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Capitolo 4 Ignazio di Loyola e gli Esercizi spirituali

3 La Spagna

4.1 Una nobile casata

Storicamente la fiorente famiglia di Ignazio apparteneva, sia da parte di padre che di madre, alla piccola nobiltà basca. Lui era l’ultimo dei tredici figli177 di Beltran Yanez

de Loyola e donna Marina Saenz de Licona.

Il lignaggio dei Loyola – erano uno dei 24 Parientes mayores, cioè dei signori feudali, di Guipuzcoa – vantava una genealogia tanto nobile quanto antica178. Suo padre militò – come cavaliere e soldato – per alcuni anni al servizio del re don Enrico IV, a quello del re di Navarra e Aragona don Giovanni II, padre del Cattolico, e a quello dei Re Cattolici distinguendosi per il proprio valore179. La madre era figlia del dottor Martin Garcia de Licona – anch’egli facente parte dei Parientes mayorem di Guipuzcoa – così prossimo alla corte di Castiglia, da essere auditore della Cancelleria di Valladolid e consigliere dei re Cattolici.

La vicinanza della famiglia Loyola alla corte dei Re Cattolici aumentò ancora con Magdalena de Araoz180 – moglie di Martín García de Onaz, secondo fratello di Ignazio – che fu dama molto amata dalla regina donna Isabella; tanto amata da ricevere in occasione del proprio matrimonio numerosi doni da parte della regina. La tradizione vuole che tra di essi vi fossero la Vita Christi del Certosino – El Cartujan – e il Flos sanctorum che tanto influirono nella conversione di Ignazio durante la convalescenza a Loyola.

Nella casa paterna Ignazio ricevette un’educazione simile a quella impartita usualmente in molte altre case della nobiltà e della borghesia spagnola, perfettamente

177 Tutti i fratelli di Ignazio si lanciarono, ansiosi di gloria e di onore, in imprese eroiche e leggendarie, ognuno riflettendo uno dei molti ideali che caratterizzavano la Spagna del XVI secolo: la crociata nazionale, la guerra contro la Mazza Luna ed i protestanti, l’esplorazione e della conquista dell’America, i Tercios delle Fiandre e dell’Italia e l’ideale religioso.

178 Villoslada fornisce moltissimi interessanti particolari sulla genealogia dei Loyola, effettivamente utili per comprendere il profumo di eroica cavalleria respirato nella casa di Ignazio.

179 I Loyola erano per tradizione orientati e fedeli alla Castiglia; non si limitarono infatti a mandare i loro figli a perfezionarsi alla corte del re o dei magnati castigliani, ma parteciparono all’impresa nazionale della riconquista. I Re di Castiglia in generale, ed i Re Cattolici in particolare, ripagarono il loro debito di riconoscenza diventando la loro principale fonte di ricchezza e potere.

confacente alla loro condizione di hidalgo e nobili proprietari terrieri quali erano: una solidissima educazione religiosa che si traduceva in una fede salda fino all’immolazione181.

La prossimità alla corte si fece per Ignazio ancora più stretta quando all’età di 15 anni, giunto il momento di ricevere una più puntuale educazione cortigiana, don Juan Velazquez de Cuellar, contador mayor dei re, cioè tesoriere del re, amico e parente lontano dei Loyola, si offrì affettuosamente di provvedervi. Nella sua casa rimase per undici anni, accompagnando sia Velazquez che la di lui moglie Maria de Velasco nelle loro frequenti visite a corte; da loro imparò ad osservare il cerimoniale castigliano – diventando così l’immagine del perfetto cavaliere – ed una più seria educazione religiosa rispetto a quella paterna. Quella di don Juan ad Arevalo era una dimora ricca, lussuosa, elegante, animata da un solido senso religioso, lealmente devota ai Re Cattolici e alla loro riforma morale. Prova ne sono l’impegno ed il patrimonio che Velazquez investì nella costruzione di chiese e monasteri ed il fatto che, alla morte della regina Isabella, la coppia comprò, tra le altre cose, molti dei libri devozionali che le erano appartenuti.

Ignazio si trovò sempre a vivere in case imbevute non solo d’ideali cavallereschi, ma anche spirituali, circondato da testi182 – come il De imitatione Christi – cui è improbabile si sia avvicinato durante la giovinezza, ma che più tardi lesse e considerò più che fondamentali.

