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3. La cooperazione in Marx e nel Novecento

3.6 Note storico-teoriche sull’operaismo

Non è questo il luogo dove analizzare in modo approfondito la storia dell’operaismo e le sue riflessioni, ma è senza dubbio importante, ai fini del discorso che si sta portando avanti, ripercorrere alcune questioni teoriche operaiste, soffermandosi successivamente, su quelle concernenti le macchine, il lavoro cooperativo e le soggettività politiche. Innanzitutto, si tenga presente che l’operaismo è un movimento italiano, complesso e variegato, sorto all’interno del marxismo rivoluzionario agli inizi degli anni Sessanta, nel quale si possono ritrovare diverse correnti e riviste legate, però, da capisaldi teorici simili. Uno fra tutti era l’intento di trovare una nuova strategia rivoluzionaria, alternativa allo Stato sovietico e alle direzioni dei partiti socialisti e comunisti italiani. Secondo gli operaisti, infatti, erano fallimentari entrambi: lo Stato sovietico, perché si basava su un sistema produttivo pianificato, troppo simile a quello capitalistico, i partiti, perché avevano scelto una linea social-democratica.

Il movimento si sviluppò, inizialmente, intorno alla rivista «Quaderni Rossi», ma più tardi produsse una molteplice varietà di periodici, dalle linee teoriche e politiche anche divergenti, quali «Classe Operaia», «Contropiano», «Potere Operaio», «La Classe», «Autonomia» e molti altri. Si terranno in considerazione maggiormente le riflessioni di Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri, se pur vi fossero tante altre personalità di spicco nell’ambiente operaista.

Per tracciare alcune linee significative rispetto al lavoro in questione, si è scelto di far riferimento, in modo particolare, a due contributi di Cristina Corradi297 e alla

ricostruzione critica e storica di Steve Wright298, il cui sguardo è orientato direttamente

296 M. Tomba, R. Bellofiore, Letture del frammento sulle macchine. Prospettive e limiti dell’approccio operaista e del confronto dell’operaismo con Marx, p. 146.

297 C. Corradi, Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano, in P. P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. II, Fondazione L. Micheletti, Jaca Book, Milano 2011, pp. 223-247. C. Corradi, Forme teoriche del marxismo italiano (1945-79), in S. Petrucciani (a cura di), Storia del Marxismo, vol. II, Carocci, Roma 2015, pp. 11-42.

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ai testi operaisti e ripercorre le tappe principali della storia operaia politica italiana dal secondo dopoguerra. Di conseguenza, si vuole tentare qui di ricostruire, brevemente e per lo più in modo cronologico, alcuni nodi teorici sviluppati dall’operaismo intorno alle questioni sulle metodologie e strumenti, sull’analisi della composizione di classe e sulla lettura di alcune opere di Marx, giudicate prevalentemente a partire dagli aspetti politico- rivoluzionari e di antagonismo di classe, e non per il loro obiettivo di critica dell’economia politica.

È possibile considerare l’inizio dell’operaismo a partire dalla pubblicazione nel ‘61 del I numero dei «Quaderni Rossi», la cui mente fu Panzieri, seguito da Tronti. Per circa cinque anni la rivista mantenne notevoli influenze su alcune frange del movimento operaio, pur cambiando linea nel tempo, per via di alcune defezioni e della morte di Panzieri. Come si è accennato, le prime proposte di Panzieri vanno nella direzione di riscoprire alcuni testi di Marx trascurati fino ad allora (la IV sezione del I Libro del

Capitale, il Capitolo VI inedito ed i Grundrisse, in particolare il Frammento sulle Macchine) e, a partire da questi, ripensare ad un rinnovamento del movimento operaio,

con la consapevolezza del nuovo piano organizzativo e dispotico del capitale, realizzato attraverso l’introduzione delle macchine. Per fare ciò, fu necessario ricorrere ad un metodo e ad una scienza: secondo Panzieri, l’esperienza proletaria poteva essere indagata attraverso il metodo sociologico e le sue tecniche di ricerca. Coloro che misero in atto la metodologia sociologica, attraverso inchieste operaie nelle grandi fabbriche, furono Montaldi e Alquati, sebbene per quest’ultimo dovesse essere uno strumento soltanto temporaneo, poiché la critica dell’economia politica doveva restare centrale.299 Essi realizzarono interviste e questionari per dialogare con il mondo operaio, in una sorta di

con-ricerca con i lavoratori. Della Volpe, invece, sottolineò l’importanza di rileggere

Marx a partire dalle fonti e dal suo metodo dal concreto al concreto. All’interno del movimento operaista si può dunque notare, sin dal principio, un approccio metodologico e teorico molto diverso, che finisce per strutturarsi in Tronti, per il quale la critica marxista deve andare oltre all’Accademia e al teoreticismo, per lasciar spazio alla lotta di classe e ad un’organizzazione autonoma della classe operaia.

