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L’infanzia nella sociologia classica 1 Infanzia e funzionalismo

Capitolo III: Quadro teorico per la dimensione “infanzia”

3. L’infanzia nella sociologia classica 1 Infanzia e funzionalismo

Il modello funzionalista – sostiene Mayhall (2013:6) manifesta un’interpretazione dell’infanzia come di uno stadio presociale da cui consegue per i bambini uno status che non può che essere secondario e assoggettato al potere degli adulti.

Ovviamente si tratta di una narrazione che preserva il controllo del potere da parte di chi attualmente lo detiene. È anche per questo che la nobodyness sociale dell’infanzia non è mai stata considerata dalla sociologia classica come una contraddizione da risolvere – o per lo meno da problematizzare. Ed è anche per questo che essa viene trattata in maniera marginale da un cardinale della teoria sociologica quale il determinismo normativo parsonsiano secondo cui le società organizzate in sottosistemi integrati persistono mediante ruoli che i bambini devono apprendere soprattutto attraverso la famiglia e la scuola (Satta, 2012:12).

Tuttora, la società adulta continua a ri-produrre una cultura dominante dell’essere bambini che perpetua il mito dell'infanzia come ‘età dorata', mascherando – come afferma Ronfani – “una coltre di paternalismo e di sentimentalismo” che legittima l’esclusione dell’infanzia-adolescenza dalla vita sociale attiva, nonché “la sua oppressione da parte delle agenzie preposte alla sua cura e alla sua educazione” (1995:34).

La sociologia oltre a essere scienza umana è anche scienza di esseri umani, i quali spesso sono anche genitori, che – in coerenza con le prassi passivizzanti diffuse dei

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rispettivi quotidiani – hanno molto di rado espresso interesse rispetto ai bambini come soggetti di studio in sé; questo per lo meno fino allo sviluppo delle teorie e ricerche afferenti ai cosiddetti New Childhood Studies (Alanen e Mayall, 2001:126), di cui si tratterà al par. 4.1.

Alanen et al. (2015:18) – tra i precursori della Nuova Sociologia dell’Infanzia, come la definisce Satta (2012:16) – evidenziano come nella sociologia tradizionale la preoccupazione principale sia stata più che altro riguardo il come collocare i “piccoli oggetti insoliti” di Sirota (2010:58) all'interno della sociologia, piuttosto che perseguire gli studi sui bambini come un sotto-tema degno di un interesse specifico.

Lungo la stessa direttiva di pensiero è anche Mayall (2015:19) che considera la sociologia “mainstream” come una disciplina che guarda agli adulti come ontologie in quanto soggetti completi, e ai bambini come epistemologie, perché progetti ancora incompiuti di una socializzazione che intrinsecamente è tuttora in corso.

Non a caso, Prout (1998:12) fa riferimento alla metafora dei bambini come topi di laboratorio, in quanto soggetti alla costante mercè di stimoli imposti dall’esterno a cui devono reagire in modo conforme, impiegando come unico orientamento possibile quello che viene indicato dagli adulti mediante una serie progressiva di input. Se – e solo se – i bambini reagiscono a questi input in maniera ritenuta adeguata, alla fine ricevono il riconoscimento del loro essere diventati soggetti adulti, e soggetti sociali.

Montadon51 sottolinea al proposito come lo studio dell'infanzia e dei bambini sia

rimasto a lungo “intrappolato, concettualmente e teoricamente” nell’attenzione esclusiva al percorso di socializzazione, nel modo in cui questo viene convenzionalmente inteso e cioè un processo finalizzato alla trasformazione dei bambini da esseri a-sociali in esseri sociali. Anche Qvortrup et al., nell’introduzione dell’esaustivo The Palgrave Handbook

of Childhood Studies (2009: 5) evidenziano come il modello di socializzazione che

definiscono “convenzionale” altro non sia che la comprensione dello sviluppo del bambino osservato da un’ottica puramente funzionalista.

Prout (1990: 60), al proposito sostiene che la narrazione “classica” della socializzazione dell’infanzia produce e si richiama a meccanismi funzionalisti, attraverso i quali vengono trasmesse conoscenza, consapevolezza e modalità attuative inerenti i ruoli sociali che devono essere interiorizzati e replicati, qualora si voglia completare il percorso di preparazione alla vita da adulti da condursi nel futuro.

Si tratta di un’interpretazione – classica ma tuttora dominante – del come gestire l’infanzia e ad essa rapportarsi, che Qvortrup definisce “un approccio anticipatorio” (2009:36) alle relazioni con i bambini i quali – sostengono Sloper e Turner (1992: 278) – vengono così ridotti al ruolo di precursori di soggetti adulti, più che dei soggetti attuali.

