Capitolo IV: L’agency dell’infanzia nelle relazioni di cura
3. Incontrarsi oltre la soglia: la comunicazione intra-familiare della malattia “Di fronte alla malattia non bisogna tacere, bisogna sapere cosa dire.
È la capacità di com-prendere, nel senso di prendere e tenere dentro di sé i pensieri e le parole, elaborare, e poi, solo poi, dire.”73
72 Lizzola, 2008, ibidem.
73 Alessandro Bergonzoni nell’editoriale di Hospes, 2016, Anno XI, Numero 25, Fondazione Seragnoli,
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Per quanto il fronte tematico della comunicazione non sia l’unico possibile o auspicabile per sviluppare una proposta teorica che integri le dimensioni concettuali di ‘infanzia’ e ‘salute’, per certi versi esso ne costituisce uno degli snodi più paradigmatici, una delle questioni più concrete, nonché uno degli ostacoli più difficili da superare.
Il parlare apertamente del proprio cancro con i familiari e le amicizie più importanti, rafforza l’identità del malato e indebolisce la stigmatizzazione legata alla malattia. Finanche sul piano terapeutico, ciò riduce alcuni degli effetti negativi che la patologia comporta (Mathieson, 1995:287). Ciò nonostante, è raro che in famiglia si comunichi con i più giovani della malattia di uno dei propri membri, soprattutto quando la patologia è grave, quando essa giunge inattesa e/o nelle situazioni in cui viene considerata ‘precoce’.
Quanto è opportuno che venga condiviso della salute, della malattia, delle cure e dei loro effetti, viene infatti definito da ciò che la cultura dominante stabilisce come appropriato e che, come trattato in precedenza, risulta molto limitato – nel volume e nel dettaglio – da quanto si ritiene il bambino possa metabolizzare senza farsi male.
Sostiene Iseppato (2009:46) – già da diverso tempo – che “il complessivo riadattamento familiare (alla malattia) non possa escludere nemmeno i membri più giovani. Proprio perché estremamente sensibili ad ogni mutamento nell’atmosfera domestica, traggono anch’essi giovamento da una comunicazione aperta e veritiera con i genitori, ancorché calibrata sulle loro capacità di comprensione, circa quanto sta accadendo.”
Rispetto al termine ‘comunicare’, le interpretazioni etimologiche sono numerose e suggestive. Per quanto talvolta differiscano nel dettaglio, esse sono concordi nell’imputare un’intima correlazione con gli aspetti di ‘condivisione’, ‘co- costruzione’, ‘coinvolgimento.’ Anche per Lizzola (2002:60), l’aspetto di reciprocità – interattiva ed educativa – caratterizza (o dovrebbe caratterizzare), la comunicazione con il familiare malato, contraddistinguendola dall’unidirezionale flusso caratteristico della ‘trasmissione’ di informazioni.
Appare innegabile che il comunicare implichi un’agentività multilaterale, nonché il riconoscimento di una maggiore rilevanza dei ruoli e delle responsabilità dei soggetti in causa. Per essere ‘comunicato’, qualcosa non può essere solamente ‘detto’: è necessario che sia anche ‘compreso.’ Nel momento in cui questo avviene, nel momento in cui una nozione può dirsi condivisa, il patrimonio del sapere comune aumenta e la cultura può considerarsi come co-costruita da parte di tutti soggetti che sono stati coinvolti nel processo.
In materia di relazioni di salute, spesso questa co-costruzione viene ostacolata da una reticenza incline più a ‘trasmettere’ che a ‘comunicare.’ Come evidenzia anche Smith (1990:106), tanto più ci si trova ‘vicini alla morte’, tanto più “i famigliari si sforzano di trattenersi dal mostrare di essere arrabbiati, oppure tristi per ciò che sta accadendo, temendo di non avere il diritto di fare così perché sono atteggiamenti che produrrebbero angoscia in sé, negli altri e nel paziente.”
Secondo Elias, infatti, “la difficoltà nell’affrontare con i bambini il problema della morte – o per estensione della malattia a cui essa può condurre – sta più nel come se ne parla che in quello che si dice loro” (1985:37). L’ostacolo, che spesso appare insormontabile, è che gli adulti che evitano di parlarne ai loro figli temono, purtroppo a ragione, di trasmettere loro le proprie angosce e paure. Il rischio sussiste per via della difficolta del compito e delle spesso deboli competenze relazionali in materia;
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ciò nonostante andrebbero anche soppesate con attenzione le conseguenze del non farlo.
