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Fatti esterni, schemi concettuali e competenza dimostrativa

Tabella 1 La struttura del modello di analisi per categorie e indicator

5.2. Dimensione deittico-contestuale

5.2.4 Fatti esterni, schemi concettuali e competenza dimostrativa

Da quanto sopra detto si trae che talvolta gli atti dimostrativi possono, anche per cause del tutto indipendenti dalla concezione eventualmente affatto coerente della comunicazione, risultare superflui. Casi come questi sono quelli in cui nel contesto c‟è qualcosa che è massimamente rilevante, come i boati che rompono il silenzio, i lampi che squarciano il buio od oggetti particolarmente grandi e vistosi, talché gli atti dimostrativi non hanno più alcuna funzione da svolgere. Se, anzi, l‟atto dimostrativo deve evidenziare uno stato di fatto, quando di ciò non vi sia necessità esso risulta infelice, poiché può anche confondere l‟interlocutore o indurlo a pensare che si voglia dire qualcosa di diverso da quello che a lui o ad altri sembri.

Un presidio contro tali insidie è costituito dalla distinzione proposta da Kaplan, considerata da molti a tutt‟oggi valida, tra dimostrativi e indicali puri: i dimostrativi necessiterebbero di una dimostrazione, o conferma esterna od “ostensiva”, mentre gli indicali puri avrebbero, per così dire, al loro interno le risorse per fissare il proprio riferimento: il dimostrativo “questo” indicherebbe soltanto la necessità di cercare un fatto rilevante in una certa regione del contesto percettivo, il che si ricava dalla dimostrazione, senza la quale, ovviamente non c‟è uso corretto del dimostrativo, laddove, invece, la regola linguistica associata all‟indicale puro “io” sarebbe da sola sufficiente a fissare correttamente il riferimento. Questa immagine però non cattura tutti gli usi delle classi di espressioni che vorrebbe descrivere. La prima ragione risulta già evidenziata: esistono casi in cui i dimostrativi funzionano anche senza dimostrazione; mentre la seconda è che in altri frangenti persino gli indicali puri sembrano aver bisogno di una dimostrazione.

In effetti, se ci si affidasse soltanto al carattere kaplaniano, ossia alla regola secondo cui il pronome di prima persona singolare si riferisce al parlante nel contesto, i riscontri sarebbero in complesso poco istruttivi. È ovvio che chi intende segnalare, a chi risponde al citofono, di essere arrivato, sapendosi atteso, soprattutto se è al primo molto

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familiare, o addirittura se è uno di casa, non commette errori nel dire: “Io/Sono io”. La risposta “Io”, in apparenza del tutto ridondante, non è quindi affatto sbagliata e infatti di norma funziona: al pronome “io” è associato un chiaro atto dimostrativo, il timbro della voce familiare, lo strumento principale per il riconoscimento del nostro interlocutore, come detto. Ma chi tenga alla purezza degli indicali potrebbe sostenere che in casi come questi si abbia solo l‟apparenza dell‟uso di un pronome laddove in realtà tutto il lavoro viene fatto dal timbro della voce, ma tale argomento è inefficace, poiché, supponendo, ad esempio, che il nostro interlocutore, invece di dire “Io”, dica: “marmellata”, probabilmente egli verrebbe comunque riconosciuto, ma non avrebbe veicolato solo il contenuto relativo al proprio arrivo o alla consapevolezza di essere atteso, anzi forse avrebbe ingenerato fraintendimenti, quindi non avrebbe veicolato lo stesso contenuto di quando dice “Io”: “Io” e “marmellata” non hanno lo stesso significato e i pronomi per- sonali non hanno come unica funzione quella di permettere il riconoscimento degli interlocutori. Pertanto l‟accompagnamento degli “puri” con una dimostrazione non è azione sempre superflua. Per converso, talvolta i dimostrativi possono fissare efficacemente il riferimento senza che vi sia atto dimostrativo, ma questo comunque non conduce a rigettare completamente la differenza tra dimostrativi e indicali puri. Casi di comunicazione felice, soddisfacenti non solo in ordine a un mero riferimento contestuale situazionale, ma anche più sottilmente simbolico, come: “Questa è un‟auto veloce”, mostrano anzi che, benché con ciò si indichi un‟auto in particolare, il ricevente probabilmente penserà ci si riferisca a un tipo di auto più che al singolo esemplare, con significativo passaggio da una lettura specifica a una non specifica del dimostrativo, cosicché il riferimento del dimostrativo non è tanto in un individuo, quanto in un tipo o in un ruolo.

