La formatività della relazione educativa
5.2 Quando la relazione educativa diventa formativa? Punti di vista esperti
Una prima condizione che sancisce la formatività di una relazione educativa giace nella responsabilità dell’altro, cioè nella responsabilità da parte di chi ha un’attribuzione di cura – diretta o indiretta – del soggetto che deve crescere o al quale deve insegnare qualche cosa. Da questo punto di vista, connesso all’idea di
autonomia come obiettivo vi è il riconoscimento di un’autonomia complessiva sul
piano cognitivo ed emotivo. Quindi associato al fattore della responsabilità nel condurre l’altro verso l’autonomia, un fattore aggiuntivo e non secondario che stabilisce che una relazione è educativa giace nell’autonomia raggiunta dal soggetto in posizione iniziale “down”; dal livello di autonomia e dai suoi contenuti dipende la capacità della relazione educativa di essere formativa, il ché avviene quando
l’educando assume su di sé la responsabilità della propria autonomia (Ajello).
Tale responsabilità è data in funzione del libero arbitrio dell’individuo e quindi della sua libertà di scegliere. Libertà di scelta non nel senso di fare tutto ciò che si vuole ma in quanto libertà di agire a partire dalla realtà relazionale che l’individuo vive e nella possibilità che ha di costruire se stesso attraverso le relazioni che instaura e che coltiva. E l’educazione, che avviene unicamente nella relazione, ha come scopo principe quello di aiutare a trovare un senso alle esperienze e ai vissuti, un senso del proprio vivere. A partire da questa base quella relazione può diventare formativa in
quanto capace di dare un senso al proprio sé (Cusinato).
La relazione educativa diventa formativa quando l’“educando” – attraverso l’aiuto dell’educatore – comprende che è libero di scegliere la propria strada ma che questa ha dei limiti di cui bisogna essere consapevoli e che non vanno oltrepassati, pena l’indebolimento, se non l’imbarbarimento, del proprio sé. La gestione della libertà non è automatica né tanto meno naturale: va appresa e per questo è necessario che qualcuno insegni ad esercitarla (Ajello).
Ben si capisce che le questioni cruciali da tenere presenti allorché si vogliano delineare le concrete connotazioni di una relazione educativa che diventa formativa sono almeno due: la prima riguarda il costrutto di area di sviluppo prossimo, ove appunto trova collocazione la funzione mediativa dell’esperto verso l’inesperto; la seconda concerne la dimensione di scaffolding, che comporta un ruolo di supporto attento e professionale dell’educatore che deve essere pronto e disposto a co- costruire l’autonomia del soggetto che sta imparando – obiettivo fondamentale della relazione educativa – ma nel contempo deve essere in grado di sottrarre l’aiuto quando non più necessario (Ajello).
Educazione e formazione sono allora indubbiamente intrecciate, seppure distinte
nei processi che le determinano e nei loro fini. La prima – l’educazione – comporta l’offerta di proposte intenzionali da parte dell’adulto al soggetto in crescita per il miglioramento di sé, quindi di perfezionamento di sé, in vista del raggiungimento di un livello sempre più alto di autonomia e di responsabilità personale. La seconda – la formazione – può essere sostanzialmente assimilata ad un processo autoeducativo, da intendere come quell’atteggiamento attraverso cui la persona – soprattutto già matura e grazie al sostegno di un supporter esperto – viene posta nella condizione di poter attivare un processo di riflessività sulla propria esperienza e quindi di intraprendere un itinerario di miglioramento di sé (Pati).
Da punto di vista del dominio processuale la relazione educativa connota un processo di negoziazione e di reciprocità decise ed implementate non solamente dall’educatore bensì da questi insieme all’educando, in quanto se il secondo non accetta di essere educato, l’intenzionalità educativa del primo si fa voce vacua. Dunque ogni relazione è educativa in potenza, poiché “incontrando l’altro” inevitabilmente ci si tras-forma. Ovviamente l’incontro può tras-formare in maniera non governata, in maniera casuale, non esplicita, inintenzionale: ad esempio, una conversazione estemporanea con una persona interessante incontrata in treno può aver lasciato in noi una traccia ma non si può con questo dire che ci abbia trasformato: invece, quello che può essere avvenuto su suo impulso è un’auto- trasformazione, che ciascuno di noi può fare autonomamente attraverso la riflessione su di sé (Formenti).