A questo proposito, Lee (2001:40) critica anche che rispetto alla sociologia più classica e autorevole – dal Talcott Parsons di “Social Structure and Personality” (1964: 208) in poi – il percorso lineare di socializzazione dell’infanzia sia considerato un processo proteso a salvare52 il bambino dall’incompletezza della natura. Ma soprattutto,

sottolinea Lee, esso costituirebbe una rete di sicurezza per la società, tutelandola rispetto al disordine e alla decadenza che risulterebbero da quell’incompletezza intrinseca all’infanzia, qualora questa non venisse imbrigliata nei ruoli e nelle funzioni che il sistema prescrive e fa applicare, soprattutto mediante il sottosistema della famiglia e quello della scuola.

51 Citata in: Alanen, L. e Mayall, 2001:54.

52 Appare significativo che l’autrice impieghi il termine “rescue” più rafforzativo del concetto che vuole

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Si tratta – come lamenta Mayall (1998:270) – di un unilaterale processo riproduttivo, nell’ambito del quale i bambini imparano le regole – norme – atte a far vivere in maniera adeguata la vita adulta e quindi a vedersi inclusi in un gruppo sociale.

Le narrazioni dell’infanzia che hanno trovato conferma, consolidamento e ulteriore legittimazione con il funzionalismo sono – purtroppo – ancora attuali e tuttora riconducono alle rappresentazioni dell’infanzia che, per quanto contradditorie, per quanto criticate in maniera convincente, hanno continuato ad avere prevalenza, nonostante gli oggettivi apportati nella sociologia dal modello costruttivista.

3.2 Infanzia e costruttivismo

Su un piano teorico più sofisticato, fondato per esempio su un riconoscimento della differente specificità sociologica di bambini e adolescenti, numerosi autori hanno adottato modelli costruttivisti con cui hanno promosso una maggiore analisi e problematizzazione del dibattito sulla socializzazione, sui suoi meccanismi, sui ruoli al suo interno.

Da ragionamenti di natura costruttivista, sono infatti state sviluppate teorie come quella dello sviluppo cognitivo di Piaget (1996) o – ante-litteram – la teoria socioculturale dello sviluppo di Vygotskij (1992) nell’ambito delle quali, l’aspetto normativo dei meccanismi di socializzazione permane, ma le competenze e le conoscenze – anche ma non solo di norme e di valori – vengono acquisite dai bambini sulla base delle proprie abilità e individualità e mediante la ‘costruzione’ dei contesti resa possibile dalla relazione con gli altri individui.

Con il costruzionismo si comincia a compiere un riconoscimento di competenze individuali che evolvono per stadi sulla base alle specificità dei singoli e che, pertanto, non sono determinate integralmente dai sottosistemi deputati alla sua socializzazione, né vengono definite in modo indifferenziato e unilaterale dai sottosistemi a cui tale funzione viene attribuita.

In questo ambito, con riferimento alle compatibili interpretazioni di autori anche molto diversi per approcci e interessi53, è utile ricordare Belotti e Ruggiero (2008: 31) quando sottolineano che le competenze non sono soltanto sensibili a fattori individuali quali l’età, ma anche a fattori strutturali, culturali e relativi al contesto relazionale in cui si compongono le azioni.

La visione del mondo sociale dalla prospettiva dei bambini, con il costruzionismo evolve così in modo significativo: la vita e il percorso dell’infanzia e adolescenza acquisiscono complessità, flessibilità, circolarità e finalmente si inizia a concepire le caratteristiche del bambino come quelle di un attore sociale (Favretto et al., 2017:26).

Ne consegue che in molti contesti sistemici la percezione dell'infanzia inizia a cambiare; è quello che accade in modo emblematico ed esplicito soprattutto nell’ambito del sistema scolastico in cui, un diverso modo di intendere l’infanzia ha comportato l’introduzione di innovative modalità per l’espletamento della didattica.

Rispetto a una maggiore e migliore comprensione di bambine, bambini e adolescenti, ci si è però dovuti scontrare con i valori, le norme e le rappresentazioni di una cultura dell’infanzia dominante da almeno tre secoli.

Nonostante l’esperienza costruttivista abbia rappresentato in materia un innegabile passo avanti, nel quotidiano di famiglie e comunità, la considerazione tradizionale dei bambini come ricettacoli di debolezze, vulnerabilità e mancanze è rimasta prevalente (Lupton, 2012:15).

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In generale, quale che sia la rappresentazione di riferimento, il bambino ha continuato ad essere oggetto di intense e pervasive attività di sorveglianza, di misurazione, di monitoraggio. Il fine sistemico, anche secondo Lupton (2012:17), è rimasto quello di assicurare che tanto la sua crescita fisica, quanto quella intellettuale, segua il processo di socializzazione normalizzante che il dominante sistema di valori ritiene auspicabile, così da garantire che i soggetti ancora incompleti e immaturi divengano in grado di intendere, di volere, di agire.