Che la salienza percettiva di un fatto nel contesto – come acutamente sottolinea Perconti – è un elemento che svolge una funzione di guida nel fissare il riferimento dei dimostrativi e che la forza di tale effetto di attrazione è direttamente proporzionale alla rilevanza del fatto in questione. Solo in caso di fatti sommamente salienti il riferimento è automatico, mentre più comunemente l‟effetto di attrazione del fatto saliente concorre con gli altri effetti a fissare il riferimento: quale effetto di attrazione abbia la meglio dipende largamente da quanto è forte ciascun effetto: nel riferimento dimostrativo tutto dipende dal grado di forza di ciascun elemento che guida all‟individuazione di un bersaglio piuttosto di un altro, il che fa preferire un approccio gradualistico alla valutazione degli elementi che concorrono a fissare il riferimento rispetto ad un altro che consideri indispensabile un‟unica classe specifica. Filosoficamente, tale modo di affrontare la questione equivale ad una forma di esternismo: quello appena chiamato in causa, per il quale l‟aspetto dei contesti è indipendente dall‟uso dei dimostrativi, si basa sull‟idea che la forza attrattiva che esercitata dai fatti sui dimostrativi è direttamente proporzionale alla loro salienza percettiva. Se, però, cambia la nozione di contesto, e se in particolare si focalizza l‟attenzione non tanto sulla struttura di questo, quanto sulla

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percezione soggettiva che se ne ha, allora l‟eventuale conseguente forma di esternismo dimostrativo verrà pure modificata . In realtà i due approcci sono complementari, poiché se si sostiene che le regole con cui percepiamo i contesti sono indipendenti dal lin- guaggio, inclusi i dimostrativi, e che anzi la struttura del linguaggio è basata su quella della percezione, si suppone che i contesti siano entità date prima dell‟intervento dei dimostrativi: ancora una volta i dimostrativi non influenzano la percezione dei contesti, piuttosto sono da quelli influenzati. Una metafisica che consideri i contesti entità fisse e date prima del linguaggio e prima della stessa percezione è l‟esito della prima opzione, mentre nella seconda i contesti si dànno prima del linguaggio, non però prima della percezione, dunque l‟organizzazione dei dimostrativi, così come quella di altre espressioni indicali come “sopra”, “sotto”, “avanti”, “dietro”, rifletterebbe il modo in cui la nostra esperienza percettiva usa il corpo come metro per rappresentare gli oggetti intorno a sé: questo vale in modo speciale per la rappresentazione dello spazio, il che, considerando anche quei molti studi che sottolineano i varii modi in cui lo schema corporeo viene utilizzato nella rappresentazione dei più consueti campi di esperienza, appare del tutto naturale, stante peraltro il fatto che gli usi linguistici più comuni si rendono interpretabili per lo più sulla base di metafore corporee e biologiche.

È necessario chiedersi se nella fissazione del riferimento in un enunciato siano più importanti le proprietà descrittive oppure l‟indicazione di cercare un oggetto in una certa regione dello spazio, perché sia possibile stabilire quanto valga l‟influenza dei dimostrativi sulla percezione dei contesti.

Il normale funzionamento scevro da qualsiasi richiesta di riconoscimento o d‟identità sarebbe quanto, stando a Gareth Evans, renderebbe i pensieri dimostrativi immuni da errori di identificazione.

Forniamo un breve quadro complessivo delle intuizioni condivisibili dell‟internismo e dell‟esternismo dimostrativi.

Il primo elemento è la modalità del darsi del contesto percettivo di decorrenza: la questione principale è se ci siano candidati naturali a referenti del dimostrativo. Se i casi estremi sono quelli di fatti massimamente pertinenti nel contesto e dell‟assenza completa di questo tipo di fenomeni, nel mezzo ci sono i casi più ordinarii con fatti mediamente pertinenti.

Il modo in cui si presenta il contesto linguistico in cui il dimostrativo occorre è invece il secondo elemento. Possono esserci dati i quali, dando luogo ad ulteriori descrizioni o ad altri tipi di espressioni, consentono di disambiguare il riferimento del dimostrativo, così, come, ad esempio, accade nel caso dei dimostrativi complessi, poiché spesso il nominale è in grado di disambiguare il dimostrativo in modo soddisfacente, mentre, d‟altronde, il contesto linguistico decide anche se il dimostrativo richiede una interpretazione genuinamente dimostrativa oppure anaforica.

