L’INQUADRAMENTO DEL DELITTO DI BANCAROTTA FRAUDOLENTA PER DISTRAZIONE
3.5. La “distrazione” nel codice Rocco.
Sembra opportuna una breve ricognizione in ordine al significato che il termine “distrae” assume nel codice Rocco: se, cioè, questo possa essere riportato ad unità, come fosse un concetto omogeneo ed univoco rispetto a tutte le diverse fattispecie che lo richiamano, o se, al contrario, sia necessario ricostruirne il senso caso per caso, assumendo la distrazione un carattere mutevole a seconda della sua specifica collocazione sistematica.
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Ad una prima analisi, strettamente letterale, dunque, sembrerebbe che il concetto di distrazione, classicamente ricondotto alla destinazione della cosa ad un uso o finalità diversi rispetto a quella (giuridicamente) dovuta, non sia da solo idoneo a caratterizzare con precisione la direzione della condotta, posto che in taluni casi il legislatore ha sentito la necessità di puntualizzare che questa debba essere sorretta da un dolo particolarmente qualificato che ne delimiti la penale rilevanza.
Nessun contributo espresso che chiarisca, precisandolo, il significato di per sé assai generico proprio perché sussidiario della distrazione.
Da tale astrattezza l’interprete potrebbe validamente ritenere che la norma punisca qualsiasi deviazione dallo scopo proprio della cosa, diversa dalla falsificazione, distruzione, soppressione o sottrazione.
Parte della dottrina ritiene che il richiamo al concetto formale di distrazione così designato sembra provare troppo e peccare per difetto in riferimento alla necessaria tassatività e determinatezza della
fattispecie, sia nella fase di creazione della norma, sia nella fase della sua applicazione 223. Una interpretazione costituzionalmente orientata, allora, imporrebbe di leggere l’incriminazione in chiave teleologica, coniugando la condotta e la sua pregnanza con lo scopo stesso della norma, mediante il richiamo al bene giuridico da questa tutelato224. In assenza di una specifica ed espressa presa di posizione da parte del legislatore la tipicità del fatto distrattivo varia col variare del bene protetto, o comunque con lo scopo dell’incriminazione. Scopo che si ricostruisce alla stregua di tutti gli elementi di fattispecie e la cui mutevolezza e varietà inevitabilmente conducono, sotto questo profilo, al carattere poliedrico e multiforme della distrazione ed alla sua non riconducibilità ad unità.
3.6. “Distrazione” ed “appropriazione”: un difficile distinguo.
Prima della riforma del 1990 sui delitti contro la Pubblica Amministrazione la distrazione del denaro o della cosa mobile appartenente alla p.a., ad opera del pubblico ufficiale o
223
MARINUCCI, voce Distrazione, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 311 il quale afferma che “un tratto comune alle varie condotte di distrazione indubbiamente esiste, nel senso che tutte esprimono deviazione da uno scopo prefissato. È però una nota così generica, che si stempera nella fisionomia di ogni singola fattispecie”
224
In generale, per la funzione del bene giuridico nel diritto penale, si veda da ultimo CATENACCI, voce
Bene giuridico, in Diz. dir. pub., a cura di CASSESE, Milano, 2006; nonché FIORELLA, voce Reato, in Enc. dir, vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 793 e ss.
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dell’incaricato di pubblico servizio che ne era in possesso per ragioni del suo ufficio, veniva riportata al delitto di peculato (appunto, per distrazione).
A seguito dell’eliminazione di siffatta condotta dall’alveo dell’art. 314 c.p. gli interpreti si sono domandati se la nozione di appropriazione contenuta nell’art. 646 c.p. coprisse anche le operazioni distrattive a profitto proprio o altrui, realizzate mediante l’uso arbitrario del bene ovvero la deviazione dal suo scopo, anche e soprattutto in riferimento ai fatti compiuti da soggetti privi della qualifica soggettiva richiesta dal peculato225.
La problematica muove dalla convinzione secondo la quale la distrazione costituisca un’ipotesi speciale di appropriazione: un modo particolare, cioè, attraverso il quale si può disporre della cosa uti dominus.
In questo senso l’appropriazione rappresenterebbe l’imprescindibile presupposto logico e cronologico della distrazione; o meglio, la seconda comprenderebbe la prima226.
Su una diversa scia si pongono le interpretazioni secondo le quali l’elemento differenziale tra distrazione ed appropriazione risiederebbe non già nel momento dell’espropriazione del bene, quanto piuttosto in quello successivo della sua nuova destinazione: l’uscita totale del bene dal patrimonio del titolare seguita da una diretta ed immediata immissione dello stesso nel patrimonio dell’agente configurerebbe allora un’ipotesi appropriativa; al contrario, il semplice uso arbitrario della cosa destinato ad un indiretto e mediato arricchimento personale, o ad un profitto altrui caratterizzerebbe la condotta distrattiva227.
Un passo ulteriore viene compiuto poi da chi, invece, collega la differenza tra appropriazione e distrazione nel diverso destinatario del vantaggio: dato per assunto, cioè, che indirizzare la cosa ad una finalità diversa da quella originaria (distrarre) costituisca un comportamento uti dominus (appropriarsi), si perviene alla conclusione per cui il compimento dell’atto a proprio favore costituirebbe appropriazione, mentre si avrebbe distrazione allorché la disposizione ricada a profitto di un terzo228.
225
BARTOLI, La distinzione tra appropriazione e distrazione e le attuali esigenze di tutela patrimoniale, in Dir.
pen. proc., 2001, p. 1137 e ss. che porta ad esempio le problematiche figure della concessione di fidi irregolari
e della creazione di fondi neri utilizzati al di fuori del quadro dell’attività imprenditoriale.
