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Cornice ‘Significazione’: attribuire significato alla malattia eterovissuta

Capitolo VII Tra coinvolgimento e marginalizzazione: analisi empirica di genesi, natura ed effetti dell’agency infantile sulla scena di cura

3. Cornice ‘Significazione’: attribuire significato alla malattia eterovissuta

A fini non solo espositivi, la cornice inerente le narrazioni inerenti l’attribuzione di significato alla malattia eterovissuta è stata denominata della ‘significazione’, in quanto con il termine si intende richiamare una correlazione tra il significante ed il significato dell’elemento fondativo degli eventi narrati.

Gli intervistati, in modo diretto e indiretto, hanno dedicato molta attenzione a tale correlazione decidendo di condividere concetti riguardo il senso che per loro ha rivestito e riveste il cancro del familiare ed estendendo spesso il ragionamento a ciò che la malattia di un congiunto importante comporta in generale.

3.1 La malattia tra consapevolezza sospesa e consapevolezza attiva

I ragazzi e le ragazze che hanno partecipato a questa ricerca, sono stati consultati a

posteriori riguardo un loro passato vissuto, nonché sulla base della loro accettazione a

condividere pensieri ed esperienze riguardo a una vicenda conclusa (talvolta da molti anni) del cui accadimento sono stati – a qualche stadio - informati.

Nel corso dei colloqui – come era prevedibile – è emerso che tutti/e erano consapevoli delle grandi linee di quanto accaduto e – su tali basi – avevano stabilito la loro ‘idoneità’ ad essere parte del campione teorico per la ricerca. Nel concreto però, tale livello di consapevolezza tanto sostanziale, quanto concettuale, è stato tutt’altro che uniforme.

Con consapevolezza ‘sostanziale’ faccio riferimento al livello di conoscenza delle informazioni riguardo a quanto accaduto sul piano sanitario al proprio familiare con riguardo alla malattia e alle sue implicazioni non solo di natura medica. La rilevanza dell’elemento inerente quanto sapessero della dimensione clinica del familiare consta nel livello di cognizione di causa che mi ha permesso una migliore ‘pesatura’ delle informazioni inerenti le due cornici del coinvolgimento favorendo una più efficace interpretazione di quanto al loro proposito poi è stato narrato.

Con consapevolezza ‘concettuale’ invece, compio un adattamento della categorizzazione tripartita che Marzano (2004:123) impiega nel suo studio etnografico sui malati di cancro, secondo la quale, una consapevolezza può essere di tipo sospeso, di tipo attivo e di tipo incerto.

L’adattamento del modello è necessario in quanto l’autore, innanzitutto, impiega la categorizzazione trattando della consapevolezza di chi ha contratto la patologia, non di chi la eterovive e, in secondo luogo, compie esclusivo riferimento a un caso di studio costituito da situazioni con malati terminali.

Nonostante queste differenze, per quanto riguarda le prime due dimensioni, la concettualizzazione è risultata ugualmente aderente a quanto condiviso dai miei intervistati, soprattutto riguardo ciò che essi hanno esperito al tempo della rottura biografica, ma anche riguardo quanto di essa si sia sedimentato a livello di conseguenze percepite.

Partendo dal presupposto che tutti i soggetti erano a conoscenza della situazione di salute del congiunto, con riferimento a una malattia eterovissuta, mi sono trovato di fronte a una consapevolezza ‘sospesa’ quando la prognosi, pur condivisa, non è stata accettata dal soggetto nel suo portato complessivo.