Il terzo elemento è l‟eventuale gesto ostensivo associato al dimostrativo, che può darsi secondo svariate modalità che vanno dalla prototipica indicazione con il braccio

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teso alle altrettanto efficaci fissazione dello sguardo e utilizzazione della voce (provenienza, timbro, intensità e direzione).

Le conoscenze a disposizione degli interlocutori, specie quelle condivise, costituiscono infine il quarto tipo di elementi che entrano in gioco nella fissazione del riferimento dei dimostrativi. Va da sé che mentre alcune di esse sono esplicitamente presenti nella situazione comunicativa, altre sono implicite e costituiscono l‟enciclopedia comune dei parlanti dell‟italiano, altre infine sono le credenze condivise solo dagli interlocutori di un dato dialogo. La possibilità che l‟enunciato dimostrativo venga frainteso è remota unicamente se ci sono informazioni pertinenti di tutti e quattro i tipi.

Per riassumere, come detto, per fissare il riferimento di un dimostrativo si rendono necessarii quattro tipi di informazioni che possono presentarsi con un peso variabile, alcune delle quali vengono trattate nel modo previsto dall‟esternismo dimostrativo, mentre altre lo sono secondo le aspettative dell‟internismo. Secondo tale prospettiva, se si intende individuare la regola che seguiamo nella fissazione del riferimento dei dimostrativi occorrerà quindi distribuire i pesi delle varie componenti in modo tale il parlante medio possa, in condizioni normali, governare che la competenza di questa classe di espressioni, dal che risulta chiaro per quali ragioni la possibilità teorica del fraintendimento costante non si realizzi nella pratica linguistica ordinaria.

La regola che seguiamo nella fissazione del riferimento dei dimostrativi potrebbe avere la forma seguente: nel fissare il riferimento di un dimostrativo si deve scrutare con tanto maggiore attenzione il contesto percettivo quanto minori sono gli elementi descrittivi e dimostrativi presenti nell‟atto enunciativo; inoltre l‟attenzione dovrà aumentare quanto meno si vedano emergere fatti pertinenti; lo stesso accadrà nella misura di quanto poco efficaci si rivelino essere le credenze pertinenti condivise da tutti gli interlocutori o possedute da un solo interlocutore.

Catturare il funzionamento della competenza referenziale sui dimostrativi – giova notarlo – è precisamente tutto e solo quanto la formulazione di questa regola intende fare, dato che nella maggior parte dei casi tutto ciò che sappiamo su queste parole è qual è la loro applicazione. Quella formulazione tiene conto inoltre del rapporto di mutua influenza tra dimostrativi e contesto e pertanto, in ciò, concilia le intuizioni fondamentali sia dell‟approccio internista sia di quello esternista, poiché, a ben vedere, chi è competente nell‟uso dei dimostrativi sembra avere capacità che l‟internismo e l‟esternismo da soli non riescono a catturare. Gli individui danno continuamente prova di possedere un tipo specifico di competenza linguistica notevolmente complesso, come quello dimostrativo, che presuppone il saper valutare il peso da assegnare ai varii elementi nella pianificazione di un enunciato contenente dimostrativi e il saper indovinare il peso che il parlante ha assegnato ai varii elementi nella sua intenzione comunicativa, capacità che entrano in gioco nella valutazione degli enunciati in cui compaiono dimostrativi, il che, nel suo insieme fa pensare inoltre che quella dell‟uso dei

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dimostrativi sia un tipo di capacità che si articola tra molti livelli tra loro variamente intrecciati. È notorio che oggi l‟opzione teorica più discussa è una tesi intermedia tra le due proposte da Kaplan. Nel 1989 l‟autore sostenne che ciò che determina il riferimento non sarebbe tanto il gesto ostensivo, quanto l‟intenzione direttiva del parlante, dunque ci si deve domandare: “Qual è il ruolo delle intenzioni comunicative nel riferimento dei dimostrativi?”. Se non che, si pongono evidenti problemi teorici circa l‟individuabilità dell‟intenzione, se questa va intesa come stato interno che in quanto tale esula da presupposizioni meramente esternalistiche, quali quelle, ad esempio, circa il “gioco linguistico” in corso, poiché tipicamente la prima non è osservabile e, quel che è peggio, non è neppure legata in modo regolare al comportamento, che invece è osservabile, se poi – come accade –, due intenzioni diverse possono dar luogo alla stessa condotta. La questione, infatti, è come le intenzioni determinino un certo comportamento linguistico invece di un altro.

