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4. Forme di cooperazione: prospettive e ipotes

4.3 Il caso del jazz: un’ipotesi di cooperazione

Come abbiamo visto analizzando la teoria sull’ambivalenza della cooperazione, se è fondamentale cogliere la differenza tra la cooperazione utilizzata e pianificata dal capitale e una possibile cooperazione liberata da esso, allora è necessario ritornare alla questione centrale, sottolineata da Marx, dell’organizzazione gerarchica e dispotica presente all’interno della fabbrica. L’ambivalenza della cooperazione si esprime proprio in questi termini: è la facoltà della specie umana che oscilla tra il liberare le facoltà individuali, mediante un lavoro collettivo organizzato, e la loro oppressione tramite il dominio dispotico di chi detiene il potere della sua pianificazione. Cosa rende, dunque, la cooperazione – potenziale facoltà emancipatoria – una delle più gravi forme di sfruttamento per la collettività? La sua pianificazione gerarchica, violenta e dispotica. Ciò non significa, però, che nelle forme cooperative non debba esistere un certo tipo di pianificazione, se questa può essere pensata come un’organizzazione di regole scelte e condivise da tutti. Il problema non è, dunque, l’organizzazione in sé, ma la modalità nella quale si esplica. Ancora una volta, con Marx, la nostra critica si rivolge alla funzione dispotica, alle forme di controllo e alle relazioni di potere generate dal capitale. A partire da queste premesse, si vuole guardare al jazz come ad un modello in cui si annullano le gerarchie fisse e i poteri dispotici, per mettere in atto – e in musica – un tipo di cooperazione basata su uno scambio libero, interdipendente, dinamico e continuo. Si tratta, infatti, di una forma di cooperazione pianificata ma non dispotica, diametralmente opposta alla forma di cooperazione scelta dal capitale e dai suoi dispositivi di potere. Per sostenere l’idea che il jazz sia una forma cooperativa libera dalle rigide gerarchie del modello capitalistico e, quindi, una possibile via dalla quale prendere spunto, è necessario riportare alcune considerazioni emerse all’interno di una serie di studi filosofici, sociologici e musicologici.

Sin dalla sua nascita, la musica jazz è stata al centro di numerosi dibattiti teorici. Anche Gramsci, in una delle sue lettere dal carcere a Tania, del 27 febbraio del 1928, scrive sul

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jazz, in seguito ad una discussione che ha avuto con un evangelista preoccupato rispetto

alle influenze che i culti orientali stavano esercitando sulla civiltà occidentale:

Il buddismo non è una idolatria. Da questo punto di vista, se un pericolo c’è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai Negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-band, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva e elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico.395

Come sottolinea Spina in un contributo riguardo al rapporto tra Gramsci e il jazz, il tono della lettera è da considerare ironico e leggero, nonostante le tematiche affrontate siano profonde e di grande significato politico.396 Per comprendere il pensiero

gramsciano, la lettera va contestualizzata: non si può prescindere dal periodo storico e dal pensiero politico davanti all’avvento di nuove avanguardie o movimenti artistici. Se da un lato, alcuni stili artistici o musicali portavano alla luce nuove culture e rivendicazioni, dall’altro si diffondevano in Europa grazie al pubblico borghese, principale motivo di sospetto per Gramsci. Egli, infatti, si concentra su caratteristiche ben precise del nuovo genere musicale, quali il fatto che generi fanatismo, ripetitività ed esagerazione, ovvero effetti psicologici e ideologici pericolosi. Infatti, secondo Spina:

il pericolo che nettamente, anche se con l’attenuazione dell’ironia, Gramsci prospetta è quello della semplificazione, della massificazione, della riduzione all’elementarità delle sensazioni, del coinvolgimento di masse sempre crescenti, soprattutto di giovani, in tale esercizio fisico-mentale, dei riflessi, infine che tale aspetto della personalità, educato attraverso il linguaggio universale della musica, che comunica

395 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 2011, p. 77. 396 L. Spina, Gramsci e il jazz, in «Belfagor», IV (1989), n. 44, pp. 450-454.

