• Non ci sono risultati.

4. Forme di cooperazione: prospettive e ipotes

4.4 La cooperazione ai tempi dell’emergenza Covid-

La pandemia ci sta insegnando semplicemente che ne possiamo uscire solo se la cooperazione prevale sulla competizione,

il senso collettivo sull’individualismo, la sanità e la scuola non saranno più aziende alla ricerca del PIL, il debito pubblico può aiutare a ricostruire quello stato sociale che il neoliberismo ha smantellato.

(A. M. Iacono, Un evento inatteso che spinge verso la poesia della vita, in “Il Manifesto”)

Il 2020 sarà ricordato, dalle prossime generazioni e dai libri di storia, come l’anno della pandemia di Covid-19, una malattia provocata da una nuova tipologia di coronavirus (SARS-CoV-2). A partire dai primi casi individuati in Cina a gennaio, l’umanità intera ha vissuto, e sta tuttora vivendo, un delicato momento storico definito da molti come epocale. In questa situazione emergenziale non solo dal punto di vista sanitario, ma anche sociale, economico e politico, si è riaperto il dibattito intorno al concetto di cooperazione, su più livelli.

Innanzitutto, si è scritto e parlato molto riguardo alla cooperazione internazionale. Se per certi versi ciascun stato ha adottato le sue strategie autonomamente, decidendo se e quando chiudere i confini per evitare l’innalzamento dei contagi, per altri, alcuni paesi sono stati in grado di collaborare per una possibile soluzione condivisa del problema. Senza voler prendere posizione condannando o appoggiando le scelte politiche di un governo piuttosto che di un altro, è possibile guardare agli Stati Uniti d’America come ad

145

un paese inefficiente nella pratica collaborativa, e viceversa, a paesi come La Repubblica di Cuba, l’Albania e La Repubblica Popolare Cinese come possibili esempi di cooperazione internazionale. Se da un lato, gli USA non sono stati in grado di creare tavoli di confronto e di cooperazione, ma al contrario hanno tagliato i fondi all’Oms, accusato la Cina di aver contagiato il resto del mondo, bloccato la vendita di respiratori a Cuba a causa dell’embargo – nonostante la grave crisi sanitaria stesse dilagando – dall’altro, Cuba, Albania e Cina, hanno inviato materiale e personale sanitario specializzato in aiuto dei paesi del mondo più colpiti, Italia compresa. Non si vuole qui entrare nel merito della complessa questione che riguarda la cooperazione internazionale, ma solo individuarla come un tipo di cooperazione su cui si è tornati a riflettere durante la pandemia. D’altra parte, alcune riflessioni hanno messo in luce la presenza di un meccanismo contrario, quello di competizione tra gli stati, che si è principalmente verificato nella corsa all’accaparramento delle risorse sanitarie necessarie per curare la malattia e prevenire i contagi. La metafora della guerra e l’utilizzo della terminologia militare hanno fatto presagire anche una corsa spasmodica alla ricerca delle biotecnologie più avanzate per assicurarsi, autonomamente, un possibile vaccino o una potenziale cura per il futuro. Come scrivono Apuzzo e Kirkpatrick, il modello competitivo è ciò che i governi vogliono mostrare per far credere ai loro elettori di essere competenti e capaci di trovare delle soluzioni, dimostrando la loro superiorità nel campo della ricerca.423 Apuzzo e Kirkpatrick sostengono la debolezza di questa strategia e ne valorizzano invece un’altra:

Mentre gli stati chiudevano i loro confini, gli scienziati hanno fatto l’esatto contrario, creando un sistema di collaborazione globale che non ha precedenti nella storia. Secondo i ricercatori non era mai successo che così tanti scienziati di così tanti paesi si concentrassero contemporaneamente su un unico obiettivo con una tale urgenza. Al momento quasi tutte le altre ricerche sono state interrotte.424

