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3. La cooperazione in Marx e nel Novecento

3.7 Meriti e criticità dell’operaismo

Si ritiene utile, ai fini del discorso che si sta delineando, sottolineare alcuni punti di debolezza e di forza del pensiero operaista.

Riguardo a Panzieri, il suo contributo è stato fondamentale per aver demistificato la razionalità tecnologica e aver individuato, nell’utilizzo della cooperazione in chiave capitalistica, lo sviluppo del piano organizzativo del capitale in termini di controllo e dispotismo. La pianificazione è diventata una delle manifestazioni del plusvalore che dall’organizzazione del sistema produttivo di fabbrica si è esteso all’intera società e al mercato. Grazie a queste considerazioni, decade, in un certo senso, l’idea liberale di

laissez-faire e di mercato autoregolato: il capitalismo è molto più organizzato di quanto,

a prima vista, possa sembrare; una delle sue principali strategie la si può cogliere proprio nella sua funzione dispotica e nella sua capacità di sfruttare il lavoro collettivo. Sostenendo questa posizione, si rimane fedeli al pensiero di Marx di piano come forma necessaria del dispotismo e di cooperazione come primo motore della produzione capitalistica. Inoltre, Panzieri è stato colui che più di tutti all’interno dell’operaismo ha prediletto il Marx del Capitale, ponendo l’attenzione sulla critica dell’economia politica come mezzo fondamentale per conoscere e analizzare il capitalismo, oltre che sulla produzione, la sfera problematica da cui l’analisi politica ed economica dovrebbe ancora iniziare. È possibile individuare, per contro, uno dei punti di debolezza del pensiero di Panzieri: aver sopravvalutato la risposta operaia come argine allo sviluppo del capitale. Quest’ultimo, infatti, è in grado di reinventarsi, con o senza le lotte operaie; anzi, talvolta proprio a partire dalle lotte operaie. Questo meccanismo di rigenerazione del capitale e di continua lotta era stato individuato da alcuni operaisti.

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Dal punto di vista dell’analisi sulla tecnologia e le macchine, se in Panzieri si può ritrovare il pensiero del Marx maturo (per il quale esse sono volute dalla legge del valore) e il rifiuto, sia di una concezione acritica delle tecnologie che di una visione progressista della storia, negli altri operaisti, si tende a considerare la tecnologia come una possibilità emancipativa. Tra quest’ultimi si può individuare Negri, che partendo dall’analisi del

Frammento sulle macchine, si concentra particolarmente sulla definizione di general intellect. Questa forma di intelligenza collettiva, generata grazie alla conoscenza e alla

tecnica, ha modificato la produzione, generando un nuovo tipo di capitalismo in cui vi è un grande potenziale di emancipazione. Secondo Negri, infatti, il valore del lavoro è prodotto da una nuova forza-lavoro che può contare su un uso libero delle forze produttive. Seguendo il Marx maturo, invece, il concetto di general intellect non avrebbe in sé una forza di liberazione dal modo di produzione capitalistico, poiché sarebbe considerata un’altra delle forme di controllo produttivo: un tipo di cooperazione che esiste soltanto per volere del capitale e formata da lavoratori uniti per sua stessa scelta. È possibile guardare alla tecnica e alla tecnologia in modo svincolato dal loro stretto rapporto con il capitale? Seguendo il ragionamento del Marx del Capitale, se ci si pone all’interno del sistema capitalistico, non pare possibile. Infatti, è nel capitalismo, come si è più volte sottolineato, che l’innovazione tecnologica raggiunge il suo apice, poiché strettamente connessa all’aumento della produttività della forza-lavoro e alla produzione di plusvalore relativo. Il meccanismo è sempre quello della concorrenza: i capitalisti cercano nuove strategie per produrre a costi più bassi, dimenticandosi però che il vero produttore di plusvalore è il lavoro vivo. Le macchine cedono il loro valore (lavoro passato incorporato) ai prodotti, provocando una riduzione del valore della forza-lavoro, ma producendo un maggior plusvalore. Inoltre, come sottolinea Harvey, le macchine indeboliscono il potere contrattuale degli operai, creando un esercito industriale di

riserva pronto a sostituire coloro che non vogliono lavorare a determinate condizioni, e

ottimizzano i tempi di produzione. 313 Questa analisi è in linea con quanto sostiene Marx: la tecnologia è utilizzata dal capitale per aumentare la produttività e realizzare un maggior profitto. Ciò non viene meno se si analizza, con questa stessa lente, il concetto di general

intellect: la forza e la potenza dell’intelligenza collettiva viene sussunta sotto il capitale

ed utilizzata per i suoi propri scopi. Non è forse corretto sostenere che la storia culturale della specie umana, che va dalla scienza all’arte, dalla tecnica alla formazione

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intellettuale, invece che essere patrimonio dell’umanità intera, è utilizzata dal capitale per fare più profitto? Questa lettura non prevede che tutto produca valore ma che, come abbiamo visto nel Capitolo VI inedito, vi siano delle condizioni ben precise – quali la mercificazione, la produzione secondo logiche capitalistiche, lo sfruttamento, la valorizzazione – a far sì che, in alcuni casi, anche la cultura, l’istruzione o la conoscenza, diventino strumenti atti a produrre plusvalore.

