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Considerazioni conclusive e raccomandazioni di ricerca ulteriore

Capitolo VIII: Conclusioni Verso la promozione dell’agency dell’infanzia nelle relazioni di cura

7. Considerazioni conclusive e raccomandazioni di ricerca ulteriore

L’alterità dell’infanzia e dell’adolescenza rispetto alle (plurali) età adulte è costituita tanto dalle peculiari vulnerabilità quanto dalle potenzialità ad esse rispettivamente riconducibili.

Rendere la ‘potenza’ ‘atto’, il considerare bambini e adolescenti human beings non solo

human becomings152, significa possibilizzare un potere del soggetto rispetto alla relazione con

gli altri, il quale sia connotato da una natura tripartita: quel power to, power over e power

through153 che rende l’agency il mezzo con cui esercitare una co-determinazione delle azioni

che influiscono sulla vita altrui e che, nonostante le altrui rappresentazioni, sortiscono degli effetti sul sistema di relazioni nel suo insieme.

Agency, però, non è (solo) autonomia e auto-determinazione, in quanto essa genera e necessita competenze che includano l’abilità di sapere ascoltare i propri bisogni, ma deve (far) comprendere le modalità più adeguate di esercitare quel potere: agency è anche la concretizzazione di un processo di empowerment.

7.1 Riconoscere la malattia eterovissuta come opportunità di empowerment

Nel capitolo II, con il paragrafo 4.3.3 mi soffermo proprio sulla correlazione tra agency ed empowerment, la quale – non essendo ancora stata adeguatamente trattata in letteratura – costituisce un’area tematica sufficientemente vasta e sufficientemente importante da meritare approfondimenti ulteriori mediante ricerche dedicate.

Sulla base delle argomentazioni che questa tesi propone, infatti, si rendono auspicabili degli studi che condividano l’interpolazione teorica che ho adottato per la mia analisi e che integrino l’approccio biopsicosociale alla salute con una valorizzazione critica dell’agency infantile: la sfida è di non ricadere negli stessi errori interpretativi finora compiuti in merito.

151 Favretto e Zaltron, 2013:188.

152 Distinzione di Favretto et. al. (2017:50) già impiegata nel capitolo III, par. 3.3..

185 Come già accennato con riferimento all’ambito di salute pediatrica, l’empowerment è concetto di cui si abusa spesso, attuando una strumentalizzazione e una minimizzazione delle reali capacità dell’infanzia al fine di ottenere delle compliance terapeutiche e comportamentali in modo da asservire mutualmente le aspettative biomediche rispetto alla terapia a quelle adultocentriche rispetto alle relazioni intergenerazionali.

Sviluppare empowerment, mediante l’ampliamento e il rafforzamento delle proprie capacità di presa in carico e di cura, costituisce un fattore di stimolo e moltiplicazione di quelle competenze utili a far fronte a difficoltà anche di eterogena natura, trasformando una crisi in un’opportunità non tanto e non solo per il singolo, ma – come sottolinea Grant (2011:29) – per il sistema relazionale di cui bambine, bambini e adolescenti sono parti integranti e determinanti.

Le competenze sono pertanto da intendersi in quanto abilità cognitive individuali riferite alla costruzione del sé e all’acquisizione/rafforzamento dell’identità sociale, ma anche in quanto abilità relazionali154 da impiegarsi nel rapporto con gli altri significativi anche e soprattutto quando questi si trovano a gestire delle difficoltà importanti.

L’evoluzione concettuale, argomentata nel capitolo IV (par. 6), è quella che deve compiersi sul piano delle rappresentazioni e delle relazioni, costituita dal passaggio di bambine/i e adolescenti da soggetti compatenti a soggetti competenti.

“Un individuo (però) è competente non solo perché possiede tali risorse, ma soprattutto perché sa utilizzarle in modo consapevole e adeguato in contesti specifici”155 adottando

un’adeguatezza dell’agire che corrisponde solo in modo incidentale alle predeterminate dimensioni temporali ricondotte alle rispettive età. Piuttosto, infatti, a determinare l’adeguatezza dell’agire è l’insieme di caratteristiche esclusive e peculiari che caratterizzano i soggetti in un dato momento rispetto a un dato scenario.

Acquisendo come per Zaltron156 la competenza come una risorsa intra e interpersonale con cui i bambini e le bambine si adeguano alle diverse situazioni in cui sono coinvolti, è opportuno considerarla come un elemento acquisibile secondo modalità che sono progressive solo relativamente, in quanto soprattutto si verificano, evolvono e modificano a seconda delle diversità del contesto.