Infatti, attraverso alcune piattaforme online, ricercatori, accademici, studiosi ed esperti in vari campi del sapere hanno reso disponibili i loro studi scientifici, condividendo le conoscenze rispetto al nuovo virus e permettendo nuove applicazioni delle loro scoperte. Nell’articolo in questione si evidenzia, in modo particolare, come nessun esperto, in un momento così urgente e delicato, abbia pensato di fare profitto

423 M. Apuzzo, D. D. Kirkpatrick, Un nuovo modo per la collaborazione scientifica, in “Internazionale”, https://www.internazionale.it/notizie/matt-apuzzo/2020/04/10/scienza-forze-unite-coronavirus, consultato il 12/4/2020.

146

pubblicando i nuovi studi su importanti riviste scientifiche, ma, al contrario, li abbia semplicemente condivisi gratuitamente attraverso piattaforme consultabili da tutti o tramite videoconferenze. Diversi laboratori universitari e ospedalieri si sono messi in contatto per collaborare e scambiarsi le conoscenze acquisite: epidemiologi e virologi cinesi sono stati essenziali per i medici italiani che si trovavano a contatto con i primi casi, proprio grazie alla condivisione dei metodi e delle cure che gli esperti cinesi avevano sperimentato mesi prima. Nonostante le polemiche sul presunto nascondimento dell’epidemia da parte delle autorità cinesi, i loro scienziati sono stati efficienti e fondamentali per la ricerca mondiale sul Covid-19. Il modello di cooperazione della comunità scientifica non ha soltanto coinvolto i maggiori esperti di tutti i paesi, ma ha permesso alle diverse scienze di condividere studi e risultati, in una ricerca che si è contraddistinta per essere interdisciplinare e interdipendente. Non sono mancate le solite contraddizioni tipiche del sistema vigente: le grandi aziende farmaceutiche hanno iniziato a finanziare la ricerca sul vaccino con innumerevoli rischi, uno fra tutti il guardare al profitto ricavato dalla vendita dei farmaci nei paesi ricchi, senza pensare a risolvere la crisi nel breve termine anche nei paesi sottosviluppati.

Il virus ha poi generato una serie di risposte individuali e collettive su cui si ritiene utile fare alcune considerazioni. Molti hanno affermato che il Covid-19 non ha avuto barriere né confini non solo geografici, ma anche di classe. È senz’altro vero che il virus può colpire chiunque, ma operare in prima linea, come è stato richiesto ai lavoratori dell’industria agro-alimentare, della grande distribuzione organizzata e del settore sanitario (e molti altri che, nonostante non fossero considerati produttori di beni di prima necessità hanno comunque lavorato durante il periodo di lockdown), ha aumentato le loro possibilità di contrarre il virus. Infatti, non tutti possono lavorare da casa o sottrarsi dal lavorare; si consideri, inoltre, il vasto numero di lavoratori in nero che ha, seduta stante, perso il lavoro. In questa situazione di emergenza è nuovamente cresciuto il divario sociale. Le disuguaglianze esistenti a causa del sistema capitalistico non solo sono emerse in modo ancor più evidente, ma sono notevolmente aumentate. Per molte persone non è stato possibile isolarsi e rispettare la quarantena a causa di precarie condizioni socioeconomiche e abitative.

147

Mentre gli sforzi di mitigazione sono opportunamente occultati nella retorica secondo cui «siamo tutti nella stessa barca», le pratiche, in particolare da parte dei governi nazionali, suggeriscono motivazioni più inquietanti. La classe operaia contemporanea negli Stati uniti (composta prevalentemente da afroamericani, latini e donne) si trova di fronte al bivio di rischiare la contaminazione in nome della cura o del mantenimento delle caratteristiche chiave della fornitura (come i negozi di alimentari) o della disoccupazione senza benefici (come quello a un’adeguata assistenza sanitaria). I lavoratori dipendenti (come me) lavorano da casa e ricevono la propria paga proprio come prima mentre i Ceo si spostano in jet ed elicotteri privati.425