“Sì, la mamma aveva il cancro. Dai! Però diciamo che non è stato molto disastroso. Non vorrei cadere nell’offensivo però un cancro non è qualcosa di catastrofico. Vabbè si rischia di morire e poi ci vuole un’operazione, ok. Ma, nel mio caso, non è che ho visto mia madre sulla barella con quattro tubi piantanti e attaccata a un macchinario per vivere. Ha sofferto di un cancro, ma di flebo ne ha avuta solo una e solo quando era ancora sotto anestesia.” (L2*, uomo, 10 anni all’epoca, figlio)

118 Ragionando per frammenti in maniera decontestualizzata rispetto quanto invece espresso nel resto dell’intervista, più che sospesa, l’affermazione di L2* si potrebbe ricondurre alla consapevolezza di un individuo considerabile ‘incurante’ o ‘ignorante’: incurante di tutto ciò che in seguito alla malattia sarebbe potuto accadere e ignorante le implicazioni della patologia in sé e delle terapie per essa necessarie.

L2* invece – come emerge in altre sue elaborazioni riguardo questa e altri cornici – ha dimostrato in primis un evidente attaccamento affettivo alla madre in generale, nonché anche un livello di attenzione molto alto rispetto alle condizioni in cui ella ha versato e versa, dell’aiuto che necessitava e necessita tuttora, nonché delle implicazioni cliniche della patologia nella vita di tutti i giorni. L’impressione quindi che se ne è avuta, è che L2* sapesse benissimo – contrariamente a quanto verbalizzato – che di catastrofico, nelle condizioni cliniche della mamma, c’era parecchio, ma allora come ora – a distanza di 5 anni – fatica ancora ad esplicitarlo e a riflettervi sopra.

“Nell’insieme sta storia del cancro, è stata una cosa che mi ha fatto pensare, perché – vedi – con l’operazione che ha subito, fossimo stati qualche anno prima, avrebbe dovuto fare una terapia molto diversa, molto più lunga e dolorosa. Non sarebbe potuta tornare a lavorare un anno dopo, ma molti anni dopo. O forse mai più. Era una roba seria.” (L2*, uomo, 10 anni all’epoca, figlio)

In molti degli altri soggetti, invece l’accettazione effettuata è definibile come ‘attiva’ in quanto piena e cosciente rispetto alla malattia specifica che ha colpito il familiare e a una sua collocazione in una dimensione esistenziale d’insieme.

“Il modo di rapportarsi allo star male, dipende dalla malattia. Se uno ha un problema grave come il tumore, io la vedo in modo molto diverso da uno che si ingessa il braccio. È sicuramente più grave, più gravi le conseguenze. Bisogna capire se la malattia è curabile e, se lo è, come curarlo, se c’è un’operazione, se è facile o se è difficile… Sono tutte cose che cambiano il modo di vedere la situazione di volta in volta. Mio padre ha dovuto fare due operazioni (NDR: è in seguito alla seconda che è deceduto) e, pensa che io ero più preoccupato per la prima che per la seconda! La prima volta i medici ci avevano detto <questa è complicata, quella che faremo dopo, sarà un po' più facile.> Per questo, due anni dopo, ero abbastanza tranquillo. Solo che poi sono venuti i problemi per delle complicazioni. È che dipende da tumore a tumore. Nonostante quello che è successo, io adesso la malattia la vivo in modo abbastanza tranquillo. In generale, se uno si ammala, si ammala. Non può farci niente, non è colpa sua. È il destino. Non è neanche questione di avere paura. Ricordo come faceva mio papà prima con la nonna, la sua mamma. Lui ci scherzava quando lei è stata male, lo faceva per sdrammatizzare. Poi è successo a lui quel che è successo: il contrario e noi ci siamo detti che non c’entra l’età; ciò che conta è il destino e quello che ha previsto per te. Quindi, se uno si deve ammalare, si ammala. Non c’è niente da farci, non è colpa di nessuno. È la vita!” (L1*, uomo, 13 anni all’epoca, figlio)

Tra gli intervistati, tra cui tutti quelli la cui patologia del familiare ha avuto un esito infausto, è risultato condiviso questo tipo di interpretazione che solo una lettura superficiale potrebbe definire ‘fatalistica.’ Al contrario, infatti, le consapevolezze emergono sono considerabili come ‘attive’ in quanto caratterizzate da una rappresentazione della malattia come parte integrante della vita.

