologi sociali e della personalità, poiché – come in effetti si trova – tutti gli studiosi che, ciascuno dalla sua prospettiva, si sono occupati del tema, hanno ritenuto che tale costrutto potesse essere descritto come processo di attivazione emotiva, più o meno volontario e per molti innato, in atto nella condivisione/partecipazione ai vissuti dell‟altro: empatizzare con qualcuno significherebbe dunque partecipare/condividere le sue emozioni, seppure in modo vicario.

Si comprende dunque come per gli psicoanalisti questo speciale modo di “sentire quello che l‟altro sente” diventi una via preferenziale d‟accesso alle emozioni e ai significati del mondo interno di quello (Rogers, 1975; Kohut, 1984), mentre per i primi psicologi sociali l‟empatia consisteva nell‟imitare spontaneamente i gesti e le posture osservate negli altri e quindi condividere i loro vissuti (Allport, 1937).

Tale concezione, però, esaurisce la sua spinta propulsiva invece a partire dagli anni Sessanta, un periodo in cui d‟altronde, anche la psicologia dello sviluppo prende a interessarsi dell‟empatia: ci si concentra molto di più sui processi che mediano l‟adesione empatica, quindi si va alla ricerca degli aspetti più cognitivi di tale

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esperienza, pertanto accade che in letteratura anche la terminologia risenta della nuova impostazione, maggiormente attenta alla cognizione, come detto, dunque l‟attenzione va concentrandosi, ad esempio, sulla capacità di assumere la prospettiva ed il ruolo di un‟altra persona, il che dà peraltro luogo ad una grande fioritura di studii, la quale comporta, allo stesso tempo, anche il rischio di una notevole dispersione sia sul piano teorico sia su quello metodologico.

Il nuovo approccio ha quindi dettato una modalità di formulazione e di comprensione del fenomeno empatico come la capacità di saper cognitivamente decentrarsi, così da “mettersi nei panni degli altri”, e poter adeguatamente comprendere di quelli modalità di valutazione di situazioni date e vissuti a quelle correlati: empatizzare con qualcuno vuol dire – secondo una prospettiva spiccatamente cognitivistica – comprenderne i pensieri, le sue intenzioni, riconoscerne con precisione le emozioni e riuscire ad immaginare la situazione che quello sta vivendo (Borke, 1971).

Si comprende dunque come l‟approccio sia radicalmente diverso da quelli inizialmente riportati, poiché secondo ora l‟esperienza affettiva di condivisione delle emozioni, pur non essendo affatto negata, si reputa subordinata alla comprensione dei sentimenti e delle intenzioni altrui: essa risulta, dunque, essere, in definitiva un epifenomeno della cognizione.

Ma allora, non si mancherà d‟osservare come spesso, attenendosi ad una concezione rigidamente cognitivistica, si sia corso il pericolo di smarrire l‟esperienza empatica nella sua globalità, poiché la si è sovente confusa con alcuni dei prerequisiti che la rendono possibile e con processi di mediazione in quella implicati.

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