Per Margiotta non c’è educazione senza relazione: l’espressione di tale atto
competente, supposto sapere, si incarica di insegnare comportamenti funzionali alla conservazione della vita biologica e spirituale a chi non dispone ancora di tali conoscenze e abilità – è dato dalla cura della relazione. Relazionarsi, in un processo educativo, non rappresenta una contingenza, ma un vincolo, senza il quale non c’è quel processo. La relazione educativa è esperienza e pratica della cura. La cura – nel senso epistemologico e filosofico del termine – viene qui definita come l’insieme degli atti, delle pratiche e delle teorie, dotati di transitività circolare fra bisogno- risposta, dipendenza-autonomia, in cui è incluso sempre anche il bisogno del curante, che Margiotta indica essere necessità ontologica e pratica bio-culturale mediante la quale si è immessi in un Mondo e si è mantenuti in vita all’interno dei contesti che quel mondo descrivono. Nella relazione educativa i giovani si muovono in un mondo già formato, in un contesto organizzato, strutturato, che esisteva prima della loro comparsa, ed è proprio la relazione educativa che stabilisce il ponte, il vincolo col passato. Vincolo non statico, nell’obbligo di scomporre e ricomporre diverse visioni del mondo, trasformare e trasformarsi. In ciò giace la capacità della relazione educativa di essere formativa. Certo che se la relazione c’è ancora non esiste – almeno a livello della ideologia dominante – una teoria capace di circolare verso le pratiche, di metterle in significato, di nutrire un pensiero educativo e di formazione orientato alla cura. In ogni caso la formatività della relazione educativa può essere anche stabilita sulla base di una serie di azioni definite dall’autore in-clusive (volte verso l’interno, le prime tre) ed ex-clusive (volte verso l’esterno, le seconde tre):
conservare, ad indicazione della necessità di essere consapevoli del debito che ci
lega agli altri, sentimentale, intellettuale; consapevoli del dono e dell’ostaggio che ciascuno rappresenta quando si instaura la relazione, a cui l’atto del donare ha dato avvio. Una relazione educativa è formativa quando riesce a valorizzare la riconoscenza in quanto azione conservativa e generativa.
preservare, il cui significato etimologico fondamentale rimane l’argomento della
fedeltà: fedeltà ad un compito, ad un oggetto ritagliato in vari contesti, definiti e determinati dalle storie, dalle presenze, dalle aspirazioni, dagli scopi. La relazione educativa è dunque formativa in quanto preserva – tra i vari oggetti – la famiglia e la scuola come contesti inconfondibili, appositamente costruiti nel tempo di apprendimento delle nuove generazioni e di saldatura tra le
generazioni; la specificità della famiglia come ambito e momento tutto particolare nella storia dell’individuo; l’autorità come autorevolezza; la soggettività dell’individuo; lo studio come pratica che richiede sforzo, accettazione di regole e vincoli;
(c) riparare, atto strettamente legato ai primi due in quanto la conservazione e la preservazione presuppongono la constatazione che qualcosa si può rompere, corrompere, degradare. Se nella logica a cui ci hanno abituato anni di consumismo ciò che è rotto semplicemente si butta via, si sostituisce, nell’ottica di una intersoggettività educativa la riparazione acquista il senso umanissimo del sapersi perdonare, reciprocamente, del sapere che il danno è effetto di una reciprocità di atti commessi, per incuria, per insipienza, sui quali è possibile tornare, non rimuovendoli o negandoli, ma facendone argomentazione, parola condivisa fra gli attanti. Ed è anche in questo atto che la relazione educativa si fa formativa;
promuovere e trasformare, due azioni che, come indica l’etimo dei loro prefissi
