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2. La cooperazione: il punto di partenza e la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico

2.9 La cooperazione è una forza gratuita

Come abbiamo già sottolineato, per incominciare a produrre il capitalista compra la forza-lavoro degli operai. Per dare vita al processo lavorativo sociale avviene lo stesso tipo di compravendita: il capitalista dovrà soltanto comprare un maggior numero di forze e stipulerà, dunque, più contratti. Se pur diverso quantitativamente, il meccanismo sembra essere, almeno apparentemente, il medesimo. Allo sguardo di Marx si dà, però, una differenza sostanziale: il capitalista paga le singole forze-lavoro, ma non paga per la forza che queste singole diventano quando lavorano insieme, ossia per la forza-lavoro

combinata. È soltanto grazie a questa nuova forza combinata che, come abbiamo

sottolineato nei precedenti paragrafi, si riescono a svolgere certi tipi di compiti che prevedono un numero rilevante di lavoratori. Grazie alla cooperazione, dunque, la qualità del processo lavorativo è cambiata, ma il capitalista non ha pagato per questo. I lavoratori restano individui isolati che si rapportano tra loro perché il capitale lo esige: «La loro cooperazione ha inizio soltanto nel processo lavorativo reale, ma in questo essi hanno già

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cessato di appartenere a sé medesimi. Entrandovi, vengono incorporati al capitale»185. Da questa riflessione possiamo trarne perlomeno due conclusioni:

1) Gli operai che cooperano sono diventati cellule di un unico organismo che è il capitale, sono dunque «un modo particolare di esistere del capitale»186;

2) La forza produttiva che viene dal lavoratore singolo è diventata la forza produttiva propria del capitale, poiché l’operaio è operaio sociale.

Marx sembra sottolineare non solo, come era chiaro prima del processo lavorativo sociale, che la forza-lavoro del singolo operaio ed il suo corpo sono proprietà del capitalista, ma anche che la forza produttiva, sviluppata dall’operaio quando è insieme ad altri (non per scelta, ma per decisione del capitale), è anch’essa proprietà del capitale. Questa produttività sociale è completamente gratuita: si sviluppa quando il capitalista raduna un discreto numero di lavoratori insieme e crea le condizioni perché questi possano sviluppare la forza produttiva combinata, data appunto dal loro collaborare. Inoltre, quest’ultima, non essendosi sviluppata dai lavoratori, ma essendo frutto esclusivo del capitale, viene definita da Marx «forza produttiva che il capitale possiede per natura, come forza produttiva ad esso immanente».187 Si consideri, infatti, che l’artigiano è diventato ormai un salariato, il quale, non possedendo i mezzi di produzione, non può avere un’attività propria, nonostante abbia ancora, a questo livello, le conoscenze e le abilità per lavorare da solo. Anche nel caso in cui egli avesse i mezzi di produzione, avrebbe comunque il problema di non detenere le stesse condizioni economiche della produzione capitalistica: non lavorare in modo cooperativo lo penalizzerebbe e non lo renderebbe concorrenziale sul mercato. Da ciò è possibile dedurre che il sistema produttivo capitalistico si impone come unico tipo di produzione, mettendo ai margini del mercato, se non addirittura eliminando, la produzione artigianale. I lavoratori, anche gli artigiani, sono ormai dipendenti del e dal capitale. Con la divisione del lavoro e le macchine, gli altri due metodi di estrazione del plusvalore relativo, questo processo di imposizione del sistema capitalistico raggiungerà il suo culmine.

