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Il vantaggio compensativo tra i gruppi di società: natura della clausola di esenzione del reato.

INTERESSE DI GRUPPO E VANTAGGI COMPENSAT

2.6. Il vantaggio compensativo tra i gruppi di società: natura della clausola di esenzione del reato.

Con riferimento al rapporto tra bancarotta patrimoniale e vantaggi compensativi, sembra necessario interrogarsi sulla natura della clausola di cui all’art. 2634, terzo comma c.c., posto che dalla sua configurazione in termini di causa di giustificazione o di mero elemento di tipicità della fattispecie, possono discendere effetti diversi sul relativo ambito di applicazione.

Secondo l'opinione che sembrerebbe maggiormente accreditata tra gli interpreti, siffatta previsione dovrebbe essere intesa come causa di esclusione della tipicità per mancanza del dolo specifico rappresentato dall'''ingiusto profitto'': l'ingiustizia del profitto, nell'ottica di tale disposizione, potrebbe, in altri termini, venir meno a seguito del conseguimento di un vantaggio in un dato momento storico “vantaggi conseguiti”, o in una prospettiva futura ''fondatamente prevedibili''. La norma in esame richiede che, nella valutazione della sussistenza dell’ingiustizia o meno del profitto, si deve verificare che lo stesso profitto sia compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili derivanti dal collegamento o dalla appartenenza al gruppo.

Se la dinamica dei vantaggi compensativi, così come recepita dal legislatore penale societario, ammette che la verifica della compensazione tra il pregiudizio subito ed vantaggi possa essere condotta anche in termini di ragionevole probabilità, appare evidente la natura autonoma della nozione penalistica di compensazione rispetto a quella dettata dal codice civile, la quale la definisce secondo canoni di tipo matematico - aritmetici.

Se la norma, infatti, prende in considerazione anche vantaggi non ancora conseguiti, appare evidente l'impossibilità di poter operare una compensazione (nel senso aritmetico del termine), a

priori, in termini di previsione, per valutare l’attitudine dei vantaggi ad elidere i danni causati dal

compimento dell'atto dispositivo.

La compensazione, a cui ha fatto riferimento il terzo comma dell’art. 2634 c.c., ha introdotto un parametro di tipo economico – funzionale per discernere le operazioni soltanto formalmente infedeli da quelle effettivamente offensive dell’oggettività giuridica tutelata.

Il giudizio di tipicità deve necessariamente essere condotto sulla base della logica del bilanciamento degli interessi: in tal modo vi saranno ipotesi in cui la condotta, ancorché idonea a cagionare un

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pregiudizio diretto ad una delle società del gruppo, risulterà atipica in quanto compensata da vantaggi, ed ipotesi in cui le condotte infedeli, essendo invece espressione di direttive inconciliabili con l’interesse delle singole società, saranno destinate ad entrare nello spettro di tipicità penale. La rilevanza esimente dei vantaggi compensativi non costituisce infatti un espediente teso ad eludere i presidi penali posti a tutela del patrimonio sociale, ma solamente un canone interpretativo volto a colmare lo scarto tra l’eccesso di tutela della disciplina formale del reato e l’effettiva offensività delle condotte del caso concreto, mediante una ottica di bilanciamento degli interessi in conflitto.

Anche la più recente giurisprudenza rileva che “a fronte delle dinamiche tipiche del fenomeno dei

gruppi, caratterizzate da continui interscambi tra le diverse componenti, non sarebbe corretto isolare - considerandolo come fonte di responsabilità - il singolo atto, pur di per sé dannoso per la società che lo compie, ma occorrerebbe tener conto dei ritorni di utilità connessi all'appartenenza al gruppo, che possono comportare, in una valutazione globale, un sostanziale riequilibrio di vantaggi e svantaggi patrimoniali”176.

La portata dell'efficacia esimente dei vantaggi compensativi, espressamente prevista per il reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., se pure estende il suo ambito applicativo anche ai reati di bancarotta alla luce dei principi affermati dalla Corte di Cassazione, limita in realtà i suoi effetti ai fatti di bancarotta per distrazione, rimanendone esclusi quelli di bancarotta impropria177. Si esige non solo l'esistenza di un vantaggio complessivamente ricevuto dal gruppo a seguito delle operazioni, ma anche l'idoneità dello stesso a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi cagionati alla società fallita dalle operazioni, in modo che le stesse risultino non incidenti sulle ragioni dei creditori. Entrambe le condizioni sono, a ben vedere, espressione del particolare rigore che deve contraddistinguere le valutazioni sull'esistenza e sulla significatività di vantaggi compensativi in presenza dell'intervenuto fallimento della società; fallimento che inevitabilmente implica il pregiudizio per le posizioni creditorie.

E', quindi, necessario perché possa essere esclusa la rilevanza penale del fatto, che le operazioni contestate abbiano prodotto benefici indiretti tali da renderle in concreto ininfluenti sulla creazione di tale pregiudizio178.

La scelta del legislatore penale di fare riferimento, nell’ambito della compensazione, al vantaggio che la singola avrebbe tratto in futuro dalla sua appartenenza al gruppo ed al profitto che si

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Così, Cass. Pen, Sez. V, 23.06.2003, n. 38110.

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Cass. Pen, Sez. V, 05.06.2013, n. 49787.

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intendeva perseguire per il gruppo o per altra società collegata, porta logicamente a ritenere che la clausola dei vantaggi compensativi, quanto meno in riferimento alla illiceità penale di determinati fatti, operi sul piano dell’elemento psicologico determinando, pertanto, una restrizione dell’ambito di operatività della fattispecie delittuosa. Non rileva, cioè, ai fini della applicazione della sanzione, che il danno subito dalla controllata venga eliminato dall’incremento di ricchezza del gruppo; tale ripristino di equilibrio può anche non avvenire e ciò nondimeno l’amministratore può andare esente da pena.