Dal punto di vista dei soggetti politici e della discussione intorno alla lotta di classe, è Alquati a proporre alcune nuove categorie, tra cui l’idea di composizione di classe. Si

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tratta di studiare la composizione di classe, ovvero di fare un’analisi delle caratteristiche oggettive e soggettive della forza-lavoro, riconoscendo il suo ruolo nel processo lavorativo e indagando le sue possibilità emancipative a partire da azioni politiche concrete. Anche attraverso questo aspetto, è possibile leggere l’operaismo come un movimento ricco di posizioni diverse. Infatti, il problema della composizione di classe si intersecava con il cambiamento delle tecniche produttive aziendali: si tenga presente che, verso la fine degli anni Settanta, il modello fordista iniziava ad andare in crisi, preparando il terreno per l’avvento del post-fordismo degli anni Ottanta. Questa lenta trasformazione delle tecniche produttive e lavorative portava alla nascita di ulteriori categorie di lavoratori e di mansioni; la composizione di classe, a sua volta, si modificava. Furono molte le discussioni operaiste concernenti:

- la divisione del lavoro, sempre più specifica, che portava inevitabilmente ad una frantumazione della coscienza di classe, con l’esclusione degli operai dalle decisioni politiche di orientamento delle aziende;

- il ruolo dei tecnici, eretti a modello per tutti gli altri operai, circostanza che alimentava gli antagonismi e i conflitti tra gli stessi;

- l’esigenza di comitati di base di operai al posto dei sindacati, visti ormai come organizzazioni di burocrati, funzionali al capitale;

- il ruffianesimo300, la modalità di alcuni operai molto produttivi di dettare il tempo del cottimo per tutti gli altri, che risultava essere un controllo dispotico verso loro stessi, verso i compagni, i capi, i sindacati, e il quale non era, in fin dei conti, nient’altro che una collaborazione, forzata e necessaria, con i padroni;301

- il rapporto tra teoria e pratica politica: per Tronti la teoria ordina e informa la pratica, ma i miglioramenti teorici derivano dalle rotture pratiche, per Negri la teoria è la leva scientifica e l’arma pratica;302

300 Termine di utilizzo operaio scoperto in un’inchiesta da Alquati. Egli, descrivendo la potenzialità e i tempi del lavoro in linea, afferma: «La cosa poi può essere abilmente potenziata, distribuendo un certo numero di ruffiani, o soltanto di persone che, come vedremo altrove, per tutta una serie di ragioni (che il capo controlla) tendono a “tirare” il tempo» (R. Alquati, Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti, in «Quaderni Rossi», 1962, n. 2, p. 82). 301 S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, p. 84.

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- la spontaneità e l’autonomia operaia come mezzi, da un lato, per una possibile ribellione, dall’altro, l’esigenza di organizzazione e di un partito esterno per direzionare le scelte.

Le problematiche legate al mondo operaio furono molteplici in quegli anni, così come le proteste, gli scioperi e le richieste che arrivavano, in modo particolare, dai lavoratori delle aziende più rappresentative quali la Fiat di Torino, le industrie petrolchimiche di Porto Marghera, le siderurgiche a Genova, la Pirelli di Milano e l’Olivetti di Ivrea.

Dal punto di vista teorico, per Tronti, la classe operaia era composta da diversi strati della forza-lavoro che potevano essere ricondotti ad un’unica massa sociale, soltanto grazie alla lotta. Inizialmente, la categoria utilizzata fu quella dell’operaio massa, un tipo generico di lavoratore non qualificato, mero esecutore di semplici mansioni e collocato all’interno del processo di produzione immediato:

Interscambiabile individualmente ma indispensabile collettivamente, privo dei vincoli che legavano i lavoratori specializzati alla produzione, l’operaio massa personificava l’aspetto saliente della moderna società capitalistica, la sussunzione del lavoro concreto al lavoro astratto.303