Quelli ad Arevalo furono anni pieni di vita e divertimento: abile nel suonare la viola, agile nelle danze, faceva sfoggio del proprio valore nei tornei cavallereschi e nei

181 Una fede che non di rado conviveva accanto, anche nel giovane Ignazio, a comportamenti spesso francamente scandalosi.

182 Orden de rezar el Salterio; tre libri delle Ore, il Tesoro espiritual, lo Specchio della croce e Frutti dell’albero della croce, del domenicano italiano Domenico Cavalca; libretti sulla vita di Cristo e dei santi; Reformacion de las fuerzas del animo di Gerardo Zerbolt de Zutphen, testo che Garcia de Cisteros utilizzò nel suo Exercitatorio de la vida espiritual; scritti tradotti di San Crisostomo, Girolamo, Agostino, Bernardo, Bonaventura. Cfr. Ricardo Garcia Villoslada, Sant’Ignazio di Loyola, Edizioni paoline, Milano, 1990, p. 98.

giochi; costantemente avvinto da un’ardente aspirazione a primeggiare su tutti i suoi pari e ad essere considerato valoroso. Fu in questo periodo che la lettura de El Amagis de

Gaula – che Velazquez comprò appena fresco di stampa – lo avvampò conquistandone

l’immaginazione.

Quando dopo la morte del re cattolico Ferdinando, la fortuna di Velasquez declinò miseramente, donna Maria de Velasco, che aveva trovato favore al palazzo di Tordesillas, aiutò Ignazio a continuare la propria carriera cavalleresca instradandolo verso il duca di Najera, uomo scelto da Cisneros per la sua prudenza, saggezza, fedeltà e serietà morale. Antonio Manrique de Lara, viceré di Navarra, e, appunto, duca di Najera, ricevette Ignazio con giovialità ed affetto.

Il fatto che il duca fosse il centro attivo della vita politica del vicereame, comportò un cambiamento anche nella vita e nelle abitudini di Ignazio che smise i panni del frivolo cortigiano per indossare quelli della milizia cristiana. Nei tre anni che passò nell’austera casa del viceré – davvero diversa e lontana dalla raffinatezza di Arevalo – la personalità di Ignazio iniziò a profilarsi più nitidamente ed a farsi più chiare alcune delle qualità che lo avrebbero poi sempre contraddistinto.

Il duca, dolorosamente impegnato nelle insurrezioni dei comuneros, dovette affidarsi all’arte diplomatica di Ignazio, poi divenuta proverbiale, per sedare gli scontri che scoppiarono, tra l’altro, anche nei suoi stessi domini tra le due fazioni in cui si era divisa la provincia di Guipuzcoa – cittadine realiste contro refrattari. Al contempo a Pamplona il duca doveva fare fronte ad un orizzonte politico ogni giorno sempre più tumultuoso a causa delle mire che il re di Francia Francesco I aveva sulla città, ma anche a causa della storica infedeltà della Navarra spagnola, sempre in bilico tra Francia e Spagna. Le reali capacità cavalleresche di Ignazio si resero evidenti quando le truppe francesi sconfinarono ed assediarono la capitale. Ne Il filo d’oro Louis de Wohl offre una

splendida e suggestiva ricostruzione dell’impresa eroica che, richiamato dalla provincia, Ignazio, fermamente deciso a difendere la città, condusse asserragliandosi nella fortezza. Lì, sulla sua cima, un colpo di cannone lo colpì frantumandogli una gamba e ferendogli l’altra. Gli stessi francesi lo riportarono in fin di vita a Loyola, così grave da essere dato per spacciato. Ma Ignazio non morì. Anzi. Il santo “nacque da un’esplosione a Pamplona”.

Come accennato sopra, Ignazio trascorse la convalescenza in compagnia dei libri devozionali che la regina aveva regalato a Magdalena: una Vita Christi – quasi certamente quella di Ludolfo di Sassonia tradotta in castigliano dal francescano Ambrosio Montesino – ed il Flos sanctorum, florilegio di vite dei santi, più conosciuto con il titolo popolare di

Leggenda aurea, composto in latino dal domenicano italiano fra Giacomo da Varazze.

