INTERESSE DI GRUPPO E VANTAGGI COMPENSAT
2.11. Considerazioni conclusive e ultimi orientamenti giurisprudenziali.
corrispettivo, sia riconducibile allo schema della bancarotta per distrazione allorquando l’ente impoverito successivamente fallisca.
La giurisprudenza, salvo qualche sporadico episodio196, è orientata, come già detto in precedenza, per la tesi affermativa: in particolare, muovendo dal presupposto che il fenomeno dell’aggregazione societaria abbia natura meramente economica e non scalfisca il principio dell’autonoma personalità giuridica di ciascuna società, riconosce che “gli atti di distrazione patrimoniale privi di seria
contropartita eseguiti dagli amministratori a favore di una società dello stesso gruppo realizzano il delitto di bancarotta per distrazione”197.
Quindi, nel compimento di operazioni infragruppo il perseguimento dell’interesse di gruppo è sempre latente e presente nel compimento delle stesse. Infatti ogni operazione posta in essere da una società del gruppo, anche con terzi, registra l’ingombrante presenza dell’interesse di gruppo.
L’autonomia patrimoniale di ogni singola società del gruppo impone all’amministratore di ogni società di perseguire esclusivamente l’interesse della società cui è preposto e gli vieta di sacrificarlo sull’altare di un interesse di gruppo che trascende la società stessa che di per sé non ha rilievo né per i soci di minoranza né per i creditori della società.
Nelle operazioni finanziarie tra controllante e controllata o tra società sottoposte a comune controllo si coglie, infatti, con particolare risalto la caratteristica qualificante di tale fenomeno, ossia la sua idoneità a conciliare l'unità economica dell'attività d'impresa con la pluralità di centri soggettivi di imputazione in cui essa è giuridicamente articolata: da un lato, l'unità indotta dal collegamento di gruppo permette di attuare la circolazione dei flussi di liquidità tra le entità che ne fanno parte secondo termini e condizioni diversi da quelli normalmente praticati sul mercato; dall'altro, la pluralità di masse patrimoniali originate dalla catena partecipativa rende ipotizzabile la “trasformazione” del titolo giuridico in base al quale le risorse vengono acquisite sul mercato “esterno” dei capitali, potendo la capogruppo utilizzare le somme rivenienti da un aumento di capitale sociale sottoscritto da investitori “terzi” al fine di erogare prestiti alle proprie controllate o, per converso, canalizzare il mutuo che le fosse stato somministrato dal ceto bancario per incrementare la dotazione di mezzi propri delle entità dirette e coordinate198.
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Cass. Pen., Sez. V, 25.2.1959, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 939.
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Cass. Pen., Sez. V, 04.12.2007, n. 4410, in Fallimento, 2008, p. 466; Cass. Pen.,V sezione, 01.2.2000, Tonduti, in
Cass. pen., 2001, p. 661; Cass. Pen., Sez. V, 8.1.1996, Cozzi, in Cass. pen., 1997, p. 2234.
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Il fenomeno dei raggruppamenti societari pone al diritto penale fallimentare il problema della possibile rilevanza, anche indiretta, degli interessi del gruppo nella valutazione dell’ipotizzabile natura distrattiva di operazioni economiche poste in essere dalle singole società facenti parte del gruppo.
L’obiettivo ultimo cui la società deve tendere, mediante il contratto sociale in fase costitutiva e attraverso il successivo operato degli amministratori in fase esecutiva, è quello del conseguimento dell’oggetto sociale così come descritto nell’atto costitutivo. Qualsiasi deviazione da tale scopo, da cui risulti una illegittima lesione al valore della partecipazione sociale o all’integrità del patrimonio, comporta la responsabilità diretta degli amministratori nei confronti della società, dei soci e dei creditori.
A seguito delle riforme del 2002 e del 2003 e del riconoscimento della legittimità generale delle aggregazioni societarie, non può ritenersi ammissibile alcuna ingerenza di tipo giuridico ed economico che sia pregiudizievole rispetto al patrimonio sociale dell’ente, ancorché derivante da una politica di gruppo199.
Tuttavia, con la disciplina in tema di attività di direzione e coordinamento (artt. 2497 e ss. c.c.) e con l’introduzione della clausola di esonero dalla responsabilità per infedeltà patrimoniale in materia di gruppi (art. 2634, terzo comma, c.c.), il legislatore ha in qualche modo “smorzato” la valenza assoluta di siffatta impostazione, riconoscendo un più ampio margine di liceità delle operazioni infragruppo e specificando quali siano i criteri per definirne i confini.
Nel primo caso, infatti, la responsabilità della holding che, violando le regole di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nell’ambito della sua attività di direzione e coordinamento, abbia cagionato un danno ai soci o ai creditori delle società controllate, viene meno allorquando “il danno
risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette”.
Sembra riconoscersi, in tal senso, una posizione di “dominio” della capogruppo, la quale può legittimamente condurre una politica economico-aziendale che le permetta, per ottimizzare i profitti, di sfruttare il modello organizzativo “molecolare” utilizzando, ad esempio, porzioni di ricchezza facenti capo alle società che compongono il gruppo, nei limiti, però, della necessaria compensazione o reintegrazione, a consuntivo, dell’avvenuto depauperamento.
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COCCO, I confini tra condotte lecite, bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice nelle relazioni economiche all’interno dei gruppo di società, in Riv. trim, dir. pen. ec., 2003, p. 1044 il quale, muovendo dalla concezione
atomistica delle società per azioni, afferma che l’appartenenza di una società ad un gruppo non autorizza l’esercizio di una qualunque attività estranea all’oggetto sociale solo perché a favore del gruppo, in quanto vi deve essere sempre un nesso tra attività ed oggetto sociale, la cui esistenza va valutata in concreto.
