Capitolo III: Quadro teorico per la dimensione “infanzia”
2. L’evoluzione dell’infanzia
La CRC – come affermato da Moro in un recente convegno47 è un importante trattato
non solo giuridico, ma anche pedagogico che ha comportato un’enorme rilevanza anche sul piano sociologico.
Per quanto concerne l’infanzia, nell’ambito delle politiche sociali, sanitarie ed educative – infatti – la CRC ha sancito il riconoscimento istituzionale e civile delle teorie sociologiche organizzate in quello che James e Prout (1990:60) per primi denominarono Nuovo paradigma della sociologia dell'infanzia che – già citato in apertura – troverà diffusa trattazione al paragrafo 4 di questo capitolo. Ma innanzitutto, la CRC – oltre che punto di partenza per nuove politiche e prassi innovative – va considerata come sofferto risultato di decenni di dibattito accademico e politico.
Il percorso seguito è stato lungo, impervio e tutt’altro che concluso; perché si tratta di un’evoluzione che è dovuta passare attraverso la messa in discussione di valori e rappresentazioni dalle connotazioni anche ancestrali e – pertanto – molto complesse da destrutturare e attualizzare.
2.1 Dall’infanzia che non c’è ai bambini dionisiaci e apollinei
Per descrivere la situazione in merito prima dell’Ottocento, Ariès ci narra una sorta di ‘anti-fiaba’ che inizia con ‘Non c’era una volta l’infanzia…’ Lo storico francese infatti, sostiene che fino al periodo medioevale, l’idea di infanzia sostanzialmente non esisteva e che è solo tra il XV e il XVIII secolo, che avviene una progressiva acquisizione di spazio nell’immaginario delle persone, nelle culture delle società, nelle legislazioni degli stati.48
Dal rinascimento in poi, l’infanzia non appare – salvo rarissimi casi – neanche nella produzione artistica, letteraria come pittorica, anche perché continua a esistere molto ai margini dell’immaginario e delle percezioni che sono condivise nelle comunità. La ragione – come sintetizza Satta (2012:62) – è che permaneva il principio secondo cui si esisteva come soggetti solo in quanto si serviva (alla sopravvivenza) e quindi, essendo i bambini ‘poco’ o per nulla utili a produrre e riprodursi, erano soggetti che esistevano ‘fino a un certo punto’. Individui presenti, ma solo ai margini delle rappresentazioni e delle manifestazioni della vita che contava, finanche ai margini – per certi versi – delle stesse affettività.49
47 “Il diritto “partecipato” alla salute. Bambini, adolescenti e adulti tra protezione e partecipazione.”
Convegno organizzato da LABSIA (Laboratorio Salute Infanzia Adolescenza) dell’Università del Piemonte Orientale, Alessandria, 24 novembre 2017.
48 Lo studioso francese si è concentrato sull’evoluzione diacronica soprattutto dei due ambiti concettuali
attorno a cui ruota anche questa ricerca: il concetto di infanzia e il rapporto con la salute e con la morte. In questo paragrafo il riferimento è rispetto all’opera Padri e figli nell'Europa medievale e moderna (Ariès, 1983), la quale è fonte menzionata in qualsiasi opera che affronti l’evoluzione del concetto di infanzia, quale che sia l’impostazione teorica adottata, quali che siano le conclusioni analitiche a cui si giunge.
49 Affermazione scontata ma indispensabile: non si vuole qui asserire che gli adulti del passato non
fossero legati da vincoli di affettività ai loro figli e nipoti; vero è che per un insieme di fattori contestuali e antropologici, il rapporto con chi era più vulnerabile era molto differente da come lo si vive ora. Emblematico è il raffronto del tasso di mortalità infantile: secondo ISTAT (2014:2) nel 2011, si sono registrati in Italia 2084 decessi di bambini sotto i 5 anni di vita: un tasso di mortalità infantile che non arriva al 4 per mille. Nel 1887, poco più di un secolo prima, i decessi in questa fascia di età erano 347 per mille: quasi 35 bambini su cento morivano nei primi cinque anni di vita. Si può immaginare quanto fosse più ‘concepibile e ‘accettabile’ la perdita di un bambino per morte naturale, di quanto sia considerata ‘tollerabile’ adesso.
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In quanto marginali, i bambini non suscitavano l’attenzione di chi si occupava di capire di meglio e di più del consesso umano ed è solo con il risveglio etico dell’Ottocento, nel cui alveo nasce e prospera il filantropismo (Moschini, 2007:79), che l’infanzia ‘appare’ su una scena sociale e culturale.