Ne esistevano varie traduzioni in spagnolo, ma con ogni probabilità Ignazio fruì di quella stampata nel 1511 a Toledo, ampliata dai Prologos del cistercense aragonese fra Gauberto F. de Vaga, come tenta di dimostrare lo studio condotto da Leturia sui luoghi paralleli tra i Prologos e gli Esercizi spirituali di Ignazio. Per Gauberto, come poi fu per Ignazio, la santità era un’impresa eroica, condotta dai cavalieri di Cristo che ne tengono alto il vessillo: sequela ed imitatio Christi, Re dei re. Se tradotte nel linguaggio della cavalleria, le più dure penitenze degli anacoreti, di sant’Onofrio, Francesco, Domenico di Guzman, poterono apparire agli occhi del giovane e focoso Ignazio come imprese ammirevoli. Questi cavalieri amavano servendo, per loro l’amore era servizio, mai pretesa. Il loro campo di battaglia era l’anima. Ignazio scoprì per questa via una cavalleria diversa e più elevata “che combatteva contro tutti i vizi e le ingiustizie, contro le proprie passioni e i cattivi istinti, mortificandosi e sacrificandosi al servizio del Re divino che incoraggiava al combattimento e assicurava loro la vittoria’183. L’elevazione, il primeggiare ed il

distinguersi pur rimanendo sempre impressi in Ignazio, cambiarono di segno: egli imparò a primeggiare nella forma più perfetta d’amore, cioè l’arte del servizio.

Queste letture misero in movimento la fantasia di Ignazio, il suo modo di pensare e di sentire. I suoi pensieri, prima continuamente rivolti all’esterno, alle imprese ed ai corteggiamenti – Ignazio era un vero scapestrato, buono, ma incline alle risse – iniziarono a ripiegarsi verso l’interno; iniziò ad esaminare l’effetto che queste letture producevano nel suo animo e l’alternanza dei suoi pensieri. Le nuove letture gli ispiravano imprese esaltanti, mentre le antiche fantasticherie lo lasciavano ormai privo di entusiasmo. Perché? “Ora che aveva formulato la domanda, bisognava trovare la risposta”184. Fu qui che iniziò a mettere a punto il metodo degli Esercizi: riflettere, esaminare, chiedere conto dell’anima. La sua anima era un castello assediato e conteso. Avrebbe dovuto combattere in sua difesa.

Ma chi era lui, Iñigo, per mettersi in testa simili idee?

Con quale diritto, con che credenziali poteva pensare di unirsi all’esercito dei santi? Nessuno. Nessun diritto o credenziale. Chi aveva mai sentito parlare di un santo che avesse passato la vita nelle battute di caccia, nei duelli o a corteggiare le donne? Era assurdo.

O forse no?

Ancora una volta affondò la lama del ragionamento nel groviglio confuso dei suoi pensieri. Qual era la situazione reale su quel nuovo campo di battaglia?

Sorrise torvo. Il fatto stesso di pensarsi in quei termini significava che la battaglia era già ingaggiata.

I suoi informatori riferivano che le schiere nemiche avevano quasi invaso il campo. L’Avversario preparava l’attacco, forte della resistenza fiacca incontrata fino a quel momento. Ma proprio la forza soverchiante dell’invasore rendeva necessaria la battaglia. Il generale sant’Agostino e persino il generale san Francesco si erano trovati nella stessa situazione, quando per la prima volta avevano dichiarato guerra al nemico.

Appunto questo era il significato di quel genere di scontro: di più, era la battaglia stessa. Inducendolo a dubitare delle sue credenziali e capacità, l’Avversario gli suggeriva… La resa.

Un colpo a tradimento, perché faceva leva sulla virtù della modestia. «Non sei degno di una missione simile. Rinuncia». […]

La battaglia è già cominciata, pensò di nuovo con una soddisfazione e una commozione mai sperimentate in vita sua.

Anzi era in corso da sempre, tranne che lui finora era stato un pessimo generale. Aveva trascurato esercito e arsenale, e invece di stringere i ranghi aveva permesso al nemico di infilarsi oltre le linee.

Ora però, ed era ora, se n’era reso conto – o quantomeno aveva iniziato ad accorgersene. Urgeva un’ispezione meticolosa sia dei suoi uomini sia degli equipaggiamenti; serviranno cambiamenti, nuove munizioni, un addestramento metodico. E in quel nuovo tipo di guerra, ogni misura intrapresa era già una battaglia di per sé.