“La malattia è un dato di fatto, non una disgrazia come la chiamano molti! Siamo qui che parliamo di una malattia grave e un cancro è davvero una gran brutta cosa, certo, però non è che avviene per disgrazia. Una disgrazia è un’altra cosa: tipo l’adolescenza quella sì è una disgrazia (ride). La malattia è un fatto della vita. È vero che è un’esperienza fuori dalla vita normale, però è anche vero che ci sono molte persone che soffrono di questo tipo di malattie,

119 quindi ormai – è brutto da dire – ma nelle vite di molte persone queste malattie sono presenti, quindi io penso che comunque, non bisogna farsi influenzare o sopraffare. Bisogna affrontarle!” (G1*, donna, 9 anni all’epoca, nipote)

3.2 La malattia dicibile e la malattia non detta

La commistione tra i tabù culturali inerenti la malattia e il rifiuto della stessa come elemento del quotidiano, congiuntamente alla rappresentazione dionisiaco-apollinea dell’infanzia121 costituiscono il primario ostacolo all’affrontamento che auspica G1*

Per alcuni, l’eterovissuto della malattia è avvenuto con relativa serenità, almeno nelle fasi iniziali, grazie soprattutto all’avvenuta condivisione. “La malattia di mia madre non rientrava tra i tabù. Non era considerata un fatto solo suo. Non era considerata un fatto loro, ma bensì un fatto di famiglia. Chiaro che era lei ad essere ammalata, poveretta. Però io penso che quando un familiare è ammalato, diventano ammalati un po' tutti.” (N1*, uomo, 12 anni all’epoca, figlio)

Sullo stesso piano, la sensazione che è rimasta in seguito (in alcuni casi a distanza di anni) è stata di una malattia come evento aggregante e unificante: “mi ricordo esattamente quando l’abbiamo saputo perché era il giorno del mio compleanno che è il 29 dicembre. Infatti siamo stati tutti assieme fin dall’inizio su sta cosa. La mamma andò a fare la visita, la mammografia e l’hanno visto in quel momento. La sera dovevamo andare al cinema, solo che la visita era comunque tardi, quindi siamo andati là e poi saremmo andati al cinema. Ma si cambiò il programma visto l’esito e mi dissero subito perché. Del resto eravamo tutti con lei a fare la visita. Tutti e quattro: anche mio fratello piccolo. Quando è uscita dal dottore ce l’ha spiegato lui a tutti insieme in quel momento.” (I1*, donna, 11 anni all’epoca, figlia)

Sul piano opposto, le condivisioni che hanno invece espresso insofferenza per l’alone di indicibile che continua a influenzare qualsiasi comunicazione e rappresentazione inerente il cancro sono state molteplici: “A me sta cosa che la parola tumore non si potesse neanche pronunciare non è mai andata giù. Non capivo perché, mentre io volevo capire di più. Non ero una bambina (sorride). Cioè… non ero piccolissima, ero più grande di mia sorella, comunque! Ma niente. E io non sapevo cosa pensare di sta malattia che faceva stare così male mio padre. Ho dovuto aspettare qualche anno, diventare più grande e cercami le risposte da sola. Non mi sembra il massimo.” (M4*, donna, 9 anni all’epoca, figlio)

“Dell’inizio io ricordo un gran panico. Pensavo che mia madre sarebbe morta e il perché non era chiaro, non era chiaro cosa avesse. Non sembrava forse chiaro nemmeno a loro quello che avesse e con quali modalità. Ma di quella fase in cui non sapevo della malattia precisa, mi è rimasta un’angoscia…” (R1*, donna, 15 anni all’epoca, figlia)

“Non se ne può parlare, capisci? No, no, no! Mica dirlo! Mica parlarne! È brutto da dire, è brutto! Perché lo nomini? Perché ci fai diventare tristi? È meglio pensare a cose felici! Se provi a parlarne, se provi a capire, ti dicono ste cose qui. Ma ti sembra possibile potersi girare dall’altra parte perché è una cosa brutta? Ti sembra possibile non parlare di qualcosa perché ti fa sentire triste e quindi non ci pensi e quindi non ne parli? A me no. Poi sai che viaggi ti fai sulla malattia?” (G1*, donna, 9 anni all’epoca, nipote)