Come è stato argomentato nel capitolo III, è illegittimo e deleterio considerare bambine, bambini e adolescenti sulla scena di cura (e non) come soggetti incapaci e incompetenti a priori, in quanto ad essi va riconosciuto il ruolo di attori sociali a tutti gli effetti, indipendentemente dalle età che li caratterizzano e, soprattutto, dalle rappresentazioni che gli adulti di queste possono averne.

Il riconoscimento di tale agentività permette che venga loro attribuito e con loro promosso l’adempimento di un ruolo in quanto individui in grado di agire, capaci di farlo e consapevoli di ciò che compiono, nonché la possibilità di interagire in quanto individui dotati di una capacità di autodeterminarsi e di co-costruire il contesto di cui sono parte.

Come molte capacità dai connotati sociali, le competenze inerenti l’autodeterminazione e la co-costruzione di senso non sono innate, ma vengono acquisite e sviluppate – grazie, più che nonostante – all’avvicendarsi delle fasi della vita e iniziando, quindi, molto prima del raggiungimento di quella maggiore età legalmente definita la cui epifania, letteralmente da un giorno all’altro renderebbe i soggetti capaci di agire e pensare.

154 Bornstein et al (2010:719) e, Martinez et al. (2011:881). 155 Favretto et al., 2017:50.

156 Intervento durante il dibattito dell’evento: “Il diritto “partecipato” alla salute. Bambini, adolescenti e adulti

tra protezione e partecipazione.” Convegno organizzato da LABSIA (Laboratorio Salute Infanzia Adolescenza) dell’Università del Piemonte Orientale, Alessandria, 24 novembre 2017.

186 Per le conclusioni di questa tesi, la quale tratta di relazioni rispetto alla salute, l’educazione diviene pertanto un concetto chiave in quanto acquisizione della “capacità di sentire e di dare significato ai messaggi del proprio corpo, la maturazione della responsabilità verso la propria salute, la possibilità di vivere l’alternanza di piacere e dolore come condizione del nostro essere vivi” (Melucci, 1994:261).

Non si può riconoscere la malattia eterovissuta come opportunità di empowerment, senza parimenti attribuire la dovuta importanza al processo con cui i soggetti apprendono norme, valori, conoscenze ed emozioni. La rilevanza dell’educazione in materia di salute e malattia consta infatti nella complessità dell’interiorizzazione dei meccanismi che regolano le condotte reciproche in base ai vincoli e alle norme specifiche che un determinato gruppo adotta.

Per quanto naturale e immutabile possa apparire, infatti, l’esperienza della malattia grave, così come quella della morte – incluso il come la si vive, la si rappresenta e la si condivide – sono il prodotto del processo educativo in senso lato che viene seguito dai singoli membri in base a quanto il loro gruppo prevede in merito ai contenuti.

Mentre si assiste a una privatizzazione progressiva della malattia157, si può anche constatare che importanti aspettative nei confronti della scuola vengano mantenute come un’istituzione in grado e in dovere di adempiere alla funzione sociale di creare individui competenti rispetto alle molteplici situazioni con cui essi possono e debbono confrontarsi.

In materia di apprendimento, infatti, mentre in termini contestuali e relazionali, le ragazze e i ragazzi che ho consultato si sono riferiti alla scuola come elemento di supporto alla normalizzazione della rottura biografica condivisa, sul piano dei contenuti che nelle aule vengono trattati – soprattutto quelli formalizzati nei curricoli didattici – possono essere avanzate molte considerazioni critiche in merito al permanere di una catechesi della fede nella scienza biometrica, nella medicalizzazione dei problemi e nell’ipercertificazione delle peculiarità individuali.

Siagian et al. (2019:13) definiscono in modo molto sfavorevole questo aspetto perché lo riconducono alla scuola come agenzia di socializzazione tuttora improntata a un paternalismo neoliberale della costruzione dell'infanzia e della genitorialità, il quale auspica la formazione di soggetti che riproducano l’attuale divisione del potere, del lavoro e della legittimità – giuridica e simbolica – riconducibile all’agire. Come affermato in un recente convegno di filosofia per l’infanzia però, “l’educazione non dovrebbe essere la trasmissione del noto, ma l’incontro con l’ignoto.”158

7.2 Attenuare il cortocircuito relazionale della protezione

L’ignoto fa paura, da sempre, ovunque e comunque. Quando poi esso fa leva sui tabu e sugli assunti inerenti la vita e quando, poi, il tutto deve essere rapportato all’infanzia innocente e selvaggia, priva di responsabilità e malizia, l’adultocentrismo, con l’adozione del modello biomedico d’interpretazione della malattia tende a riprodurre in modo pervasivo il risultato della marginalizzazione di bambini, bambine e adolescenti sulla scena di cura del familiare ammalato.