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immagini e impressioni di una cultura estranea a quella europea, può avere sul comportamento ideologico, e perché no, politico di un individuo.397

Senza entrare nel merito del punto di vista gramsciano, è certo che il suo obiettivo è quello di guardare in modo critico ad un nuovo fenomeno culturale. Come nel caso della critica di Adorno al jazz, più decisa e serrata, non si può non convenire che, anche di fronte a fenomeni culturali e artistici, vi è sempre un tentativo di assorbimento da parte del capitale, interessato al loro valore di scambio, alla creazione di sempre nuovi rami produttivi e di veri e propri settori commerciali, come quello musicale, fatto di case discografiche, concerti, gadgets. Se in Gramsci il jazz non può prescindere da un’analisi senza sospetto, poiché ripetitivo, massificato e influente sul singolo in termini politici (coerentemente con i suoi concetti di egemonia culturale e di forma di dominio culturale), sebbene commentato con ironia forse per paura di equivocare, nella successiva riflessione adorniana la questione risulta, per alcuni versi, molto più chiara ed evidente. In estrema sintesi, per Adorno il jazz è musica di massa prodotta dall’industria culturale per fare profitto.398 Per altri versi e su livelli differenti, la tesi adorniana è teoreticamente molto

più complessa e certamente non ideologica, come spesso erroneamente, è stata giudicata. Non è possibile entrare nel merito della complicata questione399, ma si potrebbe avanzare

l’ipotesi che, per Adorno, non sarebbe pensabile scegliere il jazz come esempio di cooperazione libera dal dominio e dal potere; infatti, nella sua riflessione, spontaneità e improvvisazione sono caratteristiche illusorie e ingannevoli della suddetta pratica musicale. Invece, nella lettura del jazz che si vuole portare in luce sono alcune caratteristiche tipiche del genere musicale, in modo particolare del free jazz, che lo rendono immediatamente cooperativo nel senso qui ricercato. Per sostenere questa tesi, è necessario guardare sinteticamente ad alcuni studi: si farà riferimento, in modo particolare, a Davide Sparti e alla sua lettura sull’importanza dell’improvvisazione nella musica jazz. Egli individua l’improvvisazione come una competenza determinata e tipica dello stile musicale in questione, definibile secondo cinque criteri:400

397 Ivi, p. 453.

398 Cfr. T. W. Adorno, Variazioni sul jazz. Critica della musica come merce, trad. it. S. Marino, MIMESIS, Milano- Udine 2018.

399 Cfr. A. de Simone, Il soggetto e la società in forma di musica. Composizione per variazione su Theodor W. Adorno e l’intrigo ineffabile del jazz, in «The Lab’s Quarterly», XXI (2019) n. 1, pp. 31-40. L. Corchia, La critica di Adorno alla popular music, in «The Lab’s Quarterly», 2017, n. 4, pp. 31-55.

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1) L’inseparabilità: nella musica jazz, composizione ed esecuzione sono due atti che diventano un unicum, al contrario della musica classica, ad esempio, dove prima vi è la stesura della partitura scritta da un compositore, e poi la sua messa in pratica da parte dei musicisti. Nel jazz, invece, il processo creativo e il risultato sono agiti da tutti e nello stesso momento.

2) L’originalità: nel jazz l’improvvisazione è sempre sinonimo di novità, contrariamente alla musica classica, dove il musicista deve riprodurre fedelmente lo spartito, senza innovazioni o modifiche, che altrimenti sarebbero considerati errori.

3) L’istantaneità: l’improvvisazione nel jazz avviene nell’hic et nunc, motivo per il quale quel momento è inatteso e irripetibile, privo di previsione passata o aspettativa futura.

4) L’irreversibilità: nell’improvvisazione jazz non è possibile tornare indietro, correggersi o ricominciare; chi suona, infatti, continua ciò che lui stesso, o uno dei musicisti accanto, ha proposto.

5) La ricettività: nel jazz, per rispondere e continuare a suonare, è fondamentale l’attenzione, ovvero la facoltà di reagire a ciò che è stato proposto, che a sua volta influenza il corso della performance.

A queste caratteristiche, Roch Duval che ha recensito il testo di Sparti, ne aggiunge una: 401

6) La pertinenza: nonostante l’atto d’improvvisazione sia libero, deve essere pertinente a quello suonato precedentemente, sottolineando nuovamente l’importanza che l’attenzione occupa in questa pratica.