La confusione, come la contraddittorietà e, soprattutto, come la latenza di informazioni comprensibili inerenti la patologia è alla base della riproduzione dell’alone di mistero in cui spesso finisce relegata la malattia e il suo portato. Causa ed effetto della riproduzione concettuale dell’adultocentrismo biometrico, ciò consolida la posizione di potere occupata dagli esperti nel regime di monopolio culturale e valoriale trattato in varie parti del capitolo IV.

120 Sul piano interpretativo e su quello decisionale, secondo questo modello, la malattia non può che rimanere una materia per i soli medici, sia in quanto esperti, sia in quanto adulti. Cosicché, la compliance che gioco-forza viene richiesta rende necessaria una compartecipazione dei soggetti direttamente interessati, ma rimane NON alla portata dei soggetti più giovani del contorno relazionale del malato e del caregiver; l’inadeguatezza di questi, che ne comporterebbe l’esclusione, sarebbe attribuita alla presunta incapacità e impreparazione rispetto alla gestione delle difficoltà della vita in generale, che ne giustificherebbe il forzato ammutolimento.

Ancora una volta – per richiamare il miliare lavoro di Ennew (1994:126) – zittendone le voci, negandone la personalità, i bambini contemporanei vengono costruiti socialmente fuori dai sistemi di relazione che li caratterizzano.

3.3 La malattia eterovissuta in adolescenza

È innegabile, che quando una malattia grave colpisce un familiare di riferimento, oltre alla rottura biografica della famiglia – la quale verrà approfondita nel prossimo paragrafo – il contraccolpo individuale è intenso.

Per dirla come Lizzola, (2002:89) “è particolarmente duro per i ragazzi il confronto con la vulnerabilità e l’incertezza: avviene nel momento della scoperta del proprio corpo (che diventa) desiderante e quindi mortale”, soprattutto quando questo avviene in una fase in cui questi assi tematici danno già il loro complesso daffare.

“Per una che è molto giovane, scoprire di punto in bianco che una persona così vicina sta male, sicuramente è molto più tosto. Non dico che fa dei danni, però colpisce duramente, soprattutto nel caso di un genitore. Tu i genitori li vedi sempre come invincibili, immortali. Poi nel momento in cui questa tua certezza vacilla, non hai più un punto fermo, non sai neanche come comportarti.” (S1*, donna, 16 anni all’epoca, figlia)

L’aspetto trova sottolineatura anche da parte di Favretto et al. (2017:108), secondo cui mentre viene condotto il processo di cura, prendono anche via “trasformazioni dell’identità (e) mutamenti nell’immagine di sé, nel giudizio verso se stessi e verso gli altri (che sono) significativi.”

“La malattia della nonna è stata una gran botta. Come ti raccontavo, praticamente vivevo con lei, era soprattutto lei a prendersi cura di me, prima. Quando ha iniziato a stare a letto e io non capivo bene perché con i miei è stato un casino. Io ho iniziato a sentirmi un peso per lei, per loro. E i miei, guarda… (sorride e scuote la testa). È che a 14 anni è sempre un casino, solo che dopo un po' mi sembrava che nessuno si interessasse più a me. Adesso mi rendo conto delle loro difficoltà, non ce l’ho con loro. Però se mi avessero spiegato meglio cosa aveva allora, subito, forse sarebbe stato più facile. Forse gli avrei rotto meno le scatole!” (G3*, donna, 14 anni all’epoca, figlio)

In parte per maggiore reperibilità del campione, in parte per fattori incidentali, molti dei soggetti intervistati hanno vissuto l’esperienza oggetto della narrazione in adolescenza o preadolescenza, una fase in cui spesso accade che siano già intercorse esperienze di malattia eterovissuta i cui significati e rappresentazioni hanno sedimentato e prodotto/predisposto una maggiore attenzione e propensione al conoscere. Tutto ciò in una fase che – di per sé – è già piuttosto complessa in quanto connotata dal rapporto tra figli e genitori costantemente in mutazione, spesso conflittuale, almeno sul piano dialogico.