Non «siamo tutti nella stessa barca»: ci sono stati uomini e donne che hanno lavorato

per la collettività rischiando la salute, persone che non hanno avuto una casa dove trascorrere la quarantena, altri che hanno continuato a lavorare senza documenti e senza protezioni, molti che sono deceduti per negligenza e incompetenza di altri, o ancora peggio, per interessi di aziende private, in campo sanitario e non. È proprio a partire da questi fatti che la riflessione sulla cooperazione è tornata centrale: senza il lavoro combinato e cooperativo la società capitalistica non può andare avanti. Durante la pandemia, i rami della produzione considerati inessenziali si sono fermati: non era possibile comprare prodotti che non fossero di prima necessità. D’altra parte, invece, molti sono stati costretti a produrre e a lavorare per poter assicurare la soddisfazione dei bisogni dell’intera collettività. La centralità della cooperazione nella produzione capitalistica è risultata ancora più evidente: questo sistema si regge sul lavoro collettivo e sulla forza sociale che mettono in campo i lavoratori quando operano insieme. Non è forse, ancora una volta, fondamentale l’argomentazione marxiana del Capitale? Senza il lavoro collettivo la nostra società si ferma, il capitale non può continuare ad espandersi. Quando tutto si paralizza è più facile vedere cosa si cela dietro alla produzione: l’invisibile torna visibile.426 Il tipo di cooperazione voluta dal regime capitalistico è quella

organizzata e diretta secondo gerarchie e sistemi di controllo. Allo stesso tempo, però, proprio durante la pandemia sono nati progetti ed esperienze di tipo diverso, paragonabili al modello di cooperazione regolato, ma senza imposizioni dispotiche, di cui si è scritto in questo ultimo capitolo. In primis, è stata necessaria una forma di azione collettiva che,

425 D. Harvey, La fine del neoliberismo, trad. it. G. Santoro, in “Jacobin Italia”, https://jacobinitalia.it/la-fine-del- neoliberismo/, consultato il 22/3/2020.

148

paradossalmente, ha permesso di prevenire e limitare il contagio, senza il quale il virus avrebbe continuato a fare vittime: il distanziamento sociale; in secundis, nel dilagare della pandemia, sono sorte iniziative di solidarietà sociale, organizzate da comunità, associazioni di quartiere e molteplici collettivi. Il tentativo di queste reti sociali è stato quello di arginare le prime conseguenze socioeconomiche provocate o ingigantite dall’emergenza: fornire gratuitamente alimenti e pasti nei quartieri e nelle zone più povere di molte città, provvedere a trattamenti assistenziali, sanitari e di distribuzione di farmaci a domicilio, offrire sportelli psicologici online o al telefono, dotare bambini e adolescenti di connessioni internet per permettere loro di frequentare le videolezioni. Insomma, laddove il welfare state è stato manchevole, uomini e donne si sono organizzati con progetti alternativi dimostrando ancora una volta, che alla base di qualsiasi opera sociale, vi dev’essere cooperazione. Il virus sembra aver messo in luce le tante contraddizioni del sistema capitalistico, ma anche le reali possibilità di superarlo, attraverso proposte alternative e lontane dalla riduttiva logica del profitto.

In ultimo, vi sono state anche forme cooperative di lotta, specialmente nei settori dove la pandemia ha reso visibile la precarietà di molti lavoratori e lavoratrici, la cui attività è risultata essenziale per il nostro paese, tanto da essere stati al centro di alcune polemiche mediatiche ed essere citati nei nuovi provvedimenti governativi.

