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Connotazioni della relazione educativa

è intrinsecamente educativa

1.4 Connotazioni della relazione educativa

Il lemma “relazione educativa” rimanda ad un concetto sostanzialmente orientativo, in quanto non è possibile delinearne una definizione accurata né tanto meno compiuta, date le innumerevoli inscindibili variabili che concorrono nel determinarla e varie modalità con cui può esprimersi, precedendo anche l’incontro effettivo. Evidenziare la generalità del seppur complesso, dinamico, multiforme concetto di “relazione educativa” non significa però rinunciare ad individuarne le specificazioni, sia esse qualitative che quantitative. Scrive infatti Tramma (2003, pag. 90) che “essere in relazione, entrare in relazione, agganciare l’altro, stimolarlo a condividere la progettualità relazionale sono tutti «imperativi categorici» del lavoro educativo che devono essere declinati in funzione degli utenti, degli obiettivi, degli strumenti, per dar luogo a una specifica e riconoscibile didattica relazionale”.

A questo proposito Michele Corsi, di cui riportiamo alcune riflessioni ricavate da una sua relazione seminariale (Corsi, 2012), afferma che in pedagogia – e in particolare nell’epistemologia pedagogica – la relazione educativa “si configura essenzialmente come una struttura tridimensionale di incontro tra tre variabili fondanti, fondamentali, ineludibili, ineliminabili”. Egli la definisce come “l’incontro, il rapporto, l’interazione almeno tra (a) una persona che esercita l’atto di educare – e cioè l’educatore – la quale si commisura con l’esercizio di questa pratica attraverso (b) l’educando (c) in un contesto, in un ambiente, in un sistema di contesti…”. Secondo Corsi (ibidem) “il primo morfologico della relazione educativa è dunque la persona in relazione con l’altro… Per altro verso, proprio perché la relazione educativa è struttura tridimensionale di rapporto, di incontro – in un contesto – almeno tra un educatore e un educando, è chiaro che questa forma è proprio forma come nell’approccio gestaltico è sistema come nell’approccio della teoria dei sistemi…”. Dal punto di vista formale Corsi individua due principi della relazione educativa: la reciprocità di tutte le sue parti, di tutte le sue componenti (ciò rimandando alla teoria dei sistemi, perché chiaramente la relazione educativa è una totalità, è “sistema”) ed il legame (ciò rimandando alla meta-epistemologia, dove il legame della relazione educativa coincide con il legame della interdipendenza).

Indubbiamente la relazione educativa costituisce il framework su cui s’innesta ogni processo pedagogico ed è per questa ragione che per la pedagogia – dal punto di vista epistemologico – deve costituire un oggetto di continua riflessione, problematizzazione, valutazione, perfezionamento, innovazione. Se dunque è data una cornice epistemologica, dal punto di vista contenutistico ed operativo la relazione educativa si basa indubbiamente su alcuni assi portanti. Infatti, la necessità di pensare la relazione educativa diversificata nel suo svolgersi in funzione di talune variabili (quali ad esempio l’età dei soggetti coinvolti, il contesto formale, non formale o informale entro cui si costruisce e si concretizza, la scelta deliberata piuttosto che imposta di accogliere la proposta educativa, il rapporto numerico tra educatori ed educando, l’oggetto del precipuo atto educativo, ecc.), non impedisce di individuare alcune “invarianze” che la connotano, a prescindere dalle specificità e caratteristiche che, di volta in volta, essa può assumere. Il riferimento è ad alcune basilari e spesso interrelate connotazioni che qualificano l’educatività di una relazione, consentendo di distinguerla da innumerevoli altre tipologie relazionali

che si dispiegano in assetto intersoggettivo, tra le quali vanno primariamente annoverate:

(i) l’asimmetria: la relazione educativa è indubbiamente, per sua natura, una relazione asimmetrica nel senso che educatore ed educando – sul medesimo piano rispetto alla dignità, che è del tutto equivalente – si rapportano in modo