185 Ivi, pp. 458-459. 186 Ivi, p. 459. 187 Ibidem.

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2.10 La cooperazione precapitalistica

La cooperazione fu utilizzata, e sfruttata, sin dall’antichità. Marx ne ricorda l’uso nella costruzione di «colossali opere degli antichi Asiatici, Egizi, Etruschi ecc.»188 citando Richard Jones189:

Avvenne in tempi remoti che, provveduto alle loro spese militari e civili, gli Stati asiatici si trovassero a possedere un’eccedenza di mezzi di sussistenza, che poterono spendere per la costruzione di opere di lusso e di utilità. […] Il loro potere […] e il dominio assoluto dei monarchi […] fornirono loro i mezzi per erigere i poderosi monumenti […] si utilizzava senza risparmio quasi soltanto lavoro umano […] sebbene ogni singolo depositante sia minuscolo, debole, inconsistente […] il numero è la loro forza; e fu il potere di dirigere quelle masse umane che diede origine a tali imprese titaniche. Esse sono state rese possibili dalla concentrazione dei mezzi di sussistenza dei lavoratori in una o in poche mani.190

Anche in questa analisi, come in quella marxiana, vengono sottolineate alcune caratteristiche imprescindibili del lavoro cooperativo all’interno di un processo produttivo. In primis, nessuna delle grandi opere poté essere costruita senza il potere e il dominio dei re orientali: essi disponevano di una considerevole percentuale di popolazione da impiegare. In secundis, se non fosse stato possibile concentrare i mezzi di sussistenza, necessari alla vita dei lavoratori, nelle mani di pochi potenti, nessuna grande opera sarebbe mai stata costruita. Anche qui, come in Marx, la cooperazione nasce quando, sotto il comando di un unico capitalista, sono impiegati un gran numero di operai; nelle società antiche sono i monarchi e i sacerdoti a radunare i lavoratori e a dare origine al lavoro sociale. Ciò significa, in primo luogo, che il potere dei re si è trasferito nel capitalista, sia egli singolo o combinato come nelle società per azioni. In secondo luogo, anche nella testimonianza di Jones, viene messa in luce l’importanza di un numero considerevole di lavoratori che, rispetto ai singoli, genera una forza di massa. In ultimo, anche nell’esempio concernente le società precapitalistiche, viene considerata fondamentale la funzione di comando: il potere di dirigere un gran numero di lavoratori è strettamente necessario.

188 Ibidem.

189 R. Jones (1790-1855) fu un economista inglese critico rispetto alle posizioni teoriche di D. Ricardo e di T. R. Malthus.

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Questa dimensione di potere legata alle grandi costruzioni dell’antichità fu denunciata, anni dopo, da Walter Benjamin nell’incipit de I regressi della poesia. Si legge:

Nella storia dell’umanità esistono fenomeni che, a prima vista, ci appaiono come passi indietro e che di per sé, singolarmente, hanno anche potuto esserlo di fatto, fenomeni che tuttavia, in connessione con altre circostanze concomitanti e nelle loro più remote relazioni con tutte le epoche, hanno annunciato in modo inconfondibile i progressi del genere umano. […] A parte alcuni studiosi isolati, difficilmente qualcuno si lascia tentare dal voler ammirare in quelle gigantesche opere della più grigia antichità, negli immensi monumenti di una svalutazione altrettanto immensa di milioni di lavoratori a giornata, qualcosa di più che le loro masse, difficilmente qualcuno si lascia tentare dal considerare come una sventura l’impossibilità di emulare i loro costruttori e dal voler rimpiangere di non essere più nei tempi delle maschere dei sacerdoti egizi perché in essi si costruirono, pietra su pietra, le piramidi; comunque, più facile è per noi fraintendere in che punto si siano ridotte le dimensioni non di una semplice tirannia, ma di una qualche sfera di attività spirituale, in che punto principi e capacità, senza cadere regolarmente nell’opinione dominante, abbiano scapitato decisamente in potere e influenza esterna. Quanto più procediamo nell’apprezzarle e quanto più le leggende del loro passato strapotere ci riempiono di ammirazione, tanto più repellente diviene per noi la vista della loro attuale debolezza e tanto più siamo inclini a considerare tutto ciò che è passato anche come perduto, e tutto ciò che è perduto come non sostituito e non sostituibile.191

È esplicito il riferimento ai milioni di lavoratori cooperanti: nessuno osa ricordare il loro sfruttamento di fronte alla maestosità delle opere che, soltanto grazie ad essi, sono state costruite. È lo strapotere esercitato da sacerdoti e regnanti che, come in Marx, ha soggiogato le masse di lavoratori, ma che è stato dimenticato e sostituito con l’ammirazione verso gli stessi che hanno voluto e comandato quelle costruzioni.