Per quanto determinata dalle buone intenzioni relative all’istinto di protezione, l’esclusione di ragazzi e ragazze è emersa in molte delle narrazioni, manifestando sul piano empirico – quale è anche su quello teorico – un corto circuito relazionale, prima che concettuale.

157 Secondo tale processo ciò che avviene è un isolamento dell’esperienza della malattia esercitata verso

l’esterno dalla famiglia e, rispetto all’interno, un allontanamento da parte degli adulti rispetto ai più giovani.

158 Marina Santi: “Filosofia con i bambini: Educare al pensiero. Dalla filosofia al filosofare”, organizzato da

187 Un cortocircuito, ordinariamente inteso, è il passaggio di un’energia di forte intensità tra due elementi su cui grava un danneggiamento del dispositivo il quale impedisce un’adeguata trasmissione e comporta una reazione traumatica. Quando il rapporto tra genitore e figlio passa attraverso un circuito relazionale che risulta indebolito dall’usura psicologica causata dalla malattia, come per la legge di Ohm, secondo cui l’intensità della corrente che attraversa un determinato conduttore è inversamente proporzionale alla sua resistenza159, il flusso relazionale raggiunge una tensione eccessiva. La conseguenza è che tanto quanto un apparato elettrico attiva il suo dispositivo di sicurezza, chi riveste una posizione predominante nel sistema relazionale interrompe l’eccesso di energia emotiva, chiudendo il canale comunicativo o per lo meno riducendolo in maniera importante.

Restando sulla metafora, per prevenire i danni causati sull’apparato elettrico, un aiuto viene fornito dal fusibile, il quale è concepito per isolare la zona coinvolta dalla questione assorbendone l’impatto ed evitando che questo nuoccia. Nel caso delle relazioni intergenerazionali sulla scena di cura, la funzione del fusibile può essere ricOperta dalla consapevolezza dei soggetti coinvolti riguardo ciò che sta accadendo intorno a loro e che impatta fortemente sulle loro vite.

Il processo con cui il soggetto diviene consapevole che il familiare significativo soffre di una malattia grave e potenzialmente letale non è indolore, affatto; in caso di cortocircuito, i fusibili bruciano. Evitando però le relazioni manipolative conseguenti a un evitamento della questione e a una marginalizzazione dei membri più giovani, la famiglia – nelle parole di Lizzola (2002:125) – diventa in grado di “accogliere sentimenti, anche distruttivi, per restituirli bonificati e nominati, affinché non facciano più paura (o ne facciano meno) e ciò permette al bambino di sperimentare anche i sentimenti più dolorosi, aiutandolo a esporsi e definirli rendendoli meno terrificanti. Rendendoli pensabili, così da poterli affrontare. Questo lo aiuta a costruirsi una mente” e a ricostruire le relazioni su una base nuova.”

7.3 Ricostruire insieme i confini di senso e di relazione

La rottura biografica ‘rompe’ e ciò che è rotto va ricostruito; quando ciò che subisce la frattura, è la relazione così come era prima della malattia tra i familiari, la ricostruzione non può avvenire che da parte di tutti. Ciascuno con le proprie capacità e potenzialità, con i propri punti di vista, con le proprie esigenze e i propri ruoli, ma insieme e, insieme, tutti “immersi nel vivo di una danza interattiva, che è più grande di ogni danzatore e che interconnette i vari frammenti e i vari livelli della scena della cura e che, senza posa, ricostruisce i confini tra questi frammenti e livelli.”160

Un primo passo di quella danza che permette di ricostruire i confini e di conseguenza ri- definire ruoli, responsabilità e potenziali partecipazioni, sostiene Vargas (2015:35) è proprio la narrazione, con la quale si può ricomporre l’esperienza di ciò che si è vissuto dotandola di un significato nuovo, più funzionale alla coesione con gli altri e all’ascolto di se stessi. Al bambino, bambina o adolescente che narra, però, vanno messi a disposizione un palco e un pubblico che siano adeguati.