226
Qualificano l’appropriazione come momento “intermedio” della distrazione, strumentale fra la destinazione originaria del bene a un determinato scopo e quella finale ed indebita ad altro scopo DE MARSICO, Il danno
patrimoniale nel peculato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, p. 569; ANGELOTTI, Le appropriazioni indebite,
Milano, 1933, p. 46.
227
SEVERINO, Il criterio distintivo tra distrazione ed appropriazione nel peculato, in Cass. pen. mass. ann., 1976, p. 711 ss..
228
PALAZZO, Ai confini tra peculato e abuso d’ufficio, in La riforma del delitti contro la pubblica
amministrazione, a cura di STILE, Napoli, 1987, p. 233 e ss. Contra MAUGERI, Peculato per appropriazione e condotte distrattive, in Ind. pen., 1993, p. 710, la quale sostiene che “ai fini della qualificazione della
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A risultati eterogenei pervengono, invece, coloro i quali, riconoscendo sempre l’esistenza di un rapporto di genere a specie tra distrazione ed appropriazione, concludono, tuttavia, osservando come la seconda sia, invero, una forma di realizzazione particolare della prima, intesa questa come condotta più ampia e generica.
Se appropriazione significa “volgere in propria utilità la cosa” (attraverso la interversio
possessionis), ovvero sottrarre la cosa al fine cui essa era destinata secondo le regole del
diritto di proprietà, per orientarla ad un fine diverso ed incompatibile con quello; e se è vero che col termine distrazione si indica in via generale quella condotta che rivolge la cosa ad un fine diverso da quello cui essa era destinata; allora l’appropriazione rientrerebbe in tale ultimo concetto “con la sola particolarità che il fine cui la cosa era destinata è costituito dal conseguimento del complesso di utilità ricavabili in astratto grazie alla titolarità del dominio sulla cosa, mentre il fine diverso, cui la cosa è arbitrariamente rivolta, deve nel suo contenuto rispondere anch’esso a una delle possibili utilità che sarebbero ricavabili dall’esercizio dei poteri inerenti alla proprietà”229.
Su un fronte diametralmente opposto, ossia sulla autonomia concettuale delle due condotte in esame, si muovono quegli autori i quali, condivisibilmente, focalizzano l’attenzione sullo scopo dell’azione, qualificato come connotato oggettivo del fatto230.
Distinguo che si riflette, altresì, sull’elemento psichico del reato: mentre chi si appropria agisce rappresentandosi l’inversione del possesso a proprio favore, tale consapevolezza rimane del tutto estranea alla psiche del distrattore, il quale si rappresenta semplicemente la deviazione della cosa posseduta rispetto allo scopo cui è destinata.
La distrazione si perfezionerebbe con l’uso arbitrario della cosa, eventualmente anche a proprio (o ad altrui indiretto) vantaggio, ma senza alcuna incorporazione definitiva del bene
condotta come appropriazione (…) non è importante accertare il carattere proprio o altrui del profitto perseguito, ma occorre verificare che la cosa sia resa indisponibile per la p.a., o comunque per il suo legittimo proprietario, e venga messa a disposizione e a profitto di un soggetto ad essa estraneo, che sia poi l’autore del reato o un altro non muta il significato e la lesività della condotta”.
229
PAGLIARO, Studi sul peculato, Palermo, 1964, p. 5 ss., il quale peraltro, criticando chi sostiene l’inverso, e cioè chi riduce la distrazione a forma specifica di appropriazione, afferma che “il distrarre indica qualsiasi deviazione da una finalità ad un’altra” mentre “l’appropriarsi indica solo la deviazione della cosa dalla destinazione alla utilità del titolare del diritto di dominio verso una destinazione corrispondente al contenuto dell’esercizio del diritto di proprietà da parte dell’agente”.
230
Per tutti VINCIGUERRA, Distrazione e peculato, in Studi in onore di Biagio Petrocelli, Milano, 1972, p. 1645-1646.
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nel proprio patrimonio231; senza, cioè, che questo (uso) comporti necessariamente l’esercizio di uno dei poteri o diritti tipici del proprietario sulla cosa.
Nuovamente l’elemento differenziale viene ricondotto non già e non solo al momento espropriativo o sottrattivo del bene, quanto piuttosto a quello successivo della sua nuova destinazione: è lo scopo che muove l’agente a segnare il discrimen tra le due condotte. Infatti, il legislatore del 1930 nel redazione dell’art. 314 c.p. ha sentito l’esigenza di specificare per la distrazione, non anche per l’appropriazione, la particolare destinazione della condotta “a profitto
proprio o di altri”.
Detta specificazione normativa consente di chiarire la direzione dell’atto criminoso che è diversa dall’appropriazione che invece, di per sé, è condotta tipicamente indirizzata a vantaggio proprio, mediante la immissione diretta del bene nel proprio patrimonio.
Partendo dallo scopo che sostiene la condotta, qualificandola già sul piano oggettivo, si può sostenere che le operazioni distrattive richiamano il concetto del “moto a luogo”: l’atto, cioè, è indirizzato a spostare ed indirizzare il bene da un “luogo” ad un altro; la condotta è dinamica. Nel caso dell’appropriazione, invece, l’azione del possessore che agisce uti
dominus è piuttosto riconducibile all’idea dello “stato in luogo”, essendo diretta ad
“immettere” definitivamente il bene, che già si possiede, nella propria personale ed esclusiva sfera di dominio. L’appropriazione ricalca, dunque, una dimensione statica.
3.7. Crisi d’impresa e condotte distrattive: il ruolo dell’ “insolvenza” nella struttura del