non speculare relativamente alla responsabilità, che grava ovviamente per

primo sull’educatore. In effetti, il gap rinvenibile tra la posizione di educatore e quella di educando giustifica l’avvio ed il mantenimento della relazione; tuttavia tale gap innanzitutto muta col passare del tempo, è caratterizzato da un livello di adeguatezza oltre il quale non è foriero dei risultati auspicati ma soprattutto non deve delimitare i due estremi di un livello “superiore” ed “inferiore” di status. In altre parole, ciò di cui deve essere dotato l’educatore è una riconosciuta maggiore capacità di precorrere, organizzare, suggerire, prospettare, in ciò risiedendo il valore ed il senso dell’asimmetria nella relazione tra educatore ed educando (cfr. Santerini, 1998). L’asimmetria della relazione educativa non può più essere ridotta ad un travaso di contenuti o ad una profonda differenza di autorità bensì deve coincidere con la presa in carico – da parte dell’educatore – dell’assunzione di responsabilità del processo formativo ed essere ricercata entro il concetto di “atto educativo inteso come inscindibile e sistemico rapporto tra educatore ed educando” (Iori, 2000). Così delineata l’asimmetria viene considerata un elemento di base della relazione educativa. Vi sono tuttavia alcuni aspetti che vanno mantenuti sotto stretta osservazione. L’asimmetria può infatti celare autoritarismo, quale degenerazione dell’autorevolezza dell’educatore; oppure un eccesso di direttività in luogo dell’autonomia nell’orientamento o ancora, il non riconoscimento delle diversità

culturali, a danno della capacità di valutare saperi differenti. Invece, consapevolezza e responsabilità qualificano – in misura non correlata – gli

aspetti peculiari degli educatori. Consapevolezza del fatto che la relazione è educativa e quindi finalizzata ad obiettivi e a direzioni desiderate ma anche delle tante variabili in gioco e dell’incertezza degli esiti finali. Responsabilità nei confronti del soggetto, del contesto relazionale e del compito assunto, stante l’asimmetria relazionale. Richieste in tal senso – di consapevolezza e di responsabilità – non possono essere pretese dall’educando, seppure

rappresentino obiettivi da conseguire: è compito dell’educatore. L’asimmetria avrà declinazioni specifiche nelle situazioni reali: di potere, di esperienza, di capacità decisionale, di autonomia, progettualità, di comprensione dei contesti. Ma tali asimmetrie “specifiche” non si implicano necessariamente l’un l’altra. In alcuni contesti, soprattutto nelle relazioni con gli adulti, il soggetto può avere più conoscenze e/o esperienze dell’educatore, stante – invariata – l’asimmetria in merito alla consapevolezza e alla responsabilità della relazione educativa (cfr. Tramma, 2003, pag. 93). L’educatore deve sempre aver presente la differenza di ruolo. Sarà l’empatia (la capacità di comprendere il punto di vista altrui) la modalità per una comunicazione emotiva positiva e solidale all’interno della relazione educativa, senza modificare l’assetto asimmetrico nella gestione dei ruoli. Diversamente c’è il rischio, afferma Mari (2012, pag. 50), che l’emotività faccia degenerare la relazione in forme di plagio;

(ii) la responsabilità: gli adulti sono dunque consapevoli della loro responsabilità educativa quando “si fanno garanti di una promessa e di un debito nei confronti dei bambini” (Chionna 2001). È “educativamente responsabile” quell’educatore che assume un atteggiamento di disponibilità verso l’educando e che sa rilevarne i bisogni ai quali decide di “rispondere”. Detta responsabilità si traspone in una relazione necessariamente asimmetrica, dal momento che essa, come ben evidenzia Ricoeur (1993, pag. 8) “ha come vis-a-vis specifico il fragile … [che è] … qualcuno che conta su di noi”. I bisogni fondamentali degli educandi – a partire da quelli dei più piccoli – trovano giusta accoglienza in un fecondo incontro con adulti significativi capaci di riconoscerli, di ascoltarli e disposti a farsi coinvolgere nella relazione educativa, in quanto consapevoli del personale beneficio evolutivo che ne possono trarre. A questo proposito Erikson (1950) si è riferito all’impegno da lui definito nei termini di apprensione e responsabilità con il concetto di “generatività”, esplicativo (a) in senso specifico dell’assunzione del compito di sostenere l’evoluzione oltre che il benessere dei più piccoli e (b) in senso più ampio della “possibilità di un nuovo ethos

generativo per mezzo della creatività”, esprimibile attraverso una cura globale

agita dalle generazioni adulte verso le generazioni più giovani per il miglioramento globale della vita di tutti e, quindi, della società. L’adulto