Per Tronti, l’operaio massa era la vittima delle logiche e delle tecniche produttive tayloriste e fordiste, il soggetto politico in grado di lottare contro il capitale e sovvertire il suo regime, poiché l’unico a possedere un potenziale antagonista e conflittuale. Se il capitale era dipendente da un’unica merce, la forza-lavoro, allora soltanto essa poteva essere capace di distruggerlo. La lotta operaia diventava così sinonimo di ribaltamento del primato tra capitale e lavoro. Sin dai «Quaderni Rossi» e dal saggio La fabbrica e la

società304, Tronti rifletteva sulle trasformazioni che il plusvalore relativo, nella forma del capitale sociale, aveva prodotto all’interno della società capitalistica. In quello scritto, Tronti considerava i rapporti sociali, sussunti sotto il capitale, un momento fondamentale del rapporto di produzione. In sintesi, egli non vedeva la legge del valore come prova del fatto che gli operai producessero la ricchezza sociale: il punto stava nella dipendenza che il capitale aveva dalla sua merce preferita, la forza-lavoro. Se la forza-lavoro era il lato attivo del capitale, allora la classe operaia era l’unica in grado di sconfiggere il capitale e poteva farlo soltanto dall’interno. Il pensiero di Tronti prevedeva, dunque, un

303 Ivi, p. 146.

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antagonismo tra il lavoro e la forza-lavoro, uno dei problemi teorici che lo fece allontanare dai «Quaderni» per fondare «Classe Operaia».305 Quest’idea, approfondita nel celebre scritto trontiano Operai e Capitale, portava con sé la strategia operaia di essere dentro e

contro il capitale, dando all’autonomia della classe un ruolo fondamentale. La classe

operaia era la causa dello sviluppo capitalistico, ma poteva sottrarsi dal produrre e diventare forza politica rivoluzionaria. Alla base del ragionamento trontiano c’era una visione diversa della teoria del valore:

Valore-lavoro vuol dire allora prima la forza-lavoro poi il capitale; vuol dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è

condizione del capitale.306

Come ricorda anche Harvey:

The working class (however defined) is the embodiment of anti-value. It is on the basis of this conception of alienated labour that Tronti, Negri and the italian autonomistas build their theory of labour resistance and class struggle at the point of production.307

Dietro a queste considerazioni sorgeva, infatti, una specifica rilettura di Marx: per Tronti non solo il rapporto di classe e dei salariati produce il rapporto capitalistico, ma bisogna auspicare ad una società senza lavoro, evitando di considerare il lavoro, come prodotto degli operai uniti, al centro. In aggiunta, la visione di Tronti non considerava, in nessuna fase della storia, l’operaio come singolo, ma al contrario ammetteva che questo nascesse come collettivamente organizzato. Ciò significava non ammettere la natura capitalistica del lavoro collettivo, ma vedere il rapporto di classe antagonista come il responsabile della nascita del rapporto capitalistico. Inoltre, se la forza politica della classe è legata al suo essere produttiva, il capitale economico, per contrastarla, utilizza la classe capitalistica, la quale deve pensarsi come forza politica ed entrare nelle istituzioni statali. A partire da questa visione, Tronti estendeva il concetto di classe operaia come

dentro e contro il capitale, giungendo all’idea dei rivoluzionari dentro e contro il partito,

fino a considerare il partito dentro e contro lo stato.

305 C. Corradi, Forme teoriche del marxismo italiano (1945-79), p. 35. 306 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, p. 38.

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Nelle pagine di «Classe Operaia», accanto al concetto di operaio massa, sorse anche la questione del salario: una delle principali lotte divenne quella di slegare la retribuzione dalla produttività, chiedendo salari più alti e meno lavoro. Ciò significava, ancora una volta, andare nella direzione del rifiuto del lavoro e, lottando per un aumento del salario, riappropriarsi della ricchezza sociale. L’importanza delle lotte salariali fu uno dei

leitmotiv dell’operaismo, sostenuta anche da Negri. L’unico in disaccordo su questo punto