“L’importante è fare attenzione a come i ragazzi possono intrepretare l’evento, quando gliene parliamo, perché bisogna dirglielo con più o meno trasparenza, ma la trasparenza è importante. Poi perché non dirlo? Dicono di non dirlo per non far del male, ma per me fa acqua da tutte le parti. A me se non lo dicevano, mica mi proteggevano. Non mi avrebbe fatto tanto

121 più di differenza: prima o poi l’avrei scoperto. Dopo quello che le è successo, non può più sollevare pesi! Mi sarei fatto due domande e avrei preteso le risposte.” (L2*, uomo, 10 anni all’epoca, figlio)

Per comprendere meglio le dinamiche tra agency e struttura nel vissuto di malattia – come ritiene Maller (2015:53) – è necessario adottare modelli alternativi che spieghino meglio le routine e le abitudini (nonché) le concettualizzazioni inerenti le pratiche inter-generazionali in materia di salute e si soffermino sulla maggiore complessità di un ambito negoziale che vede esacerbata l’ordinaria conflittualità di cui è connotato, a causa del logorio emotivo che affligge il sistema relazionale in un periodo di crisi.

“Di quel periodo, mi ricordo una litigata pazzesca. Un annetto circa dopo l’operazione. Mi ricordo che avevo già 16 anni perché ero con il mio primo ragazzo. Capitò che un pomeriggio mia mamma aveva una di queste visite, queste cure che non ho mai capito bene cosa fossero… Comunque, in quel periodo, capitò che trovò un bigliettino che io avevo scritto a una mia amica, una conversazione di quelli su pizzini di carta, in cui dicevo che il pomeriggio i miei erano via ed era venuto M. a casa. Allora, mi ricordo mia mamma, mentre io ero in piazza con i miei amici, sul muretto, quello dove ti trovi da adolescente in provincia… Arriva mia mamma in macchina, incazzata nera che si vedeva da lontano, tanto che una delle mie amiche mi fa <arriva tua mamma incazzatissima.> E infatti mi caricò in macchina e mi diede una spolverata! Mi rinfacciò che io approfittassi del fatto che lei era malata per potere fare queste robe, chiamandolo in casa mentre lei non c’era. Quella fu una litigata pesissima!” (R1*, donna, 15 anni all’epoca, figlia)

Anche in casi come questo, la relazione in situazione di crisi risente del dualismo ricorrente nel rapporto con l’infanzia-adolescenza trattato ai capitoli 3 e 4. Da un lato si condivide un livello di informazioni sulla malattia in corso che è limitato, mentre al contempo, dai più giovani ci si attende – per quanto spesso in modo inconsapevole – un insieme di comportamenti che ne facilitino la gestione.

Il corto circuito relazionale, prima che emotivo, è evidente e – nonostante le difficoltà della fase familiare alterata dalla malattia – per quanto possibile, il rapporto adulti- bambini/adolescenti dovrebbe continuare ad essere oggetto di attenta negoziazione e continua ridefinizione, così da sostenere e sviluppare una complementarietà inter-generazionale che non solo migliorerebbe la convivenza quotidiana ma – sostengono Favretto et al. (2017:66) – costituirebbe per i più giovani un apprendimento riguardo l’esperienza di malattia, nonché del prendersi cura di se stessi come “agenti di cura.”

È mediante una rinegoziata divisione della relazione di cura che, alla luce della rottura biografica familiare o anche sulle macerie esistenziali che essa ha lasciato, è possibile compiere l’indispensabile riaggiustamento costruttivo delle biografie sconvolte dalla malattia grave.

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