Anche a partire da questi criteri, la tesi di Sparti sull’improvvisazione nel jazz conduce ad individuare delle caratteristiche che vanno nella direzione di un modello altamente cooperativo, dove non c’è un compositore che scrive la partitura, un direttore che guida l’esecuzione o un’organizzazione fissa e stabile di gerarchie. Al contrario, le condizioni necessarie per una performance d’improvvisazione prevedono che ciascuno dei musicisti

401 Cfr. R. Duval, Actualité et pertinence du thème de l’improvisation, in “Critical Studies in Improvisation”, https://www.criticalimprov.com/index.php/csieci/article/download/72/103?inline=1, consultato il 22/5/2020.

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rivolga attenzione402: al tema che è stato proposto, a tutti gli altri musicisti che suonano con lui (senza distinzioni) e alla costruzione di un “discorso” comune, sempre nuovo, pronto ad una successiva e improvvisa reazione. Come spiega Sparti, invece, la composizione presente in tutti gli altri generi musicali si riferisce ad un prodotto creato in precedenza e, dunque, ad un processo generativo che sembra essere controllato.

On the contrary, precisely because it is not finalized in an external product (it produces a result, but not a product), improvisation is always an ongoing process403,

always exposing its own practice. In the improvised solo there is no goal outside the process that might constitute a development toward a conclusive end.404

Questa è un’altra delle caratteristiche fondamentali dell’improvvisazione del jazz: il suo determinare un ongoing process, ovvero un processo dinamico, continuamente in movimento, che a differenza di altre forme artistiche come la pittura, la scultura, o altri generi musicali, non ha un piano già definito alla base e non prevede la creazione di un prodotto, ma bensì di un risultato sempre modificabile. Questa è una delle ragioni per cui si può considerare il jazz una forma d’arte pratica, non una scuola o un genere musicale. Durante una performance jazz, nonostante i musicisti si basino su un corredo comune di segni, non è possibile, per loro stessi e per gli ascoltatori, prevedere ciò che eseguiranno: è la dimensione dell’inatteso che diventa lo sfondo e anche l’origine della novità.

È fondamentale, però, una precisazione: improvvisazione non vuol dire casualità e/o anarchia. Durante l’atto di composizione-esecuzione del jazz, infatti, vige un sistema di regole condivise:

occorre evitare la ripetizione, ma occorre pure evitare di cadere in qualcosa che assomigli ad una “zuppa” indistinta, un’improvvisazione priva di forma e di tensione, in cui ciascun musicista insegue idee diverse o corre appresso a quello che fa l’altro o non riesce mai a “chiedere” l’assolo.405

Come spiega Maya Gratier, tra i musicisti jazz, durante le performance improvvisate, vi è una sorta di mutua comprensione: essi tentano di comprendere vicendevolmente le

402 Riguardo al tema dell’attenzione, al rapporto tra l’attenzione individuale e collettiva, ai suoi aspetti culturali e al suo rapporto con la società digitale: Cfr. E. Campo, La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale, Donzelli Editore, Roma 2020.

403 Corsivo mio.

404 D. Sparti, Images of a Sound, Portraits and Picture of Jazz, in «Imaginations», I (2010), n. 1, p. 124.

405 D. Sparti, Lo spettro dell’irriconoscibilità. Identità e incertezza nel jazz, in «Rassegna italiana di Sociologia», XLVIII (2007), n. 4, p. 634.

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loro intenzioni espressive, negoziando in modo collaborativo le possibilità esecutive.406 Questo processo dà vita ad un continuo monitoraggio di conoscenze, credenze e assunzioni condivise che sono la base del grounding, ovvero del sentirsi legati ad un

common ground di rappresentazioni createsi in modo cooperativo, grazie all’attenzione e

all’ascolto di tutti i membri. Questo coordinamento non potrebbe avvenire se i musicisti non facessero affidamento su un sistema di regole tacite e concordate collettivamente:

Musicians clearly rely on a whole set of tacit rules and knowledge about their music that guides their performance. And many of these tacit rules and expectations are derived from a history of playing together within local “jazz communities”.407