era Panzieri, per il quale l’aumento del salario garantiva semmai «catene più dorate».308 Considerare il salario come variabile indipendente, sganciato dalla produttività, lo rendeva uno strumento redistributivo e non di remunerazione del lavoro svolto. Considerare il salario come una variabile indipendente309, significava non solo leggerlo come un’appropriazione di reddito slegata dal lavoro, ma vedere plusvalore assoluto e plusvalore relativo come esclusivi, massimizzando il lavoro necessario (quello che serve alla riproduzione e alla sussistenza degli operai). In questo modo, la distribuzione diventava un rapporto di forza, il cui fine era la diminuzione del pluslavoro. Il capitale, dinamico e in costante cambiamento, rispondeva con esternalizzazione e inflazione, imponendo nuovamente il suo comando.310 L’operaismo leggeva la risposta dello Stato come un passaggio necessario di un processo dinamico che può risvegliare la classe operaia, determinando una ricomposizione di classe e ricostituendo un nuovo soggetto politico. Questa volta non si trattava più dell’operaio massa, ma dell’operaio sociale: l’estensione dell’antagonismo dell’operaio di fabbrica a tutta la società. È questa la fase in cui la riflessione di Toni Negri si inserisce all’interno del discorso sulla cooperazione portato avanti sin qui. Rileggendo il Capitolo VI inedito, Negri trova nella cooperazione quell’elemento, esteso dalla fabbrica alla società, che ha dato vita al lavoratore collettivo e alla fine della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo. Le conseguenze di questa trasformazione sono principalmente l’uscita della produzione di valore dalla fabbrica alla società – la valorizzazione non avviene più soltanto nel processo lavorativo immediato – e la società come il nuovo teatro della lotta. In breve, sin da quel momento, con l’operaio

sociale, risultato dell’unione tra le tesi operaiste, alcuni concetti della filosofia francese

(di Lacan, Foucault, Deleuze e Guattari) e le riflessioni di alcuni pensatori moderni (uno fra tutti Spinoza), Negri ha inaugurato un nuovo tipo di riflessione (post-operaista) che è

308 R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, p. 66.

309 Cfr. R. Bellofiore, L’operaismo degli anni ’60 e la critica dell’economia politica, in “Unità proletaria”, 1982, n. 1- 2, pp. 100-112. Per Bellofiore la posizione operaista che giudica il valore la conseguenza del conflitto tra salari e profitti è riconducibile a Sraffa e non a Marx.

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giunta fino ad oggi per mezzo delle teorie postmoderniste, postfordiste e quelle riguardanti il capitalismo cognitivo.

Negli anni Settanta, ebbe luogo una netta divisione nel movimento operaista: - l’operaismo di sinistra e l’autonomia del sociale, con la voce autorevole di Negri; - l’operaismo di destra e l’autonomia del politico, rappresentato da Tronti e Cacciari. Entrambe le correnti condivisero l’idea che fosse necessario guardare al rapporto politico antagonistico, più che al rapporto di produzione – dimenticando la legge del valore e la critica dell’economia capitalistica. I secondi, però, ritennero fondamentale combattere anche su un piano istituzionale: la classe operaia abbisognava di un partito, il PCI. Se, dunque, negli anni Sessanta la classe operaia era autonoma, nei Settanta divenne essenziale l’organizzazione politica attraverso il partito.

L’esperienza operaista finirà per autodistruggersi negli anni Ottanta, insieme alla lenta decadenza del PCI, con cui ormai, una buona parte degli operaisti, si era identificata. Uno degli errori sarà il considerare la politica e le sue istituzioni come uniche vie possibili, finendo per credere, di fatto, al sistema capitalistico come paradigma indistruttibile, e perdendo ogni capacità di critica dello stesso. Come si vedrà brevemente nei prossimi paragrafi, all’operaismo seguirà il cosiddetto post-operaismo, guidato principalmente dalla figura di Negri e dal suo concetto di moltitudine, la cui architettura sembra teorica e sfuggente. Lo stesso Negri, a seguito della pubblicazione del suo testo Impero, in un’intervista edita online sulla rivista di filosofia «Jura Gentium», ha dichiarato all’intervistatore:

Hai ragione nel denunciare la mancanza di una definizione analitica sufficiente del concetto di moltitudine in Impero. Faccio volentieri autocritica, tanto più che su questo termine stiamo, io ed Hardt, alacremente lavorando.311

Infatti, soltanto due anni dopo l’intervista, è uscito il testo Moltitudine.312 Negri sottolinea la differenza tra il concetto di moltitudine e quello di popolo o di massa, definendo la prima come una molteplicità di singolarità che non ha un’unità

311 D. Zolo, L’Impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/negri.htm, in “Jura Gentium”, consultato il 24/4/2020.

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rappresentativa. L’idea di moltitudine è contrapposta a quella di classe: secondo Negri è questa categoria è necessaria per racchiudere un nuovo tipo di lavoratore presente al centro della società odierna, ovvero il lavoratore immateriale (ed il suo cervello). Quest’idea consegna alla moltitudine una potenza politica nuova, dalla quale sorgono altrettante nuove categorie politiche.