A seguito di questa ‘epifania’, gli adulti si trovano d’emblée ad avere a che fare con una moltitudine di “piccoli soggetti insoliti”50, senza però sapere come porsi nei loro
confronti, o meglio, ponendovisi spesso in maniera ambivalente e contraddittoria, combattuti e confusi dal bipolarismo interpretativo che tuttora caratterizza le rappresentazioni che gli adulti adottano rispetto all’infanzia. Il riferimento in merito è ai due archetipi ben delineati da Lupton (2012:11) che corrisponderebbero – da un lato – al bambino apollineo e – dall’altro – al bambino dionisiaco.
2.1.1 Il bambino apollinneo
La rappresentazione del bambino apollineo – come anche Satta sintetizza (2012: 66) – vede l’infanzia come pura, innocente, priva delle contaminazioni della società che la circonda; ne consegue una considerazione di bambini e bambine come di soggetti anzi tutto preziosi, vulnerabili, malleabili.
Come indica Engelbert (1994:218), è sulla base di questa vulnerabilità che si costituisce l’attitudine diffusa verso l’infanzia – sia a livello genitoriale, sia a livello istituzionale – focalizzata in termini di protezione, la quale implica l’esclusione dell’infanzia dai mondi pericolosi e complessi, quelli presunti for adults only’
Ciò che ha luogo a livello sistemico – per dirla come Lansdown (citata in Mayall, 1998:270) – è una confusione compiuta con intensità differenti di consapevolezza tra la naturale e incontestabile dipendenza biologica dell’infanzia rispetto agli adulti e quella vulnerabilità che invece è socialmente costruita/provocata dagli adulti nei confronti dei più giovani.
2.1.2 Il bambino dionisiaco
Sul fronte opposto dello spettro delle rappresentazioni sull’infanzia, ‘scorrazza’ il bambino dionisiaco, il quale invece ci riconduce concettualmente a esseri connotati da un’insufficiente civilizzazione e che subiscono un’eccessiva influenza dell’istintività. Soggetti primitivi, in sostanza, potenzialmente nocivi per se stessi e per gli altri a causa di un’eccessiva prossimità con la natura primordiale intesa come ambito che necessariamente riduce, se non elimina, la razionalità e la moralità del pensiero e dell’azione.
Se, come reitera Lupton (2012:5), il bambino apollineo richiede protezione da parte del sistema sociale e dei suoi sotto-sistemi più prossimi, per quello dionisiaco si tratta soprattutto di assicurare nei suoi confronti il contenimento dei comportamenti e una limitazione delle autonomie.
Dall’oblio della non considerazione sociale imperante fino al 1600, al percorso di riconoscimento ambivalente dei bambini come tesori da proteggere o animali da addomesticare caratteristico del Settecento-Ottocento, si è giunti quindi al ventesimo secolo e al processo di formalizzazione e riconoscimento dell’infanzia come parte integrante e peculiare del tessuto sociale culminato nella su menzionata Convenzione del 1989.
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2.2 Carte, Convenzioni e nobodyness sociale
La genesi della CRC è avvenuta per stadi, secondo un processo che si può considerare cominci nel primo ventennio del Novecento con l’operato di Eglantyne Jebb, una pedagogista che, prestato servizio presso la Croce Rossa durante la prima guerra mondiale, era rimasta impressionata dalle peculiarità e dall’intensità delle conseguenze esercitate dal conflitto negli specifici confronti dell’infanzia.
Rientrata a Londra nel 1919, Jebb fondò Save the Children, la prima organizzazione internazionale finalizzata alla difesa e promozione dei diritti dei bambini. Fu nell’ambito della componente di advocacy che dagli albori connotò l’attività di Save the Children, che Jebb stilò la Carta dei Diritti del Bambino del 1923.
La “Carta” venne fatta propria in modo quasi integrale già nel 1924 dalla Società delle Nazioni come Dichiarazione di Ginevra sui Diritti del Fanciullo, venendo poi adottata – con significative modifiche – dalle Nazioni Unite nel 1959. Fu in occasione del procedimento inerente quest’ultima adozione che il governo polacco propose una serie di revisioni e avanzamenti di natura strutturale (ed epocale), impostando la propria proposta sulle teorie ed esperienze empiriche di Janus Korczak.