Si comprende dunque come lo scetticismo sulla capacità esplicativa della nozione di “intenzione” possa dissuadere Perconti dall‟utilizzare tale concetto nella descrizione della competenza dimostrativa. Tale atteggiamento non è però equivalente alla tesi di Kaplan (1977). Anzi, in un certo senso tutta la spiegazione qui fornita è basata sulle intenzioni: talmente lo è, che consiste tutta quanta in una analisi microscopica degli elementi dell‟intenzione. D‟altra parte, è ben vero che essendovi una competenza di- mostrativa attiva e una passiva, la regola della competenza dimostrativa prima elaborata può essere presentata in modo che finalmente le intenzioni vengano alla luce, poiché si tratta semplicemente di portare far vedere che il lavoro di quella regola consista proprio nel dare istruzioni su come “mettersi nei panni degli altri” (nel caso degli enunciati dimostrativi): siamo infatti competenti nella pianificazione di enunciato di questo tipo solo se siamo in grado di assegnare il “giusto” peso ai quattro elementi (in un‟accezioe di quell‟aggettivo che sarà chiara tra poche righe); ma poi, dal lato passivo siamo utenti competenti se sappiamo indovinare la strategia del nostro interlocutore, ovvero se siamo capaci di cogliere il peso che i quattro elementi hanno giocato nelle intenzioni comunicative del nostro interlocutore.

Tali operazioni non sono altro che modi di declinare la lettura della mente intesa come capacità di “mettersi nei panni degli altri”. In effetti, anche nella pianificazione di un enunciato è necessario misurare le conoscenze che si hanno del contesto, le credenze enciclopediche e locali condivise con l‟interlocutore, così da indovinare di quali elementi egli può aver bisogno per comprendere quanto s‟intende comunicargli.

In tal modo risulta certamente agevole leggere gli esempi esaminati nel corso del presente capitolo come casi in cui ciò che contava era la capacità di mettersi nei panni dell‟interlocutore, cosicché lo scetticismo sugli enunciati dimostrativi dovrebbe ora apparire come un modo di sospendere in generale il giudizio circa la lettura della mente. Evidentemente, allora, se saper usare i dimostrativi è un caso di lettura della mente, i casi di fraintendimento degli enunciati dimostrativi saranno contemporaneamente casi

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di infelice attribuzione di stati mentali: eppure è precisamente l‟azzardo dell‟atto immaginativo circa quanto possa essere nella mente dell‟interlocutore ciò che da un lato, consentendo la comprensione, rende contemporaneamente possibile il fraintendimento degli enunciati che contengono dimostrativi. Nondimeno, si rammenti: l‟argomento che ha condotto ad escludere la possibilità un fraintendimento costante nella lettura della mente è lo stesso che porta a considerare occasionale la possibilità del fraintendimento dei dimostrativi, poiché tale fraintendimento va di pari passo con l‟errata attribuzione degli stati intenzionali agli altri individui. In ogni caso, la tesi che stiamo cercando di dimostrare può avere dalla propria la qualità delle operazioni che regolano la scelta del dimostrativo giusto quando vogliamo indicare un certo oggetto nello spazio percettivo. Un esempio di sottile sistema di valutazione, interamente demandato alla finezza e all‟abilità dell‟interlocutore, è certamente rappresentato dalla segmentazione tripartita della variazione toscana dell‟italiano in “questo”, “codesto” e “quello”, laddove la competenza di un sistema dei dimostrativi di questo tipo non presuppone soltanto la capacità di trattare tre distinte regioni dello spazio, ma anche l‟abilità di assumere il punto di vista dell‟interlocutore, poiché la percezione dell‟estensione della regione dello spazio vicina a chi ascolta, infatti, non dipende né da criterii oggettivi (non ci sono linee di gesso tracciate sul suolo) né dalle valutazioni del parlante. Pertanto si ha motivo di credere che le stesse ragioni che spingono a riformulare la tesi della simulazione utilizzando il modello del “mettersi nei panni di” militino anche a favore della possibilità che lo stesso modello regoli la competenza dimostrativa.

Dopo avere sottolineato la rilevanza cognitiva e relazionale dei deittici possiamo passare alla articolazione della competenza indicale e dimostrativa enucleando quei deittici che ci sono parsi più efficaci ai fini della rilevazione del quoziente di relazionalità.

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