qualche cosa di quanto ha ricevuto nella sua vita e di “rendere migliore” il mondo non solo per sé o per le persone di proprio interesse (figli, studenti, educandi che siano) ma, in generale, per le generazioni future11. Ben più tardi Marta e Pozzi (2007) hanno elaborato una spiegazione di “buona società” in termini di “ampio contesto comunitario costituito da persone adulte che si impegnano, responsabilmente, a lasciare alla generazione successiva alla propria un’eredità positiva, intrisa di giustizia, fiducia e sicurezza” (ibidem, pag. 178). Le autrici definiscono tale forma di generatività come sociale, dato che si realizza nella presa in carico delle giovani generazioni oltre che nel contributo apportato al mantenimento e al potenziamento del legame intergenerazionale, attraverso funzioni di guida e di direzione. “Le persone generative guardano lontano nel tempo, guardano al mondo «dopo di loro»” (Marta e Pozzi, 2007, pp. 178-179). Se si conviene nel ritenere che l’espressione naturale della generatività giaccia nella cura che i genitori proferiscono nei riguardi dei figli (Scabini e Rossi, 2007b, pag. 7), non si può negare che essa abbia numerosissime altre forme per manifestarsi ed esprimersi – dall’insegnamento alla formazione, dalla gestione di una leadership democratica sino all’assunzione di incarichi di cittadinanza attiva – dove l’adulto si fa “generativo” nell’intento di restituire alla propria comunità almeno parte di quanto ritiene di aver ricevuto, contribuendo ad un mondo migliore non solo per sé o per i propri congiunti ma, in generale, per le generazioni a venire;

(iii) l’intenzionalità12: secondo Bertolini (1988, pag. 247 e segg.) la relazione

interpersonale connota uno dei pilastri su cui si basa l’educazione, assieme ad

altre dimensioni fondanti quali quella della globalità (per cui è fondamentale

11

Nella prospettiva di Erikson la qualità di fondo dello stadio adulto – scaturente dall’antinomia tra

generatività e stagnazione – rappresenta “una forma di impegno in costante espansione che si

esprime nel prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee che ci siamo impegnati di curare” (Erikson, 1993, pag. 53).Dunque il compito tipico dell’età adulta si connoterebbe per l’opportunità di concretizzare la funzione generativa che avviene non solo attraverso la generazione biologica ma anche – e soprattutto – attraverso la creatività, la generatività, comportando detto processo dinamico la possibilità di “un nuovo ethos generativo”, traducibile in una cura universale, ovverossia nella disposizione delle generazioni adulte verso il miglioramento della vita delle nuove generazioni nel loro complesso.

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L’intenzionalità va intesa sia in quanto fenomeno psichico attraverso cui la coscienza esperimenta il suo proprio contenuto portatore di un “in sé”, di senso obiettivo (Brentano), sia in quanto mezzo attraverso cui si stabilisce il rapporto tra soggetto e oggetto della coscienza, tale da rendere il primo tanto cosciente (cioè in grado di cogliere l’oggettività fisica del reale) quanto consapevole (cioè in grado di trasformare quell’oggettività in senso e significato) di quanto sta vivendo (Husserl).

che l’educazione sia rivolta alla persona nella sua interezza e non solo di volta in volta ad una sua unica dimensione), dell’operatività (per cui l’atto educativo, pur tenendo conto del passato deve operare in prospettiva, per cui stimolare, provocare, sostenere, accompagnare verso nuove opportunità d’esperienza), dell’integrazione sociale (in vista di un processo autoeducativo nella direzione dell’autonomia individuale nonché della consapevolezza delle delimitazioni spazio personale/spazio collettivo). Bertolini (ibidem) attribuisce alla relazione educativa la valenza di “comunicazione intersoggettiva intenzionale che non può consumarsi e autorigenerarsi se non in una concreta vicinanza tra i soggetti coinvolti …in quanto… messa in atto e in rete di microprogetti in grado di riempire la dimensione spazio-temporale quotidiana degli interlocutori.

Appare utile una concisa ma compiuta esplicitazione di Postic (1979), che in qualche modo assimila il concetto di relazione educativa all’aspetto dinamico dell’atto educativo, da distinguersi dal processo di influenza (che, invece, si esercita per instillare un’idea, un’opinione, un sentimento o provocare un’azione) per il fatto che annuncia la sua intenzione formativa verso uno dei partners dell’interazione:

“L’atto educativo … presuppone un insieme coerente di azioni intraprese in vista di un fine, un sistema ordinato di mezzi; è la messa in opera di principî espliciti o impliciti, ricavati da una teoria generale ed è, per essenza, direttivo, perché le scelte sono adottate per e non dall’educando” (ibidem, pag. 14). E ancora, l’iniziativa dell’educatore in vista di un fine – vale a dire la sua intraprendenza – “da’ impulso per l’apprendimento ma solo se trova, in colui al quale è indirizzata, un bisogno, un’aspettativa una motivazione che consenta l’avvio dell’azione e che la orienti. Il processo educativo si mette in marcia soltanto quando il movimento spinge ciascuno dei partners l’uno verso l’altro, mentre si blocca quando, in certe situazioni critiche, l’intervento iniziale dell’educatore è un atto di forza…. Per aver presa sull’educando, l’atto educativo ha bisogno di incontrare un consenso, un’accettazione temporanea del contributo; ma per prolungarsi nel tempo e orientarsi verso la sua finalità fondamentale, esso deve provocare nell’educando lo slancio della ricerca autonoma e far nascere un movimento critico… L’atto educativo risponde alle sue esigenze interne quando induce l’educando a definire la legge che egli si da’ autonomamente e ad organizzare la sua condotta, quando la sostiene, in una prospettiva temporale, a conseguire la padronanza del proprio sviluppo… È nei rapporti sociali intersoggettivi, n.d.r. instaurati nell’atto educativo che il

soggetto – sia esso fanciullo, adolescente, adulto – si rivela, si evolve, si struttura in una parola, esplicita il proprio sé, n.d.r.” (Postic, 1979, pp. 15-16).

Dunque la relazione educativa è un processo intenzionalmente avviato grazie all’iniziativa della persona investita di responsabilità educative solitamente formalizzate (ovverossia socialmente attribuite e riconosciute), che si prefigge di garantire che gli individui ad essa affidati possano raggiungere determinati traguardi di crescita. Qualsiasi atto educativo per definizione non è mai non- intenzionale, in quanto connotato da una precisa direzione verso cui l’azione dell’educatore – e il sotteso pensiero – si dirigono, in vista del raggiungimento di un fine, che è sempre tras-formativo. Ne deriva che l’atto educativo è tale quando l’educatore vede nell’educando una sollecitazione per attivare un processo di autoformazione;

(iv) la reciprocità: sottolinea Milan (2011) che l’individuo esperisce se stesso in quanto essere in relazione, dato che la definizione ontologica di Uomo e il processo di umanizzazione che ne determina e caratterizza lo sviluppo sono correlati alle capacità dell’individuo – oltre che alle sue possibilità – di porsi in relazione con gli altri. La relazione educativa rappresenta la manifestazione più nobile e maggiormente compiuta della condizione umana, non solo perché rimanda – come da immaginario collettivo – ai compiti di cura che un individuo può proferire nei riguardi di un’altra, ma soprattutto, come cercheremo di illustrare, per suo mandato di “dare forma al sé” (Boffo, 2011b). Ma l’attenzione posta sull’individuo e sulla primarietà della sua essenza non è attuabile se, contestualmente, non si riconosce che ad essa è legata la questione dell’attenzione all’altro. In questo senso i chiarimenti in ordine all’esperienza che facciamo dell’altro non sono mai sufficienti, anche perché l’alterità risulta essere sempre “di più” che non una semplice differenza tra termini Io-Tu (Musaio, 2010, pag. 78 e segg.). La riflessione sui temi dell’alterità, della differenza, della relazione intersoggettiva pone dunque al centro il concetto di reciprocità, inteso come paradigma della relazione fondata sull’esaltazione del valore della differenza. È soprattutto con il personalismo dialogico che il rapporto dialettico Io-Tu acquista un’importanza fondamentale dal punto di vista epistemologico. In particolare Buber (1958) sostiene con vigore la tesi

portante della sua antropologia del dialogo quando afferma che “all’inizio è la relazione …e che… l’uomo si fa Io nel Tu” (ibidem, pag. 30). L’uomo si configura allora come apertura, incontro, dialogo: “è in tale relazionarsi che si attua l’autentica libertà, quando l’uomo prende coscienza di sé stesso nel rapporto con l’altro e, interpellato e chiamato all’impegno nella relazione, mette in gioco la totalità dell’essere” (Milan, 1994, pag. 33). Lo statuto esistenziale ontologico dell’uomo porta allora a constatare la necessità dell’essere in rel-azione al fine di poter realizzare la propria umanità. D’altra parte, dal punto di vista fenomenologico, la rel-azione è la condizione entro cui è immersa l’intera realtà, compreso l’uomo, che di essa può farne consapevole esperienza. Su quest’ultimo punto Bertolini (1958, pag. 118) già affermava che non è possibile riconoscere se stessi se non si riconosce l’altro, tanto che “perdere l’altro significherebbe perdere anche se stessi” (Bertolini, 1988, pag. 77).