Innanzitutto il contesto di condivisione deve tenere conto delle modalità – quelle sì – peculiari ed esclusive a età che sono giovani o giovanissime, così da non perdere per strada componenti simboliche e concettuali che sono importanti per una ricostruzione che possa dirsi coerente. Inoltre, adeguato deve essere anche il pubblico che ascolta, senza qui riferirmi al ricercatore, quanto soprattutto ai genitori, ma anche ai medici coinvolti dal percorso oncologico e agli insegnanti con cui il soggetto interagisce su base quotidiana. Per essere

159 Cammack et a., 2006:476. 160 Lusardi e Manghi, 2013:22.

188 significativo, è necessario che il pubblico sappia e voglia non solo ascoltare, ma anche ‘credere’ in chi si sta esprimendo e in quanto viene espresso. È indispensabile aprirsi all’alterità intergenerazionale e agli altri mondi possibili, nonché alle peculiari concettualizzazioni di soggetti che stanno costruendo la loro identità, proprio – anzi – anche attraverso, quella fase critica che la famiglia sta vivendo.

Secondo Graffigna (2018:99) infatti, il processo di engagement di un soggetto della cura, “va considerato come un percorso di maturazione e trasformazione dell’individuo sul piano dell’auto-percezione e del proprio ruolo di protagonista nel percorso sanitario: un processo complesso che necessita di una presa in carico olistica.”

Concepire come possibile e auspicabile un maggiore protagonismo di bambine/i e adolescenti sulla scena di cura implica che a tutti i soggetti del contesto venga riconosciuto uno status di rilevanza relazionale da determinarsi non tanto e non solo sulla base delle età che essi/e hanno, ma piuttosto considerando le molteplici interazioni attraverso cui sviluppano il loro libero arbitrio (Favretto et al., 2017:31).

7.4 Concepire l’engagement dell’infanzia-adolescenza sulla scena di cura

Lo studio che si conclude con questo capitolo era concepito come indagine per un dottorato di ricerca e, quindi, non era finalizzato alla promozione di politiche sociosanitarie dedicate.

Purtuttavia, i richiami indiretti a potenziali interventi sono molteplici, in quanto, che si riconosca o meno lo status di attori sociali a bambine, bambini e adolescenti di famiglie in cui uno dei membri è malato di cancro, essi ne sono parte integrante e, in quanto appartenenti a un sistema di relazioni dalla rilevanza primaria, devono essere annoverati tra i principali destinatari di interventi da parte del sistema di welfare, tanto per il suo mandato di natura sociale, quanto per quello sul versante sanitario.

Già decenni orsono, per citare un esempio pertinente con il contesto oncologico, Friedman et al. (1988:529 e seguenti) hanno dimostrato l’utilità del supporto famigliare nell’aggiustamento delle condizioni di vita di soggetti affetti da patologie gravi. La loro indagine empirica partiva dalla rilevazione di una quantità di studi che dimostravano come si potesse ottenere un migliore adattamento del paziente alle nuove condizioni imposte dalle terapie proprio mediante il contributo di relazioni familiari caratterizzate da condivisione degli stati d’animo, assenza di tensioni emotive e reciproca coesione.161

Su questa linea, in letteratura sono rilevabili molteplici argomentazioni e indagini empiriche che analizzano la cronicità, le cure palliative e la disabilità; è però solo nell’ambito della disabilità che è stata dedicata attenzione all’impatto relazionale che la problematica eterovissuta comporta su bambine, bambini e adolescenti, configurando così l’epifenomeno dei cosiddetti siblings in quanto tali.

Si tratta però di un’attenzione che si è potuta accendere in questi tre ambiti in quanto contesti in cui, tra i primi, si è palesata la necessità di riconsiderare natura e modalità inerenti quelle che Lizzola (2008:127) indica come indispensabili “alleanze tra luoghi di cura, contesti territoriali, mondi vitali e famiglie”.

Per certi versi, questa evoluzione può essere ricondotta a quell’approccio pragmatico su menzionato, senza per questo volerne fornire una valutazione dispregiativa. Il passo da compiere, però, adesso è ulteriore, in quanto, nelle parole di Belotti e Ruggiero, “la costruzione di nuove opportunità di relazione e scambio tra le generazioni diventa una necessità che i diversi sistemi di politiche sociali devono affrontare, non solo per senso di giustizia

161 Faccio qui riferimento alla definizione di ‘coesione’ adottata da Friedman et al. proprio per il loro studio sui

contesti familiari di donne malate di cancro al seno (1988:531): “family cohesion is defined as the emotional bonding that family members have toward one another.”