Korczak, pseudonimo di Henryk Goldszmit, fu uno scrittore, pedagogista e medico ebreo di Varsavia il quale, in piena Belle Epoque, creò un orfanotrofio che operava mediante l’autogestione degli stessi bambini-utenti, titolari e responsabili non solo delle attività di mantenimento della struttura, ma anche in buona parte di quelle educative e culturali. Korczak, che ha lasciato opere ancora molto attuali quali: “Come amare un bambino” (1979) o “Il diritto del bambino al rispetto” (2004), morì nelle camere a gas di Treblinka. Ciò nonostante, quando i suoi principi e le sue prassi vennero riprese per orientare la proposta del 1959, i suoi assunti teorici ed implicazioni sul piano pratico risultarono materiale concettuale troppo avanzato rispetto alle rappresentazioni dell’infanzia e gli approcci adottati rispetto alle relazioni intergenerazionali.
Non sorprende che la proposta non abbia trovato il sostegno né degli ambienti accademici, né tantomeno di quelli istituzionali, tanto che l’applicazione della Dichiarazione sui Diritti del Fanciullo – da ratificarsi in leggi e dispositivi nazionali e locali – quasi mai nei decenni a seguire incluse bambini e bambine come reali e significativi soggetti sociali.
L’insormontabile ostacolo ad una concreta attuazione e attualizzazione dei principi della Dichiarazione è sempre stato costituito dalle rappresentazioni dominanti al riguardo dell’infanzia riconducibili a vere e proprie ideologie (Prout, 2005:80), le quali hanno plasmato e legittimato legislazioni nazionali imputanti a coloro che non hanno ancora compiuto diciotto anni, una connotazione e uno status di incompleti, di non-capaci.
L’incapacità intrinseca all’età ‘minore’ comporta la negazione di prerogative che – invece – per un adulto sono considerate diritti umani fondamentali, quali per esempio i diritti di espressione o quello di essere ascoltati e presi in considerazione. È come se i bambini – al pari di altre minoranze – vivessero in un limbo di ‘nessunità’ sociale, tanto per richiamare il concetto di nobodyness sviluppato da King (1991:292) nel denunciare – e demolire concettualmente – la discriminazione degli afroamericani prima dell’emancipazione.
Se riteniamo i bambini come l’unico gruppo sociale i cui diritti politici sono affidati per intero a un altro gruppo, quello ‘dei grandi,’ ci soffermiamo sul fatto che i membri di un gruppo sociale – quello degli adulti – in nome e per conto dei soggetti di un altro gruppo – quello dei bambini – esercita un’autorità senza essere oggetto né di meccanismi di controllo, né di attribuzione da parte dei soggetti ‘beneficiari’.
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Si tratterebbe, in sostanza, della strutturale violazione del principio democratico secondo cui nessun individuo o gruppo può essere soggetto a leggi nella cui determinazione non è stato coinvolto (King, 1991:293).
Il riferimento al reverendo King non è incidentale: i minority studies, infatti, assieme agli studi di genere e a quelli sulla dimensione diacronica dell’infanzia, sono uno degli ambiti teorici extra-disciplinari che, rispetto all’infanzia, hanno stimolato riflessioni sociologiche molto prolifiche.
Già nel 1973, Charlotte Hardman (2001:522) aveva incluso i bambini assieme alle donne nella categoria dei “muted groups”, quei soggetti accomunati dallo status di soggetti che sono unperceived più che ignorati. L’autrice sottolineava infatti, che la storia degli studi sull’infanzia nelle scienze sociali è connotata non tanto dall’assenza di interesse per bambine e bambini, quanto dal silenzio in cui a partire dal XIX secolo li si è costretti.
Per lo sviluppo di teorie che permettano di dissipare dubbi e delegittimare esclusioni istituzionalizzate, per Mayhall (1998:274) si è reso necessario innanzitutto attribuire a bambini e adolescenti lo status di gruppo minoritario, in quanto costituito da soggetti che subiscono da posizione subordinata la triangolazione con la famiglia e lo stato.
In ambito prettamente sociologico, anche Ronfani sottolinea quanto la situazione di dipendenza in cui si trova il minorenne sia peculiare visto che bambini e bambine in realtà “dispongono di un rimedio essenziale per uscire dalla dipendenza (rispetto agli adulti): il crescere” (1995:29).
L’assunto è ovviamente una provocazione, in quanto un ipotetico approccio attendista, non metterebbe in discussione la natura della discriminazione in sé. I soggetti minorenni hanno continuato così a subire una relazione di potere che è ad appannaggio degli adulti e che come tale è stata acquisita anche dalla sociologia, nel momento in cui alcuni scienziati sociali hanno iniziato a rivolgere la loro attenzione all’infanzia.
3. L’infanzia nella sociologia classica