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Per verificare se sussista o meno un danno rilevante ai sensi dell’art. 2497 c.c., ovvero per determinare se gli amministratori delle controllate, in esecuzione delle direttive della holding, agiscano in maniera contraria o difforme rispetto all’interesse sociale che sono chiamati a perseguire, l’interprete dovrà guardare non già alla singola operazione depauperativa isolatamente considerata, ma sarà tenuto ad estendere la sua analisi al più ampio contesto del gruppo ed alla sua politica economica globale.
La valutazione della dannosità dell’operazione, infatti, avviene non solo sulla base dell’analisi del bilancio della singola controllata, ma tenendo altresì in considerazione le operazioni infragruppo precedenti, contestuali o successive che abbiano pareggiato il conto o comunque riequilibrato l’iniziale perdita. Valutazione che andrà fatta in una prospettiva ex post.
Spostandosi sul fronte penale il quadro normativo muta notevolmente: come già ribadito, il D. Lgs. n. 61 del 2002 muove dai medesimi presupposti che hanno ispirato il legislatore civile.
Tuttavia, il carattere necessariamente frammentario e sussidiario della normativa penalistica porta il legislatore ad utilizzare delle tecniche descrittive del fatto tipico inevitabilmente diverse rispetto a quelle che contraddistinguono le previsioni civilistiche.
Così, la scelta di collegare la responsabilità penale al carattere ingiusto del profitto piuttosto che alla sussistenza di un danno lascia intendere come l’ambito di intervento punitivo sia volutamente più ristretto: non si guarda solo al disvalore di evento, in termini di effettiva lesione al patrimonio, ma anche al particolare modus operandi dell’agente, che deve essere connotato dai crismi dell’infedeltà.
La condotta dell’agente deve essere letta in chiave soggettiva attraverso la ricostruzione delle finalità che hanno spinto l’amministratore a realizzare determinati atti dispositivi, e, quindi, dovrà essere valutata la sussistenza o meno del dolo specifico di ingiusto profitto o di altro vantaggio per sé o per altri: mentre l’art. 2497 c.c. collega la responsabilità civile al pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore delle partecipazioni sociali (tutela dei soci), o alla lesione dell’integrità del patrimonio della società (tutela dei creditori sociali), l’art. 2634 c.c. non punisce qualsiasi operazione che abbia cagionato un danno patrimoniale all’ente, ma solo quella che sia stata realizzata dall’amministratore nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, mediante una condotta di abuso.
La clausola di esonero prevista dall’art. 2634 , terzo comma, c.c. il cui ambito di operatività si presenta più esteso di quello di cui all’art. 2497 c.c. , ritiene rilevante la compensazione del profitto e non già del danno, anche quando questa sia solo “fondatamente prevedibile”, come nei casi in cui
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dall’arricchimento del gruppo possa ragionevolmente discendere un vantaggio anche alla società inizialmente impoverita.
Il calcolo assume, allora, natura qualitativa ed il giudizio assolutorio potrà promanare anche a seguito di una mera valutazione prognostica, senza che l’effettivo conseguimento del vantaggio, ovvero il concreto azzeramento del danno, possa minimamente incidere sulla legittimità dell’operazione contestata.
La natura distrattiva del trasferimento patrimoniale infragruppo può naturalmente escludersi allorquando emerga che la finalità che muove l’agente non sia indirizzata a pregiudicare i creditori sociali.
Come si vedrà nel corso del lavoro, ai fini dell’esclusione della tipicità della distrazione nelle operazioni patrimoniali e finanziarie infragruppo, assume rilievo dirimente anche l’analisi dell’animus dell’agente.
In ultimo la Corte di Cassazione con la sentenza n. 32131/16 ha precisato che, in tema di bancarotta fraudolenta, qualora il fatto contestato si riferisca a rapporti intercorsi tra società appartenenti al medesimo gruppo, l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società fallita può essere ritenuta legittima in virtù dei vantaggi compensativi solo laddove il saldo finale delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo sia positivo, la cui dimostrazione grava sull’imputato. In particolare, la Suprema Corte stabilisce che la disposizione di cui all’art. 2634, comma 3, c.c. può trovare applicazione nei soli casi in cui gli autori delle operazioni siano società facenti parte di un “gruppo” ovvero collegate. Pur in assenza di una specifica definizione normativa del “gruppo di società” (e di un’armonica disciplina del fenomeno), la Corte individua l’elemento minimo e caratterizzante di tale struttura nell’attività di direzione e coordinamento, al quale vanno poi a sommarsi le forme pubblicitarie prescritte dall’art. 2497-bis c.c. e rappresenta che per invocare efficacemente la teoria dei cd. vantaggi compensativi l’imputato è tenuto ad indicare gli elementi formali legittimanti l’applicazione delle norme relative alla direzione e coordinamento di società. Nella medesima pronuncia la Corte aggiunge che l’art. 2634, comma 3, c.c. nell’escludere la responsabilità penale in caso di vantaggi compensativi ha ampliato l’ambito operativo del concetto di cui all’art. 2497, comma 1, c.c. facendo riferimento ai “vantaggi fondatamente prevedibili”. Tale clausola richiede che i vantaggi compensativi dell’appropriazione e della dissipazione del patrimonio sociale siano concreti e cioè “basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente aleatori o costituenti una semplice aspettativa”.
Nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazioni infragruppo, i vantaggi compensativi possono dunque escludere la rilevanza penale della condotta solo in quanto sia dimostrato uno specifico
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vantaggio a favore della società “sacrificata”, idoneo a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione, il cui onere dimostrativo grava sull’amministratore imputato.
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