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Le attuali difficoltà dell’educatore

è intrinsecamente educativa

1.6 Le attuali difficoltà dell’educatore

La digressione sulle “invarianze” fondamentali che connotano un rapporto intersoggettivo in termini di “educativo”, rimanda ad importante documento elaborato dal Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana (AA.VV., 2009), che se da un lato invita ad una presa di coscienza della profonda crisi individuale e sociale che stiamo attualmente vivendo e delle sue

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Relativamente al rapporto tra imitazione e intersoggettività, le cospicue evidenze sperimentali di Meltzoff et. coll. (tra tutti cfr. Meltzoff e Borton, 1979; Meltzoff, 2005) fanno ritenere che l’imitazione dei movimenti altrui, osservabile già dopo pochi mesi di vita, sia resa possibile grazie ad un sistema di coordinazione visuo-motoria ricondotta a suoi stati interni propriocettivi, il quale gli consente di far coincidere i movimenti osservati negli altri con i suoi stessi movimenti. Secondo questa prospettiva, che fa equivalere i movimenti altrui osservati e quelli propri percepiti, consentendo al bambino di concepire l’altro come “entità simile a me”, l’imitazione apparirebbe fondativa della prima connessione tra il neonato e i suoi caregiver. D’altra parte, lo stesso Trevarthen (2001) giunge ad affermare che l’imitazione motoria connota uno degli elementi basilari dell’intersoggettività primaria, configurandosi come una delle prime modalità di comunicazione che l’infante può utilizzare. La stretta connessione esistente tra imitazione e intersoggettività è altresì evidenziata con particolare chiarezza dalla scoperta dei neuroni specchio (mirror neurons), che dobbiamo alle interessanti e innovative indagini neuropsicologiche ad opera di Rizzolatti e Gallese e del gruppo di Parma (cfr., tra tutti, Rizzolatti et al., 2002; Gallese et. al. 2004; vedi anche nota 2 cap. 2). In sostanza, specifici neuroni motori presenti nella corteccia prefrontale si attiverebbero non solo quando il soggetto agisce atti motori, ma anche nel mentre osserva lo stesso atto realizzato dall’altro. L’ipotesi è quella dell’esistenza di un meccanismo di risonanza che porrebbe in corrispondenza l’azione motoria personale con quella altrui, disponendo così l’individuo osservante all’imitazione. Secondo quest’ipotesi, l’empatia e gli stati intersoggettivi si baserebbero su un meccanismo neurofisiologico innato (Gallese, 2007, 2010), capace di attivare una consonanza tra sé e l’altro del tutto inconscia e preriflessiva, appunto grazie al processo imitativo-motorio (cfr. Riva Crugnola, pp. 13-16).

ragioni più profonde, dall’altro si appella agli adulti affinché riflettano e rivedano il loro ruolo “in quanto educatori”, pur avendo ben chiari i motivi che rendono così problematica la vita odierna e la sua stessa educabilità: solitudine nella moltitudine, egocentrismo, narcisismo, consumismo, incomunicabilità nell’epoca della comunicazione, incoerenze educative, stili di vita egoistici, immaturità affettiva, irresponsabilità personale e sociale. Chiarificatrice, a questo proposito, è la riflessione di Eugenia Scabini (2010, pp. 4-5) che rileva quanto l’attuale cambiamento culturale abbia modificato la rappresentazione che i genitori hanno del figlio, divento quasi “strumento” attraverso cui appagare il personale desiderio di maternità e di paternità. Centrandosi perciò in una dimensione sostanzialmente individualistica – se non egoistica – i genitori d’oggi stanno perdendo di vista la loro più alta funzione, che è di natura assiologia e consiste nel contribuire, attraverso un comune “progetto generativo” radicato nel passato ma proiettato sul futuro, alla responsabile evoluzione non solo della storia familiare ma soprattutto dell’evoluzione sociale. Essa afferma:

“… La cura dei figli oggi è vista soprattutto in termini affettivi e protettivi, mentre sullo sfondo sembra rimanere la dimensione etica della responsabilità (Scabini e Iafrate, 2003). Eppure sappiamo bene che la responsabilità è inscritta nella relazione genitori-figli, perché tale relazione non è di tipo paritetico, ma gerarchico. Come sottolineato da un noto pedagogista e psichiatra francese, Daniel Marcelli (2004), oggi il genitore non sembrerebbe tanto teso verso il compito di educare, cioè “tirare fuori” (ex-ducere) le potenzialità del figlio, quanto portato piuttosto a sedurre, ad attirare il bambino a sé (se-ducere), a compiacerlo, a saturare e prevenire ogni suo bisogno, spesso iperstimolandolo. Essere un genitore perfetto (o quasi) in grado di dare felicità al figlio e saturare ogni suo bisogno, questo pare il must odierno che segue l’attuale linea narcisistica… I genitori paiono dunque incontrare difficoltà nel “condurre” i figli, nel dare loro una prospettiva e una direzione verso cui tendere, sono incerti sui criteri e sugli obiettivi educativi con cui orientarsi nelle difficili e oggi assai complesse scelte, sono incerti nel dare indicazioni forse perché non sanno che cosa ultimamente desiderare per sé e per i figli” (Scabini, 2010, pag. 5).

Il panorama di difficoltà in cui oggi versa ogni educatore nell’adempiere alla propria funzione viene tuttavia bilanciato da due fattori nodali (Musaio, 2012, pag. 70-72).

Un primo fattore di bilanciamento coincide con il valore della positività insita

nell’atto educativo, che va alimentata e mantenuta attraverso la partecipazione e

l’attenzione all’altro, ovvero in quella centralità della persona che la pedagogia di ispirazione personalista – a partire da Mounier e Maritain in poi – ha stabilito come punto di partenza per instaurare un qualsivoglia percorso educativo. Ciò significa innanzitutto coniugare i valori fondanti l’educazione con il rispetto per i bisogni, le richieste, le necessità dell’altro, che vanno individuate, riconosciute, ascoltate, accolte, ma significa altresì essere sempre disponibili ad affiancare l’altro nel suo intimo e profondo desiderio di estrinsecare e realizzare se stesso, nonostante eventuali reiterati smacchi o fallimenti educativi.

Un secondo fattore che può bilanciare la difficoltà educativa della contemporaneità concerne la consapevolezza dell’educatore che la propria responsabilità educativa giace non solo nell’attenzione che egli deve rivolgere al soggetto dell’azione educativa ma anche a se stesso (attenzione personale) e nella comprensione delle dinamiche e degli accadimenti che originano e si sviluppano nello spazio intersoggettivo (attenzione interpersonale). La responsabilità educativa, infatti, se dal punto di vista personale comporta che l’educatore sappia “leggersi dentro” ed agire comportamenti scevri da condizionamenti esterni ed interni o da ancestrali inquietudini esistenziali che inevitabilmente comprometterebbero gli esiti relazionali, dal punto di vista interpersonale comporta una concentrazione sullo scambio e sulla condivisione intergenerazionale (Amadini, 2007, 2012; Cigoli, Marta e Tamanza, 2000; Pati, 2005, 2010) tale da coinvolgere il più ampio contesto entro cui la relazione tra educatore ed educando si innesca e si realizza. Ne deriva che se la responsabilità dell’educatore assume una dimensione non solo personale ma anche sociale e comunitaria, allora egli non può che investire sul potenziamento del

proprio sé in quanto educatore, cogliendo tutti i vantaggi e le opportunità offerte

dall’esperienza della relazione educativa, in vista di una progressività evolutiva in reciprocità con l’educando. Ed è su questa considerazione che si è sviluppato il percorso formativo di supporto alla prima genitorialità descritto nella seconda parte del presente lavoro.