Ciò significa che le premesse per un’educazione alla relazione con l’altro dovrebbero porre le fondamenta sul riconoscimento della relazione che il soggetto ha in primis con se stesso, riconoscimento che avviene attraverso quello che Touraine (2009, pag. 131) ha chiamato “sguardo interiore”. La

relazione di alterità non è affatto scontata, né immediata né tanto meno facile

da instaurare, a causa di due azioni la connotano e che devono trovare un’equilibrata coniugazione in ciascuno degli individui complicati (Musaio, 2010): da un lato vi è da gestire il rapporto tra sé e sé, ovvero delle proprio dimensioni individuali quali l’interiorità, la coscienza, l’etica personale, che si alimentano alla natura propria dell’uomo “in quanto essere dotato di logos”; dall’altra parte vi è da gestire il rapporto con l’altro, che è al contempo “sia sdoppiamento sia unità fra un me ed un io nell’orizzonte del riconoscimento di un tu”;

(v) la presenza: il concetto di presenza (derivante dal latino “praesentia”, sostantivo di prae-esse, “essere innanzi”), rinvia alla relazione tra due elementi che si trovano l’uno di fronte all’altro. Il concetto di presenza comporta una duplice connotazione che ne sottolinea la significativa connessione con l’educazione: (a) da un lato la componente “esperienziale” della presenza, riferita ad un preciso atteggiamento o ad una disposizione interiore a “sentire” nel “qui ed ora”; (b) dall’altro lato il contesto entro cui tale stato esperienziale ci pone, che è quello

della relazione intersoggettiva dove colui che percepisce realizza di essere interconnesso con l’oggetto della percezione. Dunque, per definizione, la

presenza ha natura esperienziale, un vissuto esperito in taluni frangenti di

intuizione, di illuminazione, di particolare energia. La fondamenta per un vissuto di presenza giace nella consapevolezza nel qui ed ora – ovverossia nell’essere presenti nel momento in cui ciò che sta accadendo accade – in antitesi con le ordinarie modalità di conoscere, di affermare e di eseguire, fugaci e spesso vacillanti. Senge et. al. (2004) affermano che la presenza va oltre l’“esserci nel momento”, dato che connota anche un criterio attentivo, di riconoscimento e di ascolto di sé e dell’altro molto approfondito, capace di condurre ad una più autentica comprensione del mondo esterno e del proprio senso di identità

stabile13.

In riferimento al contesto educativo genitoriale – che qui particolarmente interessa – Paola Milani (2008), osservando che al giorno d’oggi la genitorialità si esprime più sul piano della presenza che su quello del ruolo, sottolinea quanto segue:

“…la relazione genitore-figlio diviene il luogo per eccellenza della relazione «volto a volto», dove ad ognuno è dato di compiere l’esperienza dell’accoglienza reciproca, della cura, della relazione dialogata e, soprattutto, della prossimità e dell’intimità. I genitori sono portatori di un «sapere intimo», un sapere cioè costruito a partire dall’esperienza quotidiana dell’intimità, degli affetti, dell’immediatezza, dove si gioca non l’atto tecnico ma le dimensioni esistenziali dell’«essere-con», dell’«essere-di», dell’«essere-per»: la relazione, l’appartenenza, il dono, in un sempre dinamico e precario intreccio tra l’essere e il dovere essere. Proprio in questo intreccio si crea la condizione prettamente umana dell’educabilità: la famiglia è il

13 Varela, Thompson e Rosch (1992, pag. 48-49), a proposito dello sviluppo delle capacità di essere presenti e consapevoli – pratiche queste ritenute metodi per lo studio dell’esperienza – affermano che vi sono due approcci esplicativi tradizionali: “In uno l’evoluzione della capacità di essere presenti è trattata come l’apprendimento di buone abitudini. Il fatto mentale dell’essere presenti viene rafforzato nello stesso modo in cui si allena un muscolo, che potrà poi eseguire un lavoro più faticoso e protratto senza stancarsi. Nell’altro approccio, l’essere presenti e consapevoli è considerato parte della natura fondamentale della mente; esso è lo stato naturale della mente, temporaneamente oscurato da schemi abituali di attaccamento e di illusione. Nel suo movimento senza fine, la mente indomita cerca costantemente di aggrapparsi ad un punto stabile e di attaccarsi a pensieri, sentimenti e concetti come se essi fossero un solido fondamento. Non appena queste abitudini vengono troncate e si impara ad assumere un atteggiamento di “lasciar andare”, allora la naturale

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