Si potrebbe affermare che nel jazz, oltre al fine di fare musica comune a tutti i musicisti, vi è una cornice condivisa, fatta di negoziazioni continue, che si esplica direttamente nella pratica e dà luogo ad un processo di cambiamento continuo. Ciò è possibile sempre all’interno di un sistema di regole che, se pur generali, forniscono dei limiti entro cui agire. Questo tipo di modello appare come una forma cooperativa organizzata senza gerarchie, in cui è lecito progettare e rinegoziare continuamente limiti e soluzioni, all’interno di un processo e progetto comune, dove nessuno è escluso o vale meno degli altri partecipanti. Non vi è dispotismo, controllo o sorveglianza: le regole sono stabilite e approvate da tutti. Questa forma di cooperazione, implicita e spontanea, alla base delle jazz performance ha reso possibile riferirsi ai musicisti jazz come ad una

jazz community. L’appellativo non è soltanto teorico: sono nate delle vere e proprie

comunità di jazzisti nel mondo. Un celebre esempio è quello dell’Arkestra di Sun Ra: i musicisti non condividono soltanto la passione per il jazz, ma vivono tutti insieme in una casa, il Sun Palace, come in una sorta di comune. È ancora Sparti che racconta la loro esperienza:

il punto è che l’agire dei membri dell’Arkestra diventa gratificante, perché, stando insieme, si realizza una solidarietà interpersonale […] la band stessa viene cioè a coincidere con un gruppo coeso i cui membri sono legati l’uno all’altro in maniera forte e duratura […] si condivide non solo un’area di performance, ma anche pasti, un tetto, ed un senso di comunità. Una sorta di socialismo musicale.408

406 M. Gratier, Grounding in musical interaction: Evidence from jazz performances, in «Musicae Scientiae», XII (2008), n. 1, p. 71.

407 Ivi, p. 81.

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Gli esempi storici che riporta Sparti sono molteplici, alcuni dei quali legati al nome di Horace Tapscott, jazzista e militante per i diritti degli afroamericani. Egli fondò diversi gruppi: la Pan Afrikan Peoples Orchestra, l’Underground Musicians Association e l’Union of God’s Musicians and Artists Ascension.

Tapscott si riferisce ai propri gruppi con il termine The Ark, a sottolineare sia la necessità di preservare, insegnare ed eseguire la musica afroamericana, sia l’arca quale luogo di raccolta di pochi sopravvissuti tenacemente motivati a resistere ed a restare uniti.409

Negli esperimenti di Tapscott vi era anche il desiderio di suonare e portare il jazz nei quartieri poveri di Los Angeles, restituendo alle comunità residenti una parte della loro storia attraverso la musica. Perseguendo questo intento, Tapscott e i musicisti dei suoi progetti musicali suonavano nei parchi, negli scantinati, nelle strade dei ghetti, in luoghi abbandonati e gratuitamente. Ciò permetteva di costituire una vera e propria rete con il mondo sociale esterno, uscendo dall’isolamento che ha caratterizzato alcuni altri esperimenti della jazz community. Tapscott e Sun Ra non furono i soli: Sparti individua molti altri esempi che vanno da «cooperative di produzione e distribuzione musicale (basate sulla responsabilità condivisa nei confronti della musica piuttosto che sulla distinzione gerarchica fra leader e gregari)» 410 a camion adattati a veri e propri palchi

mobili per diffondere il jazz nelle strade di Harlem.

Si tenga in considerazione, però, che non si vuole privilegiare il jazz, attraverso gli esperimenti pratici appena citati, o affermare che sia stata l’unica forma, nel panorama musicale, a rivendicare i diritti degli afroamericani o a portare la musica tra i quartieri poveri. In Giamaica, ad esempio, a partire dal mento, il genere musicale tipico del paese, influenzato dalle tonalità caraibiche di rumba e calypso, o a quelle europee e nordamericane del rhytm’n’blues, fiorirono lo ska, il rocksteady e il reggae. Questi generi diedero voce ad alcune istanze politiche e sociali simili a quelle del jazz: vennero costruiti i soundsystem, grandi sistemi di casse ambulanti accatastate l’una sull’altra, in grado di portare la nuova musica tra le vie dei ghetti e degli slum di Kingston. Soprattutto nel caso del reggae, la musica è stata caratterizzata da numerose rivendicazioni sociopolitiche degli afroamericani e, in modo particolare, delle comunità dei Rastafari. Il governo