Non si vuole, con queste argomentazioni, disconoscere l’oggettiva complessità di una comunicazione di questa natura: sedersi con il proprio figlio e dirgli che la mamma ha un tumore e che dovrà affrontare un percorso lungo e doloroso di terapia, non è semplice, soprattutto per quanto riguarda la scelta delle modalità che si intende a dottare per darvi seguito.
Nelle parole di Elias (1985:36): “obbedendo all’oscura sensazione che i bambini possano esserne danneggiati, nascondiamo loro gli eventi naturali della vita, che dovranno in seguito inevitabilmente conoscere e capire.” L’atteggiamento adottato dalla famiglia di fronte al problema grave di salute di uno dei suoi membri è paradigmatico della riluttanza ad ammettere, ad accettare, la malattia come parte ‘normale’ del vissuto di un individuo e – in parallelo – l’infanzia come gruppo sociale in grado di contribuire alla co-costruzione del senso condiviso.
Indipendentemente da come lo si gestisce o da come lo si evita, sottolineano Favretto et Al. (2017:13), “il coinvolgimento collettivo nella vita con la malattia è uno tra gli indicatori del fatto che le patologie e l’essere ammalati non sono condizioni meramente individuali, semplici espressioni fisiche di alterazioni biologiche, quanto fatti sociali complessi, i quali coinvolgono contemporaneamente elementi di ordini strutturale e culturale, in particolare i sistemi di valore, le norme, le rappresentazioni sociali, le cognizioni e i contenuti dei saperi, le pratiche di cura e le relazioni.”
Attraverso una comunicazione che possa dirsi veramente tale, identità e soggettività diverse entrano in contatto e realizzano uno scambio di significati (Elia, 2004:294) che porta a e permette di costruire un senso condiviso modificandosi a loro volta. Lo scambio e la co-costruzione di senso che è da compiersi vanno intesi come bi(multi)-laterali, in quanto le concezioni del sé che fondano l’identità – nelle parole di Cicognani, 1999:36) – vengono “agite nell’ambito delle relazioni di ruolo e sono impiegate per descrivere se stessi. Poiché le identità definiscono chi si è, esse sono la fonte di significato esistenziale e forniscono uno scopo e un senso di direzione nella vita…. accompagnate da aspettative normative circa i comportamenti appropriati per il ruolo, esse rappresentano una guida per il comportamento.”
Per questo motivo, in linea con Zucchermaglio et Al. (2012:34), sarebbe opportuno considerare l’aspetto dinamico dell’identità individuale, il quale è dovuto al suo stretto legame con una produzione narrativa che è in costante evoluzione, soprattutto intorno alle questioni che generano e caratterizzano le fasi più significative dell’esistenza.
Come descritto nel primo capitolo, la comunicazione intra-familiare riguardo la malattia, viene determinata dall’orientamento indicato dal desiderio di proteggere coloro che amiamo dalla nostra sofferenza, soprattutto i soggetti più giovani. Perché, prima di tutto, si intende proteggere bambine, bambini e adolescenti da se stessi nel momento in cui si trovano di fronte alla fragilità esistenziale (propria e altrui), anche a costo di mentirgli o di omettere importanti pezzi di verità.
La sostanza di quanto sta accadendo in famiglia però non cambia: di fronte a una malattia grave come il cancro, che altera e inter-rompe la biografia di tutta la famiglia, il ‘non dire’ e il ‘non mostrare’ costituiscono comunque una comunicazione: che lo si voglia o no, i messaggi vengono tacitamente emessi e condivisi, incuranti o indifferenti degli esiti suscitati e senza prevedere possibilità di feedback alcuno da parte dei riceventi.
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Parte sostanziale di questo discorso conduce di fronte al concetto di quanto e di cosa durante l’infanzia e adolescenza si sia capaci di capire e di agire, soprattutto in situazioni di crisi. Necessariamente, nel momento in cui, il modello dominante di relazione con i bambini decreta che questi, oltre a essere più vulnerabili, non siano in grado di gestire situazioni e comunicazioni ad esse inerenti, questa reticenza diventa strutturale e assume gli stilemi di un dogma che delimita e limita lo spazio di manovra riconosciuto all’infanzia sulla scena della cura.