[…] ormai aveva capito che la passione dei santi per la penitenza equivaleva a una sorta di necessità militare.

Non c’era virtù ad abbracciare un lebbroso, se tu per primo non ti eri liberato dalla lebbra che portavi dentro.

Cominciò a scandagliare i propri pensieri, analizzandoli per individuarne le vere origini. C’era un modo per risalire alla fonte, capire se provenisse da Dio o da Satana? Sì.

Quando Magdalena de Araoz tornò da lui, Iñigo chiese carta e inchiostro. Aveva individuato la formula, e non voleva rischiare che gli sfuggisse di mente. Scrisse: «A quelli che procedono di bene in meglio, l’angelo buono tocca l’anima in modo dolce, lieve e soave, come goccia d’acqua che entri in una spugna; e il cattivo gliela tocca invece pungentemente e con rumore e disturbo, come quando la goccia d’acqua cade sulla pietra».

L’analogia gli sembrò calzante e continuò a prendere appunti. […]

L’impresa avrebbe richiesto molte semplici strategie come quella, perché lui non era soltanto il generale: era tutto l’esercito, fino al più umile dei fanti.

E la missione era gigantesca, un compito ben più enorme della cittadella di Pamplona o di Fuentarrabia. Era una guerra su vasta scala, e lui avrebbe dovuto combatterla da solo185.

Per non dimenticare quello che andava imparando, estrasse alcuni passi più essenziali da entrambi i libri in un quaderno, ai quali unì le proprie osservazioni e riflessioni, divenendo così scrittore. Questo fu l’inizio degli Esercizi. Un inizio non poi così dissimile dal fare nicciano.

De Wohl fa ben capire la natura e lo scopo degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: sono la storia di un’esperienza, l’esperienza di sé, l’esperienza che Ignazio ha fatto di sé osservandosi, ma che ognuno può fare, ponendosi continue e progressive domande di senso; una storia che ha risposto concretamente alla domanda più importante per la vita di ogni uomo: “Chi sono io?”. In questo senso ha ragione Roland Barthes quando definisce gli Esercizi spirituali “il libro della domanda”. Si coagula qui l’essenza stessa di quello che nel primo capito era stato definito come il sotteso della filosofia della storia come presente, che concepisce l’uomo come passaggio, seguendone “mutamenti

tendenziali, forze propulsive e forze antagonistiche, e fenomeni di tali forze: fenomeni, infine, di compiutezza e di individuazione, di civilizzazione e di raffinamento e, insieme, di scissione, di impoverimento e di uniformazione”186. Negli Esercizi Ignazio tracciò il

metodo, la linea della propria filosofia della storia, tanto personale quanto universale: osservò i propri mutamenti alla luce di una nuova prospettiva di senso. Gli Esercizi percorrono la storia dell’uomo nel proprio indagarsi e scoprirsi, farsi e dispiegarsi.

Usando il titolo dell’autobiografia di Santa Teresa di Lisieux, si potrebbe dire che gli Esercizi sono, in primis, la Storia di un’anima, quella di Ignazio. In questo senso, ed in un certo qual modo, essi non sono poi così diversi dall’Ecce homo. Come si diventa

ciò che si è nicciano. Anche l’Ecce homo è la storia di un’anima che si è destinata e che

si destina, ma è un racconto a ritroso che riferisce di un divenuto, mentre gli Esercizi di Ignazio sono un divenendo. E ciò, sia se si segue la storia della composizione del libro – dunque propriamente la storia di un’anima, delle tappe del suo progresso – sia se lo si usa come ciò che, infine, storicamente divenne, cioè un prontuario per la direzione spirituale delle anime. Anche lo scritto nicciano, inoltre, si pone, e risponde, la domanda esistenziale: “Chi siamo noi in realtà”187. Domanda campale per lo stesso Nietzsche, tanto più in questa fase della sua vita, con la quale, appena poco più di un anno prima, aveva aperto la Prefazione alla Genealogia della morale. Con Ignazio poi condivide anche l’urgenza dell’annuncio della verità e della scelta. A sua volta lo stesso Ecce homo può essere considerato un esercizio spirituale.

186 Mario Lorenzo Calabi, https://karllowith.jimdo.com/löwithiana/1-interviste-italiane/lorenzo-calabi/, op. cit.