L’esempio che si vuole analizzare è quello dei braccianti che lavorano nelle piantagioni agricole presenti sul territorio italiano. Il loro caso è paradigmatico per una serie di motivazioni. Innanzitutto, la maggior parte dei braccianti vivono e lavorano nell’irregolarità, poiché si tratta spesso di rifugiati e migranti, giunti in Italia dopo lunghi periodi di detenzione in Libia. Il più delle volte, essi lavorano senza alcun contratto di lavoro e senza permesso di soggiorno. Il reclutamento e l’organizzazione del loro lavoro sono lasciati nelle mani di intermediari, i caporali, che assumono i braccianti per brevi periodi, senza rispettare regole o assicurare loro alcun diritto. Con l’aumento degli sbarchi degli ultimi anni, conseguenza delle numerose guerre, regimi dittatoriali, carestie e cambiamenti climatici che si sono verificati in modo particolare in Africa, in alcune zone del Medio Oriente e dell’Asia, l’organizzazione criminale del caporalato e lo sfruttamento della manodopera è aumentato non solo nelle regioni del Sud Italia. Le condizioni in cui i braccianti si trovano e lavorano sono a dir poco disumane: molti vivono in baraccopoli senza luce, senza servizi igienici e privi di qualsiasi forma di raccolta dei rifiuti, vicino ai

149

campi dove raccolgono i prodotti che arrivano sulle tavole di tutti. In Puglia, grazie a

Medici con l’Africa Cuamm, un’organizzazione non governativa che si occupa di diritto

alla salute e tutela delle popolazioni africane, è stato avviato un progetto per portare cure e servizi sanitari nelle tendopoli. Queste ultime in Italia sono circa settanta, sparse su tutto il territorio e “ospitano” circa 100000 braccianti.427 Secondo i dati dell’Osservatorio

indipendente di Bologna, negli ultimi sei anni, a causa delle inesistenti condizioni

igieniche, lavorative, sanitarie e alimentari, sono morti oltre 1500 braccianti.428 Si consideri che quelli riportati sono soltanto i dati ufficiali: quello che succede realmente, legato al lavoro sommerso, non è quantificabile. Una delle tendopoli di cui si è parlato maggiormente è quella calabrese di San Ferdinando, all’interno della zona industriale di Gioia Tauro, nella quale vivono circa 2000 migranti stagionali che vengono sfruttati per la raccolta delle arance.429 È a San Ferdinando che sono morti carbonizzati Al Ba Moussa

(ventottenne senegalese), Suruwa Jaithe (diciottenne gambiano), Sylla Noumo (trentaduenne senegalese) e Becky Moses (ventiseienne nigerina).430 L’ennesimo

dramma è avvenuto il 12 giugno 2020 nella tendopoli di Borgo Mezzanone, nelle campagne del Foggiano: un altro rogo ha tolto la vita a Mohamed Ben Ali, bracciante trentasettenne del Chad.431 Come ha dichiarato tramite un tweet Aboubakar Soumahoro, sindacalista nel Coordinamento Lavoratori agricoli dell’USB (Unione Sindacale di Base) e uno dei fondatori del CISPM (Coalizione Internazionale Sans-Papiers, Rifugiati e Migranti):

è morto un bracciante, ucciso dalle fiamme della miseria a Borgo Mezzanone. Il Governo, indifferente al nostro dolore, ha deciso di non affrontare i padroni: i giganti della filiera agricola. Abbiamo convocato un’assemblea, perché non si può morire così.432

427 L. Gaita, Caporalato e sfruttamento, British Medical Journal: “In sei anni morti 1500 braccianti. 100mila persone nelle tendopoli”, in “Il Fatto quotidiano”, https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/28/caporalato-e-sfruttamento- british-medical-journal-in-sei-anni-morti-1500-braccianti-100mila-persone-nelle-tendopoli/5068778/, consultato il 10/5/2020.

428 Ibidem.

429 Redazione Repubblica, Rosarno: ecco cosa (non) è cambiato a dieci anni dalla rivolta dei braccianti immigrati, in “La Repubblica”, https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2020/01/09/news/rosarno-245334711/, consultato il 3/2/2020.