In tal modo, come tratta diffusamente Mayhall54, per lungo tempo e con grande efficacia, la rappresentazione dei bambini come attori sociali è stata negata in virtù di un’immaturità che, nonostante costituita da un mero fatto biologico, viene estesa all’identità dei bambini nel suo insieme, determinando connotazioni relazionali che invece altro non sono che costruzioni sociali (Prout, 2005:56).

Ne risulta una gerarchia sancita come tale anche sul piano morale, la quale delinea un orizzonte di senso in cui l'adulto trova una solida base per giustificare la presunta incapacità dell’infanzia e le conseguenti discussioni su quale sia l'età più appropriata a partire dalla quale, un soggetto possa svolgere un determinato compito (Zeiher, 2001:38). Di riflesso, per lo stesso motivo, viene legittimata anche la soglia di età, al di sotto della quale, i soggetti debbano essere esclusi non solo dal sociale, dal politico e dall’economico (Ronfani, 1995:34) ma addirittura anche dalla sfera relazionale primaria, quando si ritiene che la situazione lo renda necessario.

Sarebbero questi ultimi, quei casi in cui, una famiglia si trova ad affrontare una questione ritenuta troppo complessa, troppo dolorosa, troppo inadatta per i membri più giovani, come ad esempio sembra accadere di fronte alla gestione della malattia grave di un parente significativo.

3.3 Infanzia e adultocentrismo

Il riconoscimento dominante dell'infanzia come implicitamente incompetente è la ragione fondante, nonché l’effetto concettuale più strutturale, del cosiddetto adultocentrismo (Hutchby ed Ellis 1998:15).

Con questo termine si intende la concettualizzazione di bambini e adolescenti con cui ci si pone verso i limiti dell’infanzia (ritenuti significativi) e le sue potenzialità (ritenute marginali), facendo riferimento esclusivamente ai parametri valoriali ed esperienziali caratteristici dell’età adulta.

Si tratta di un approccio che si può considerare – con diversi gradi di dogmatismo – trasversale a tutti i modelli della sociologia classica e che annovera – tra i suoi effetti più rilevanti – l’implicita discriminazione corrispondente a quello che può essere definito “ageism” (Ronfani, 1995:49), il quale si esplicita nell’interpretare (e valutare) tutto ciò che il bambino fa e/o subisce solo nei termini di come e quanto questo influisca sul suo percorso verso il raggiungimento dell’età definita ‘adulta’ (Lee citato in James, 2009:35). Le vite dei bambini – in tal modo – continuano ad essere ‘pre-viste’ come una mera preparazione per il domani (James, 2009:35), ignorando ciò che il loro coinvolgimento – o la sua latenza – implichi nell’oggi, tanto per bambine, bambini e adolescenti, quanto per i soggetti con cui essi interagiscono.

Favretto si riferisce all’approccio adultocentrico come “evolutivo” (2019:49) in quanto ne critica la centratura paradigmatica su una visione lineare dell’esistenza e della socializzazione, che a sua volta riproduce una rappresentazione dell’infanzia secondo cui

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“i bambini sono riconosciuti come soggetti dotati di competenze ma (solo) in funzione del progressivo passaggio verso l’età adulta: human becomings invece di human beings” (Favretto et. al., 2017:50).

L’incompetenza è intrinseca alla giovane età e, di volta in volta, i bambini devono provare di non essere affetti, dovendo dimostrare di essere in grado di intendere, di volere, di capire. È il contrario di quanto avviene per gli adulti che nella prassi – fino a prova contraria e certificata – sono ritenuti competenti e capaci, in grado di esistere autonomamente e di autodeterminarsi appieno.

Il concetto di competenza in sociologia dell’infanzia ha costituito per lungo tempo uno snodo di non semplice gestione in quanto, man mano che anche gli approcci costruttivisti venivano superati, permaneva – come criticato da Favretto et al. (2017:47) – l’inopportuna definizione del concetto di ‘competenza’ come sinonimo di ‘capacità’ e di ‘abilità’.

A questo proposito, risulta invece dirimente la definizione secondo cui sarebbero da considerarsi competenze quegli “insiemi di risorse intrapersonali e interpersonali, dalla natura mutevole e contestuale, che il soggetto apprende, trasforma e utilizza nelle differenti situazioni.” (Favretto et al. 2017:99).

Sempre in linea con Favretto et al. (2017:62 e 99) si possono assumere le competenze come gli elementi costitutivi da cui prende forma il concetto di agency dell’infanzia, la quale si struttura sulla base delle risorse e dei vincoli che connotano i contesti in cui bambini, bambine e adolescenti costruiscono e praticano le loro interazioni quotidiane.

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