Entro tale cornice ci appaiono vantaggiose le considerazioni di Mari (2012, pp. 50- 51), il quale, nell’argomentare che cosa rende educativa una relazione interpersonale, ribadisce che l’atto educativo ha come fine ultimo quello di

condurre l’educando – la persona altro da sé – a manifestare la propria originalità. Meta questa che va intesa in riferimento non solo ai tratti distintivi (costituenti cioè il carattere) di ciascuno ma anche a ciò che connota l’essere umano in quanto tale, con ciò riferendosi alla libertà, ovvero alla capacità di limitare le proprie brame in vista della scelta del bene18. Mari sostiene altresì l’importanza della congruenza tra il

modello proposto e l’attinenza allo stesso da parte dell’educatore, in quanto finirebbe altrimenti per perdere la sua autorità e tradire la sua responsabilità: “se la nostra educazione oggi appare tanto fragile e di scarsi risultati, forse questo avviene perché l’abbiamo spesso ridotta a socializzazione e intrattenimento, dimenticando che l’elemento distintivo della relazione educativa, rispetto ad altre forme di relazione, è di operare affinché prenda forma piena e matura la libertà come capacità di scegliere il bene. In altre parole, si tratta di puntare non semplicemente al riconoscimento dei valori ma alla pratica delle virtù” (ibidem).

Un ulteriore “assioma” che contribuisce a conferire natura educativa ad una relazione giace nella capacità dell’educatore di mantenere la giusta distanza (Musaio, 2012), ovvero nella capacità – da una “attenta distanza” – di porsi l’obiettivo di interessarsi all’altro, osservando e lasciandogli il suo spazio19. Ciò significa che la relazione educativa può dirsi tale quando colui che ha posizione “up” non esercita alcun controllo sull’altro, né si impossessa dei suoi spazi né tanto meno

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“Si tratta di quella che la tradizione chiama libertas maior (“grande libertà”), distinguendola dalla

libertas minar, la “piccola libertà” che corrisponde alla pura e semplice capacità di scegliere tra

alternative” (Mari, 2012, pag. 50).

19 Riportiamo in toto le condizioni rilevate da Musaio (2012, pp. 66-67) per le quali un educatore può dirsi tale quando, grazie al mantenimento della giusta distanza: “(1) non rinuncia ad esserci, ma accompagna, esercitando la sua autorità liberatrice in termini di sostegno per la buona riuscita del cammino intrapreso: non decide direttamente, come se fosse l’unico detentore delle sorti dell’altro, ma cerca di influire riconoscendo se stesso e l’altro come soggetti co-protagonisti di un processo che vede l’intreccio tra autorità, libertà e responsabilità; (2) esercita la facoltà dell’attenzione, che vuol dire non necessariamente assumere sguardi eccessivamente invasivi o di controllo, né sguardi distaccati o indifferenti, perché in entrambi i casi si annullano le possibilità di cogliere la vera e unica realtà dell’altro; (3) rintraccia non solo lo spazio dell’altro, ma anche lo spazio dentro di sé, in termini di attenzione, riconoscimento e cura per i propri spazi interiori, perché soltanto l’uomo che coltiva lo spazio interno riesce a dare significato alla propria presenza all’esterno e saper far riecheggiare all’interno di sé la presenza e la vita degli altri: gli altri non gli appaiono semplici utenti di un intervento esterno oppure oggetto di fredda osservazione, ma presenze vive e significativamente coinvolgenti per la sua stessa crescita umana, le persone non sono semplici destinatari di progetti o iniziative ma co-protagonisti insieme all’educatore di orizzonti di vita comuni; (4) rintraccia lo spazio creativo dell’altro come richiamo non ad una vaga e irrealistica percezione delle sue possibilità, ma in termini di ascolto e rispecchiamento delle sue effettive potenzialità, talenti, doti, ma anche degli aspetti più reconditi del suo essere personale, esercitando quell’arte maieutica, mai terminata e mai inutile, dell’e-ducere, del portar fuori l’altro, aiutandolo a rintracciarsi nei sentieri dell’esistenza”.

ne assume “i panni” agendo per suo conto, bensì ha ben chiari i confini dell’altro, favorendo e sostenendo la personale elaborazione delle quotidiane esperienze di vita.

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