430 Ibidem.

431 G. Leone, Puglia, migrante muore nella sua baracca, in “Il Manifesto”, https://ilmanifesto.it/puglia-migrante- muore-bruciato-nella-sua-baracca/, consultato il 14/6/2020.

432 A. Soumahoro, Questa mattina è morto un bracciante, in Twitter, https://twitter.com/aboubakar_soum/status/1271347677670891521, consultato il 14/6/2020.

150

Aboubakar Soumahoro è diventato uno dei portavoce delle rivendicazioni dei braccianti del Mezzogiorno. Dopo l’omicidio del 2 giugno 2018, commesso da Antonio Pontoriero, di Soumaila Sacko, bracciante e attivista per i diritti dei lavoratori agricoli, fucilato mentre cercava pezzi di lamiera nella ex fornace Tranquilla di San Calogero433, Soumahoro ha chiesto al Governo Conte di creare un tavolo operativo per lottare contro lo sfruttamento dei braccianti e il caporalato. Durante la pandemia di Covid-19, Soumahoro ha organizzato un crowdfunding per acquistare dispositivi di protezione individuale per i lavoratori della terra. Nonostante le loro condizioni non siano migliorate, ma anzi, siano state aggravate dall’emergenza, il tema è stato al centro del dibattito politico e pubblico per diversi giorni. Infatti, durante la pandemia, la mancanza di braccianti nei campi ha provocato un vuoto improvviso nella filiera agro-alimentare: molti lavoratori stagionali non sono riusciti a raggiungere l’Italia per via della chiusura delle frontiere o per paura del virus. I dati – calcolati soltanto sui lavoratori regolari – rivelano la complessità della questione: secondo Repubblica sono mancati 370 mila braccianti e Coldiretti ha calcolato che il 27% delle giornate-lavoro necessarie per la raccolta di frutta e verdura in Italia è garantito dalla manodopera che arriva dal Nord Africa e dall’Est Europa.434 Si è generato subito l’allarme: Confagricoltura ha dichiarato la necessità di risolvere il problema in fretta, pena il deperimento dei prodotti e la mancanza di approvvigionamento delle risorse. Se il rischio è quello di compromettere i profitti, mandare in fumo gli investimenti e suscitare polemiche nell’opinione pubblica già preoccupata dall’emergenza, allora la politica si mobilita. La proposta di regolarizzazioni non solo per i braccianti, ma anche per colf e badanti – il cui lavoro domestico e di cura è risultato ancora più necessario durante l’emergenza – è stata approvata. Le dichiarazioni di alcuni ministri del Governo o di esponenti di diversi partiti sono state perlopiù retoriche: hanno sostenuto che questa manovra è stata fatta in nome della civiltà e della sicurezza, per portare avanti una battaglia contro il caporalato. Partendo da queste premesse, è difficile capire come mai si sia dovuto aspettare una pandemia per giungere ad una proposta che è, di fatto, meramente opportunistica.

433 Cfr. B. Stancanelli, La pacchia. Vita di Soumaila Sacko, nato in Mali, ucciso in Italia, Zolfo Editore, Milano 2019. 434 E. Livini, Agricoltura a corto di braccianti stranieri: il virus ruba 370mila braccia ai campi italiani, in “La Repubblica”,

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/03/13/news/aaa_braccianti_stranieri_cercasi_disperatamente_il_virus_rub a_370mila_braccia_all_agricoltura_italiana-251152621/, consultato il 15/3/2020.