Tornando a Marx, le sue considerazioni fanno un ulteriore passo indietro nella storia della civiltà umana. Egli vede la cooperazione anche ai primordi della civiltà:

presso popoli cacciatori, o per esempio, nell’agricoltura di comunità indiane, poggia da un lato sulla proprietà comune delle condizioni della produzione, dall’altro sul

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fatto che l’individuo non ha ancora spezzato il cordone ombelicale che lo unisce alla

comunità o alla tribù, più che l’individuo-ape si stacchi dall’alveare.192

Queste due caratteristiche, ovvero la proprietà comune193 delle condizioni produttive e il legame con la comunità di appartenenza, distinguono le forme cooperative degli albori della civiltà da quelle tipiche dell’epoca capitalistica, dove, al contrario, le condizioni della produzione sono date dai capitalisti (a cui appartengono anche i mezzi di produzione) e in cui l’individuo è parte della società.194 Marx sottolinea, a proposito dei

popoli di cacciatori, che potrebbero essere stati i primi uomini cooperativi, dato che la caccia è stata vista da molti come la prima forma di cooperazione.

Un’altra grande differenza descritta da Marx tra le società precapitalistiche e quelle capitalistiche è il modo in cui si appropriano del lavoro sociale e utilizzano la cooperazione: nell’antichità, nel Medioevo e nelle colonie moderne tutto gravitava intorno alla schiavitù e ai rapporti di signoria e di servaggio, mentre nel nuovo modo di produzione capitalistico, invece, il presupposto è il libero lavoratore pronto a vendere la sua forza-lavoro al capitalista. Per Marx, la forma capitalistica si sviluppa in antitesi alle forme di economia contadina o di artigianato indipendente, che vengano o meno utilizzate le forme corporative. Le piccole aziende e botteghe indipendenti, nuclei del modo di produzione feudale, continuano ad esistere nonostante la caduta del loro sistema e l’avvento del modello capitalistico.

Di fronte ad esse, quindi, non la cooperazione capitalistica appare come una

particolare forma storica della cooperazione, ma la stessa cooperazione come una forma storica propria del processo di produzione capitalistico, come una forma

storica che specificatamente lo distingue.195

Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la cooperazione capitalistica non è una forma storica particolare della cooperazione, come poteva essere quella del mondo antico, ma si presenta come una forma storica del processo produttivo capitalistico. Il fatto che il lavoro sia pianificato dal capitale, che lo esige cooperativo, non dipende dalle sue rappresentazioni del passato, né tantomeno segue progressivamente il loro sviluppo: esso,

192 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, vol. I, p. 460.

193 Nell’ultimo capitolo si farà riferimento al concetto di commons e ad alcune forme cooperative legate alla proprietà comune delle terre e delle risorse ambientali.

194 Cfr. nuovamente l’antitesi comunità-società (Gemeinschaft und Gesellschaft) in F. Tönnies, Comunità e società. 195 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, vol. I, p. 460.

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infatti, è il risultato del dominio del capitale, non presente nelle epoche passate. Nonostante questo, si tenga sempre in considerazione che il capitale sfrutta la naturale predisposizione sociale dell’uomo.

Lo stesso ragionamento si può riportare al risultato della cooperazione, ovvero alla produttività sociale del lavoro. Quest’ultima si configura come forma specifica del processo di produzione capitalistico, il quale è opposto al processo produttivo dei lavoratori singoli e degli artigiani indipendenti. Marx è qui giunto ad uno dei concetti chiave che scaturisce da queste pagine: la sussunzione.