“pro” e “tra”, conducono verso l’esterno. Ma verso dove? Sempre più spesso i bambini e i giovani chiedono agli adulti di dare fondamento – nel senso di giustificare – a quello che essi chiedono loro di fare. La relazione educativa ha occasione di farsi formativa se aiuta gli educandi a comprendere che la richiesta loro fatta è per stimolarli e per affiancarli nel moto verso un altrove, per formare al nuovo mediante quel che già è presente, attraverso lo stupore e la meraviglia. La sfida educativa consiste nel promuovere le condizioni attraverso cui l’educando sviluppa la capacità di avere cura di sé, in cammino verso l’autonomia dal genitore/precettore/insegnante. La formazione trasformativa, diciamo in modo un po’ ridondante visto che ogni buona formazione è mutamento, è il prodotto dello spiazzamento cognitivo, di un’emozione, di un movimento del sentire. Nella relazione educativa, promuovere e trasformare servono alla sua cura perché sono verbi generativi, perché fanno vedere l’ulteriore, ciò che nello spazio e nel tempo i più giovani possono immaginare, fantasticare, ciò che desiderano e a cui possono aspirare;
coltivare, per la pregnanza dell’immagine inerente l’atto di rimette alla terra il
seme, che rimanda al mantenimento della tradizione per gettare un ponte verso l’altrove. Nella relazione educativa il “coltivare” è un atto inclusivo e divergente
insieme, comprensivo di tutti gli atti presenti nei precedenti predicati. La tradizione è lascito ed è tramite, come suggerisce l’etimo, traslato, traduzione e tradimento. Il genitore, il maestro, l’anziano, coltiva e poi lascia andare ciò che ha fruttificato. Il figlio, il discente, il giovane ascolta, impara, ma poi deve
uccidere il maestro, come nell’apologo mitico, presente in tutte le culture.
Adattamento e ribellione devono stare sul percorso dei doveri e della responsabilità. Nella relazione educativa la responsabilità è una parola-chiave. Verso se stessi, come responsabilità nella costruzione di un percorso identitario che non tradisca il desiderio di autenticità, che assecondi quella che capiamo essere la nostra pro-pensione. Verso gli altri, come responsabilità rivolta alla relazione interpersonale e al consorzio sociale. L’esercizio della responsabilità comporta la fiducia che il contenuto del patto che ci lega nella relazione sia buono, per noi, per l’altro, per il contesto (Margiotta).
La relazione educativa viene dunque definita come quel rapporto intersoggettivo teso a dare forma, non nel senso di “plasmare” ma di aiutare l’altro a prendere la
sua forma, favorire nell’altro il suo prender forma di sé. La parola-chiave che rende
conto della formatività della relazione educativa è perciò “ricerca di senso”. I genitori educano i figli, in un contesto che è tutto relazionale, quando li aiutano a dare risposte alle esigenze di senso. Una relazione è dunque educativa non tanto quando “dà forma” ma quando “l’educatore affianca l’educando nel “suo prender
forma (Iori).
Spostandosi da una prospettiva antropo-pedagogica ad una prospettiva socio- relazionale (Donati), assimilando quest’ultima ciascuna relazione ad una azione reciproca (rel-azione) ne deriva che quella educativa coincide non tanto con una relazione funzionalmente specializzata quanto con la valenza formativa di tutte le
relazioni del mondo vitale. La relazione educativa connota un sistema prassico
concepito come rete di azioni reciproche finalizzate a dei valori etici. Le relazioni sociali – tra individui – in-formano sempre, nel senso che incidono nel dare una
forma a chi sta in-relazione. Se e come quella relazione sociale possa dirsi educativa
dipende dalla configurazione della stessa: lo è quando si configura come bene
relazionale per coloro che stanno in relazione fra di loro, ciò presupponendo una
reciproca riflessività relazionale, tesa alla generazione di un effetto emergente virtuoso.