Il disvalore del fatto è, infatti, correlato non già alla mancata compensazione effettiva del pregiudizio (come accade, invece, sul piano civile: art. 2497 c.c.), bensì al difetto di giustificazione, in termini di possibile ritorno di utilità, in riferimento a scelte gestorie che hanno portato ad un impoverimento del patrimonio sociale.

L’art. 2634, terzo comma, c.c., quando richiama la “non ingiustizia del profitto” si riferisce genericamente all’arricchimento del “gruppo” o della “società collegata”.

La decisione di non prendere posizione in ordine alla descrizione di tali elementi normativi è rappresentata dalla volontà del legislatore penale di rimettersi, per quanto attiene alle scelte definitorie di categoria, alla disciplina sostanziale di prossima emanazione, mantenendosi coerente, in questo senso, con i principi di frammentarietà e sussidiarietà, ed assumendo una posizione il meno possibile invasiva.

In base ad una esegesi prettamente letterale del testo, ai fini della esclusione della responsabilità, l’atto dispositivo dannoso realizzato dall’amministratore dovrà essere collegato eziologicamente, quanto meno dal punto di vista psichico, ad una “imposizione dall’alto”, oppure posto in essere nell’ambito di una società legata ad un’altra mediante vincoli contrattuali, o in virtù di una partecipazione azionaria.

Da tali brevi osservazioni sembra emergere che la nuova disciplina penale in materia di gruppi appare, nonostante gli sforzi, mal conciliarsi con le reali dinamiche di potere all’interno degli stessi: la legge, infatti, non accenna mai, neppure implicitamente, a quello che in materia civile viene qualificato come “abuso di direzione unitaria”.

Nell’ambito civile tale situazione fattuale viene ricondotta ad un’autonoma responsabilità della holding, ma ciò non sembra avvenire anche in sede penale.

Siffatta carenza ha portato taluno a parlare del risultato raggiunto dal legislatore penale, a proposito dei gruppi di società, come di un “modello acefalo, in grado di recuperare la responsabilità del

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vero centro decisionale (gli organi della holding) solo attraverso la partecipazione nel reato a titolo di concorso ex art. 110 c.p.”.179

Altro aspetto problematico correlato alla mancata determinatezza e tassatività nella descrizione della fattispecie attiene alla individuazione del soggetto sul quale debba ricadere il vantaggio. La clausola del terzo comma dell’art. 2634 c.c., infatti, effettua un generico richiamo ai “vantaggi derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”, senza compiere ulteriori precisazioni neppure in ordine alla “provenienza” del beneficio, se questo, cioè, debba o meno essere frutto di una specifica operazione collegata a quella dannosa.

Non è chiaro, nel silenzio delle legge, se il vantaggio effettivo o potenziale derivante dall’operazione posta in essere ricada sul gruppo considerato nel suo insieme, oppure se sia necessario un accertamento dalla ulteriore concreta ripercussione positiva del vantaggio anche sulla società danneggiata in virtù della sua appartenenza al gruppo.

Propendere per l’una o per l’altra tesi comporta, nuovamente, un allargamento ovvero una restrizione del vantaggio compensativo.

La maggior parte della dottrina ritiene che il giudice dovrebbe verificare in primis che l’azione dell’amministratore sia determinata dalla finalità di perseguire l’interesse di gruppo; ed in secondo luogo, che il raggiungimento di siffatto profitto per il gruppo o per una singola collegata si ripercuota o si possa ripercuotere in concreto anche sul bilancio della società depauperata, in base al suo legame economico col gruppo complessivamente arricchito. Quindi, detta impostazione esclude l’operatività dell’art. 2634, terzo comma, c.c. ai casi in cui il profitto non si sia tramutato (o non si possa tramutare) in vantaggio anche e soprattutto per la singola danneggiata180.

Diversa è, invece, l’impostazione della giurisprudenza che sembra orientata nel senso opposto181. Sembrerebbe più opportuno, pertanto, interpretare l’art. 2634, terzo comma, c.c. in modo tale che la compensazione possa dirsi avvenuta, e quindi la condotta possa ritenersi penalmente lecita, quando

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ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in La riforma dei reati societari, a cura di PIERGALLINI, Milano, 2004, p. 184.

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RIVA GRECHI, Bancarotta fraudolenta, infedeltà patrimoniale e rilevanza dei gruppi di società, in Giust. pen., 2004, p. 580; MILITELLO, Aspetti penalistici dell’abusiva gestione nei gruppi societari: tra appropriazione indebita ed

infedeltà patrimoniale, in Foro it., 1989, II, p. 421 e ss.; SANTORIELLO, Il nuovo diritto penale delle società: le previsioni sanzionatorie fra vecchia e nuova disciplina delle società di capitali e delle cooperative, Torino, 2003, p.

265.

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In particolare si veda Cass.Pen., Sez. V, 27 maggio 2003, n. 23241, Tavecchia, in Giust. pen., 2004, con nota di RIVA DA GRECHI, in cui si afferma, a proposito della possibilità o meno di estendere la clausola dei vantaggi compensativi anche in materia fallimentare, che “solo ai fini del reato societario di cui all’art. 2634 c.c. il legislatore impone la valutazione degli interessi antagonisti delle società per escludere l’ingiustizia del profitto dell’agente ove il danno della società sacrificata sia compensato dai vantaggi conseguiti o fondatamente previsti a beneficio del gruppo

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l’operazione infragruppo, dannosa per la singola, sia stata realizzata al fine di ottenere un profitto per il gruppo (o per altra collegata) dal quale, però, in concreto consegua o sia conseguibile un vantaggio diretto o indiretto anche per la società inizialmente impoverita182.

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