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Capitolo 3 Esercitarsi a tradire Il passaggio della filosofia come modo d

4 L’esegesi cristiana

4.1 Origene e l’esegesi

All’interno di questo quadro l’esegesi origeniana si presenta come una vera scienza che trova il proprio exemplum nella tripartizione delle scienze platoniche applicata agli scritti salomonici.161 Origene con la sua interpretazione allegorica del

Cantico dei Cantici – poema dell’unione tra l’anima e il Logos – e con la sua ri-

collocazione dell’esame di coscienza greco-antico all’interno della prospettiva religiosa cristiana, fornì uno degli schemi esemplari su cui vennero a costruirsi i successivi modelli cristiani di esame di coscienza162.

Egli è il primo filosofo cristiano a fare dell’incontro con il testo il paradigma dell’educazione, paideia, spirituale; esso si configura non semplicemente come un incontro con un testo, bensì l’incontro con una persona: a colui che legge si fa innanzi

161 “Così l’anima, dopo essersi purificata nei costumi ed essere progredita nel discernimento delle realtà naturali, diventa capace di accedere alle realtà contemplative e mistiche e si eleva alla contemplazione della divinità con un amore puro e spirituale”. Questo passo è all’origine delle cosiddette tre vie – purgativa, illuminativa, unitiva – cui corrispondono i tre stadi del cammino di ascesa con i loro rispettivi esercitanti – incipienti, progredienti e perfetti. Di tale distinzione, per quanto capitale per nella storia della spiritualità, però non parleremo in questo lavoro, se non marginalmente.

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Essa è, inoltre, un eccezionale esempio di come un discorso filosofico possa essere un esercizio spirituale.

nel testo prima colui che lo ha ispirato, dopo colui che lo ha scritto. Le loro relazioni

storico-esistenziali – nel loro rapporto diretto con la storia – promanano direttamente dal linguaggio che essi utilizzano. Per cui la comprensione appropriata di questi linguaggi – nella loro forma di discorsi, anche filosofica – diventa l’esercizio grazie a cui i sensi dell’intelletto conoscono Dio esperienzialmente – attraverso la concretezza storica dell’esperienza personale – vengono cioè risvegliati e resi capaci di accogliere e raggiungere l’esperienza trascendente della presenza di Dio – la sobria ebrietas.

Origine credeva che Dio avesse creato l’uomo a propria immagine e che si fosse rivelato attualmente, cioè che si fosse fatto conoscere storicamente, nella creazione, nella storia di salvezza del popolo d’Israele ed in ultimo nel suo Figlio unigenito; tutto ciò era stato racchiuso e conservato dalle Scritture che Egli stesso aveva ispirato. Le Scritture sono dunque il luogo in cui l’uomo può non solo imparare a conoscere Dio, ma – poiché ne è l’immagine creata – anche se stesso. La storia della creazione, d’Israele e financo la vita di Gesù sono la ricapitolazione della vita stessa dell’uomo, la storia della propria anima, dei suoi progressi, dei suoi fenomeni di “raffinamento e, insieme, di scissione, di impoverimento e di uniformazione”163. Vi è una stretta correlazione tra il leggere le

Scritture ed il leggere sé: se la Verità – che è Dio – si rivela nelle Scritture, allora in esse

si rivela anche ogni verità; ciò significa che ad ogni uomo si rivela la verità su se stesso e si rivela ogni giorno nello svolgersi del tempo e, con esso, della storia. Esse rispondono alla domanda “Chi sono io?” nel dispiegarsi storico dell’io. Ed ecco come ritorna la filosofia del presente come storia.

Pertanto, colui il quale si ripropone quale proprio compito quello di conoscere se stesso – cioè di concepirsi – deve – almeno nella visione origeniana, ma anche più

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Mario Lorenzo Calabi, https://karllowith.jimdo.com/löwithiana/1-interviste-italiane/lorenzo-calabi/, op. cit.

generalmente cristiana – innanzitutto preoccuparsi di riconcepire la propria origine, cioè Dio. Ma riconcepire tale origine è possibile solo a colui il quale accetta ed impara a ripercorrere nella verità, attraverso la guida delle Scritture, la storia della propria anima seguendone “mutamenti tendenziali, forze propulsive e forze antagonistiche, e fenomeni di tali forze: fenomeni, infine, di compiutezza e di individuazione, di civilizzazione e di raffinamento e, insieme, di scissione, di impoverimento e di uniformazione”164. In breve, attraverso un attento esame di coscienza, il quale, al fondo, risponde anche alla domanda nietzschiana: “Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?”165. Solo

un severo esame di coscienza conduce ad una vita veramente e-gregia cioè fuori dal gregge. Così per Origene, così per Nietzsche.

L’esame di coscienza origeniano è un tribunale che chiede conto di ogni aspetto della vita umana usando la lente dell’osservazione, cioè della riflessione, e quella della

comprensione: l’esercitante deve osservare attentamente sia i sentimenti che prova che

gli atti che compie; sapere se in, e con, esse si dispone e propone il bene, se cerca la virtù e ne ha attualmente intrapreso il sentiero, financo se si rende utile agli altri con l’insegnamento o con l’esempio. D’altro canto egli deve anche capire la reale causazione dei suoi sentimenti e dei sentimenti all’origine delle sue azioni; chiedersi come agire, da cosa preservarsi, quali doti realmente possiede, cosa correggere e mantenere; diventare consapevole del proprio grado di disposizione alla collera, alla tristezza, alla paura e alla gioia – così come del motivo per cui agisce: se per un sentimento di uguaglianza tra gli uomini, per ricevere in futuro il contraccambio, per essere egoisticamente amato, per avere stima sociale o per puro autocompiacimento. E ciò per comprendere, infine, la causa della propria arrendevolezza al male, se per desiderio o debolezza.