189 nell’allocazione delle risorse tra le generazioni, ma anche per ridisegnare le basi della loro sostenibilità e legittimazione” (2008:32).

L’epoca del dibattito mondiale che ha generato, essendone poi a sua volta rilanciato, la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, con la quasi simultanea promozione di una salute più integrata condotta sullo sfondo e in seguito alla Carta di Ottawa, ha già meritato molta attenzione teorica. Ciò che tuttora latita è una sistematica applicazione integrata di questi due ambiti di riferimento a livello empirico, nel mondo di vita della famiglia e nelle pratiche dei servizi sociosanitari che ad essa sono correlati nel momento in cui una malattia grave come il cancro si conclama.

Quindi, per quanto non finalizzato al supporto della programmazione, ritengo che questo studio possa e debba anche delineare un alveo d’azione irrinunciabile sul piano delle politiche. Per una ricerca sociologica, la utilità dei suoi risultati è un prerequisito essenziale, tanto che lo stesso ciclo metodologico dell'informazione è destinato a inaridirsi “se – per dirla come Cremonini (1999:81) – essa non produce effetti che possano tradursi in spendibilità operativa.” È in questo senso che – sul piano metodologico – l’indagine empirica condotta per questa tesi, con tutti i limiti più volte ribaditi e il limitato orizzonte fenomenologico costituito da un campione di modeste dimensioni, ha voluto fornire indicazioni riguardo al livello di utilità, legittimità, elaborazione e spendibilità che è possibile trarre da una consultazione di soggetti giovani e giovanissimi, anche su temi così sensibili e anche con il fine di indirizzare relazioni familiari e prassi istituzionali.

Inoltre, se come ricorda Favretto162 “il ruolo della sociologia rispetto a questo tema è quello di essere tramite e di permettere di leggere i bisogni sociali che dagli altri settori non è possibile fare”, l’aspirazione di questa ricerca, è stata anche quella di offrire un esempio di lettura ‘umanizzata’ dei bisogni e delle potenzialità da ricostruire sulla base delle considerazioni di chi ha vissuto l’esperienza in prima persona.

L’interpretazione sociologica che ho attuato delle storie di malattia eterovissuta ritengo pertanto che costituisca una dimostrazione scientifica accettabile dell’importanza (e complessità) della dimensione umanizzante delle cure quando realizzata in maniera partecipativa.

Un concetto implicito espresso nelle tante pagine in cui hanno riecheggiato le voci dei partecipanti è che, nelle situazioni in cui ciò sia possibile e in cui la dinamica non arrechi danno a chi già soffre della patologia e dell’apprensione, a tutti i componenti di un nucleo familiare dovrebbe essere dato modo di partecipare alla gestione della malattia grave che ha colpito uno dei membri.

La patologia è ‘affare’ di uno e di uno solamente, ma la rottura biografica è di tutti, così come le sue implicazioni anche rispetto all’educazione morale di coloro a cui è dato modo di aiutare chi si fa carico della parte sostanziale della cura.

“Se ben educato e coinvolto nel team di cura, il caregiver può effettivamente supplire a funzioni importanti, che al momento risultano non sufficientemente assolte dal Sistema Sanitario Nazionale per motivi organizzativi ed economici”, sostiene Graffigna (2018:99). Certo, tutta l’interessante trattazione che l’autrice sviluppa intorno al concetto di engagement non ragiona in termini generazionali e, proprio per questo, essa appare come una stimolante opportunità di un approfondimento ulteriore da realizzarsi con un intervento di ricerca dedicato.

162 Discorso d’apertura de: “Il diritto “partecipato” alla salute. Bambini, adolescenti e adulti tra protezione e

partecipazione.” Convegno organizzato da LABSIA (Laboratorio Salute Infanzia Adolescenza) dell’Università del Piemonte Orientale, Alessandria, 24 novembre 2017.

190 Per Graffigna (2018:98) “L'engagement del caregiver nel processo di cura può essere definito come la sua capacità di cercare attivamente informazioni legate alla salute e alla cura del proprio assistito e di partecipare nella condivisione delle scelte terapeutiche. Il ruolo attivo del caregiver va considerato anche nel processo di decision-making condiviso relativo alla pianificazione delle attività quotidiane e di vita del malato.”

In conclusione, appare allora legittimo chiedersi: non è tutto ciò deducibile da quanto riportato da molti dei ragazzi e delle ragazze intervistate? Non sono forse le innumerevoli esperienze descritte nelle narrazioni delle peculiari forme di un engagement che da disconosciuta potenza può divenire un significante atto?

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