409 Ivi, p. 646. 410 Ivi, nota 20, p. 647.

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giamaicano reagì inizialmente con politiche di repressione, fin quando si rese conto che la musica reggae poteva essere uno strumento utile per il controllo sociale e per l’industria turistica.411

Al di là quindi dei possibili esperimenti concreti, portati avanti anche da altri generi musicali radunati intorno alle loro rispettive comunità, si è scelto di privilegiare il jazz, quale modello teorico-pratico, per via delle questioni citate, legate all’improvvisazione e alla forma cooperativa che le sue performance stabiliscono. In queste ultime, come si è tentato di descrivere, la costruzione del risultato musicale è un processo continuo formato da interazioni di tipo cooperativo, racchiuse in una cornice di regole che è necessario conoscere e sottoscrivere per poter suonare. Se esistono delle disuguaglianze durante l’atto creativo, laddove ad esempio il solista o il conductor guida la performance, si resta comunque all’interno di un processo cooperativo; le asimmetrie, infatti, non sono gerarchie. In questo senso Sparti parla di emergenza collaborativa: «un processo circolare […] poiché scaturisce dall’interazione fra chi suona e conduce ad un esito complessivo che non è del tutto prevedibile partendo dalle intenzioni dei singoli musicisti».412 Infatti, come si è sottolineato, l’attenzione e il monitoraggio reciproco rendono l’esecuzione un progetto comune, anche quando uno dei musicisti si fa portatore del tema principale.

In ultimo, si ritiene possibile considerare il jazz e le sue performance come possibili varianti del gioco, nel significato che questa attività ludica ha nella teoria dei mondi

intermedi di Iacono.413 Rielaborando, tra i tanti, gli studi di Bateson414 e Huizinga415, Iacono sostiene che il gioco sia un mondo intermedio, ovvero un universo di significato in cui i partecipanti condividono un codice di regole comuni e la consapevolezza di agire ed essere, allo stesso tempo, dentro e fuori gli altri possibili mondi esistenti. Come nell’esempio del gioco di Bateson sono due giovani scimmie, in Iacono sono due gattini: essi giocano alla guerra, combattendo e interagendo, ma con limiti e regole ben precise. Nel caso in cui i gattini venissero meno alle regole, si romperebbe la dimensione intermedia, il mondo del gioco appunto, e si ritroverebbero nel mondo della guerra. Così come nelle jazz performance, nell’improvvisazione teatrale, nello sport, anche nel gioco

411 S. A. King, The Co-optation of a ‘‘Revolution’’: Rastafari, Reggae, and the Rhetoric of Social Control, in «Howard Journal of Communication», X (2010), n. 2, pp. 77-95.

412 D. Sparti, Musica ed emozioni. Il caso del jazz, in «Sistemi intelligenti», XXVII (2015), n. 2, p. 450.

413 Cfr. A. M. Iacono, Storie di mondi intermedi, Edizioni ETS, Pisa 2016 e A. M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, Edizioni ETS, Pisa 2005.

414 Cfr. G. Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia, in Id., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976. 415 Cfr. J. Huizinga, Homo ludens, trad. it. C. Van Schendel, Einaudi, Torino 1973.

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dei bambini o dei cuccioli di molte specie animali, si crea un mondo intermedio dove il sistema di significati, confini e ruoli è dato dalle interazioni e dalle relazioni dei partecipanti: essi condividono, attraverso il coinvolgimento emotivo e la consapevolezza di vivere in una realtà cooperativa, una dimensione che è contemporaneamente parallela e reale. Come scrive Iacono:

L’autonomia non è rappresentata dall’individuo isolato e egoista che considera i suoi simili soltanto come ostacoli all’espansione del proprio ego e dei propri interessi, ma è espressa da più individui impegnati da regole che mantengono la relazione reciproca.416

È fondamentale allora considerare il jazz, il teatro, lo sport, come delle varianti di

gioco in cui i soggetti vivono una dimensione all’interno della quale la cooperazione

diventa la base del loro agire. Quando gli individui vivono in un mondo intermedio non si astraggono dalla realtà o dagli altri possibili mondi paralleli: restano simultaneamente