164 Ibidem.

Grazie all’esercizio esegetico, Origene desunse dal Cantico un secondo, più difficile e filosofico, percorso per raggiungere la conoscenza di sé, il cui punto nevralgico è conoscere la natura della propria essenza: un percorso in cui l’anima deve domandarsi se è corporea; se è semplice o composta e di quali elementi; se quest’essenza emana dal corpo o dall’esterno; quando è stata creata; qual è la sua funzione; quanti corpi abiterà; di che sostanza è fatta; se l’anima può acquisire la virtù e perderla. In questo senso per Origine è di fondamentale importanza sottolineare come ogni componente dell’uomo rechi in sé, secondo gradi differenti, l’immagine divina.

L’antropologia origeniana si pone a metà tra il platonismo ed il paolinismo di 1

Tes 5,23, o forse sarebbe più corretto dire, li fonde: senza dilungarsi troppo, sarà

sufficiente sottolineare come la stessa materia venga ri-concepita rispetto al platonismo: lontana dall’essere malvagia, essa è un dono, un bene, anche se limitato a causa della sua mortalità. Così nella tripartizione ontologica origeniana il soma, il corpo, non è considerato un luogo d’esilio e punizione che imprigiona, bensì un vantaggio concesso da Dio alla persona per sfidare lo spirito di ciascuno a superare se stesso. Ciò rende massimamente evidente come la ricerca di Dio si configuri attraverso numerosi, molteplici, successivi riconoscimenti della verità, che coinvolgono continuamente tutti gli strati ontologici dell’essere. Per questa ragione l’ascesa – che è quella parte de la storia

di salvezza che Dio attua con ogni uomo, in cui il singolo, con le proprie capacità, ha la

possibilità di operare coscientemente una trasformazione di sé e della storia – passa significativamente anche attraverso il soma166e diventa attualmente personale.

166 Il fatto che questa salvezza implichi anche la materia e che Origene presenti l’ascesa come una conoscenza sperimentale della realtà divina, non deve però far pensare che tale conoscenza sperimentale sia di ordine materiale; essa è piuttosto di natura esclusivamente spirituale, come ben mostra la sua dottrina sui sensi spirituali – ben diversi da quelli carnali, mortali e corruttibili – caposaldo della mistica posteriore e cardine di quella ignaziana. Origene concepì l’itinerario dell’anima in termini cognitivi: la conoscenza come visione, che è contatto diretto, partecipazione nell’oggetto, unione con l’oggetto, e amore – ed in quanto contatto ha anche una componente tattile – implica una relazione personale con Dio, un incontro reale con la presenza divina, ma trascendente, che dei sensi carnali conserva solo gli effetti, ma non la causa, che è sempre una manifestazione del Logos.

Da quanto detto sinora dovrebbe risultare chiaro come al fondo della risposta cristiana alla domanda esistenziale vi sia il concetto di destinazione, come mette ben in luce la nota della Bibbia di Gerusalemme al versetto 12 del capitolo 7 di Qoelet in riferimento a “lo spirito torni a Dio”: “Ciò che nell’uomo è della terra ritorna alla terra. Ma poiché niente quaggiù può soddisfarlo, non tutto in lui viene dalla terra, e ciò che è di Dio ritorna a Dio”. Ivi la destinazione coincide perfettamente con l’origine, cioè essere

immagine di Dio; ed è nello spirito che risiede questa somiglianza che è ad un tempo uno

spirito attraverso cui Dio crea e destina – in un certo qual modo, seguendo Isaia 42, 6, si potrebbe dire che creando destina: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni”, dove il temine formato, usato nell’accezione di plasmato, è uguale a quello usato in

Genesi 2,7 per descrivere come Jahvè modella o plasma il corpo del primo uomo. Dio

plasma l’uomo a sua immagine, lo plasma con e nello spirito, e lo destina a conservare e particolarizzare tale immagine: ogni giorno l’esame di sé condotto alla luce delle Scritture chiede alla persona di collocarsi all’interno della storia di salvezza d’Israele. Riconosciamo in questa domanda sul “Dove?” l’antico esercizio di attenzione, concentrazione su se stessi e sul presente e, poiché la destinazione è il ritorno a Dio – ogni forma di ritorno a Dio – anche l’esercizio sulla morte.

Ritroviamo queste stesse riflessioni, anche se declinate in modi diversi, a fondamento degli esercizi spirituali di tutta la tradizione mistica e filosofica cristiana, dalle origini sino alla contemporaneità.

Marco Vannini sottolinea in quale misura sia

impossibile sopravvalutare l’influsso di Origene nella storia della spiritualità cristiana. Gerolamo, il quale pure gli fu ostile, scrive giustamente che, dopo gli apostoli, Origene è il più grande maestro della Chiesa primitiva. Oltre alla Chiesa primitiva, anzi, attraverso Gregorio di Nissa, Ambrogio, Agostino, Massimo il Confessore, Giovanni Scoto, le sue dottrine arrivano fino a Bernardo, Bonaventura, Eckhart, Teresa d’Avila e oltre. Lo stesso monachesimo, in Oriente come in

Occidente, nasce sotto il suo influsso […]. Da Origene dipendono infatti gran parte dell’esperienza e della spiritualità dei Padri del deserto; attraverso gli scritti del monaco Evagrio Pontico167 le sue idee passarono non solo nell’ascetismo della Chiesa greca, ma anche nella Chiesa latina, attraverso Giovanni Cassiano, personalità chiave per l’origine del monachesimo in Occidente168.