151 Come scrive Soumahoro:

Quest’ultimo paradigma stabilisce che un permesso di soggiorno debba essere concesso a persone utili alle esigenze del mercato del lavoro e dell’economia del paese. In quest’ottica, il valore della vita umana viene valutata in base alla sua “utilità” e alla sua produttività. Ovvero un essere umano ha il diritto di esistere non perché “è” ma perché “fa”, quindi utile. […] Questo paradigma crea come conseguenza un esercito di lavoratori razzializzati esposti alla deprivazione materiale, all’alienazione immateriale e alla vulnerabilità esistenziale. Questa voragine di ingiustizia finisce tuttavia per risucchiare nei propri abissi anche i lavoratori italiani, visto che l’equilibrio tra lavoro e tutele viene profondamente turbato da questa labilità di diritti.435

Il lavoro cooperativo è ancora una volta al centro e si lega ad una serie di problematiche prodotte dal sistema capitalistico. La questione dei braccianti, così come quella di badanti,

colf, riders, corrieri, e di tanti altri lavoratori irregolari, non riconosciuti e precari – che

sono alla base del sistema produttivo dei beni di prima necessità e su cui si basa gran parte della nostra economia – non si può risolvere senza riforme strutturali che mettano al centro la delicata e complessa problematica dell’ambivalenza della cooperazione. Ancora una volta, la tesi che si vuole mettere in luce è la necessità di guardare alla cooperazione come ad una facoltà imprescindibile dell’essere umano, su cui è costruita l’intera struttura socioeconomica, ma che, nell’ottica capitalistica, diventa il principale strumento di sfruttamento e di dispotismo. Con l’emergenza provocata dal Covid-19, che ha evidenziato nuovamente alcune contraddizioni del sistema capitalistico, non si può evitare di sottolineare le antinomie del concetto di cooperazione e la necessità di prospettare nuove soluzioni. Se il problema è strutturale servono proposte alternative che mettano in discussione il modello vigente. In questo contesto, il 21 maggio 2020, l’USB ha indetto uno sciopero dei braccianti: migliaia di migranti e di lavoratori stagionali si sono rifiutati di lavorare nelle campagne per una giornata intera, chiedendo ai consumatori di unirsi alla protesta, evitando di acquistare i prodotti agroalimentari e boicottando la grande distribuzione. Accompagnati da Soumahoro, i braccianti si sono mobilitati bloccando la raccolta nei campi e diffondendo messaggi quali: «Siamo

435 A. Soumahoro, Regolarizzazione, in Il Blog, in “Huffington Post”, https://www.huffingtonpost.it/entry/la- regolarizzazione_it_5e9d6d9ac5b69ca6e1989689, consultato il 30/5/2020.

152

invisibili per il governo, lo saremo anche nei campi»436, «Non vanno regolarizzate le braccia, ma gli esseri umani».437 Le rivendicazioni sono state molteplici e non si sono basate solo su slogan: i braccianti hanno contestato le forme di lavoro grigio, la legge Bossi-Fini, i Decreti Sicurezza di Salvini e l’ultimo provvedimento della Ministra dell’Agricoltura Bellanova (inserito nel Decreto Rilancio) che non prevede la regolarizzazione di chi ha un permesso di soggiorno scaduto prima di ottobre 2019.

La mobilitazione dei braccianti è solo un esempio di lotta nata dalla consapevolezza che il lavoro collettivo degli invisibili vada reso visibile, tutelato e normato. Se si è d’accordo con l’idea che l’emergenza non sia servita soltanto ad evidenziare alcune criticità già presenti, ma possa essere una leva per pensare a nuove alternative, allora è necessario, come hanno tentato di fare i braccianti, ricordare alla politica che la forza sociale che producono i lavoratori quando sono organizzati dal capitale può darsi anche autonomamente, slegata dalle logiche di potere e dominio. I lavoratori, d’altro canto, devono essere consapevoli di essere una forza sociale e cooperativa. Non si tratta di essere sognatori o utopisti, ma di comprendere la natura della società capitalistica al fine di trasformarla, lasciandosi ispirare dalle parole, ancora attuali, di Marx:

I lavoratori non attendevano dei miracoli438 dalla Comune. Essi non avevano delle