Le problematiche della posizione operaista risiedono, dunque, anche intorno alla considerazione dell’idea di general intellect come egemone nella produzione capitalistica (e come strumento condiviso dalla moltitudine) e alla tesi per cui il lavoro immateriale sia indiscutibilmente produttivo di valore. Con quest’ultimo assunto, infatti, si rischia di cadere nel rifiuto dell’esistenza di nuove forme, alienate e sfruttate, di lavoro produttivo. Inoltre, il concentrarsi sul lavoro immateriale e cognitivo, mette in secondo piano il tema dell’egemonia capitalistica, così come l’idea che il luogo del conflitto primario sia la produzione immediata di valore. Per Negri, con il post-fordismo, si è giunti in un’epoca dove il rapporto tra capitale e lavoro è decisamente cambiato: il lavoro è sempre più immateriale e la forza-lavoro ha una nuova composizione. Questa posizione afferma che il processo di produzione è fuori dal capitale, il quale ormai lo controlla soltanto. Se prima c’era la cooperazione, ora resta soltanto il comando: la produttività sociale viene a mancare. Credendo nella realizzazione del general intellect quale sapere da considerare come la prima risorsa produttiva, gli operaisti si discostano nuovamente da Marx, per il quale, invece, il general intellect è capitale fisso, scienza oggettivata nella macchina. Per gli operaisti, il lavoro vivo, proprietario di conoscenze non oggettivabili nelle macchine, non è più forza-lavoro voluta dal capitale, ma una sorta di cognitivismo imprenditoriale comune. Se per Marx, la cooperazione era la prima delle forme volute dal capitale per estrarre plusvalore relativo, per i post-operaisti non è più appannaggio del capitale, ma è la potenza intrinseca nella forza-lavoro. Infatti, per questi ultimi, quando la cooperazione e il sapere collettivo divengono la base del lavoro, il lavoro diventa un agire politico. Questa posizione non guarda alla tendenza pianificatrice del capitale, che attraverso il dispotismo, utilizza la cooperazione dei lavoratori, eliminando la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Ciò che non viene colto, dunque, è che il Marx dei

Grundrisse non può essere letto senza il Marx del Capitale, ovvero senza la critica

dell’economia politica e la legge del valore. La diffusione della cooperazione, infatti, non porta alla caduta della legge del valore, così come la socializzazione del lavoro non

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provoca la crisi dei rapporti di scambio, poiché continua ad esistere il lavoro sussunto sotto il capitale. Infatti, il capitalismo, per Marx, nasce proprio da quel lavoro sociale, ovvero quando la cooperazione diviene un modo di esistere del capitale. Secondo Negri, dato che il lavoro singolo non esiste più, il denaro, non misurando la forza sociale del lavoro collettivo, diventa funzione della riproduzione del rapporto di lavoro salariato. Per questo motivo, per Negri, riducendo tutto alla dimensione della riproduzione, lo scontro avviene tra il lavoro sociale e lo Stato, visto come il capitalista collettivo. In questo contesto, perde significato la definizione di valore di scambio, ormai visto solo come potere politico: il capitale non è valore, ma volontà di potere e autonomia del politico. La strategia, per uscire dal sistema, si riduce, dunque, al rifiuto del lavoro.

Nonostante le possibili critiche, generalizzando e guardando all’operaismo nel suo insieme, come ad un’unica corrente di pensiero, possiamo individuarne alcuni meriti.

Innanzitutto, è stato un movimento che, partendo proprio dall’indagine sui metodi di estrazione del plusvalore relativo, ha posto alcune nuove questioni fondamentali per approfondire lo studio delle dinamiche capitalistiche, mettendo l’accento su categorie utili ancora oggi. Infatti, la maggior parte delle problematiche che l’operaismo ha sollevato, dal sistema delle macchine fino al lavoro improduttivo, sono di estrema rilevanza anche nel mondo capitalistico attuale, caratterizzato dalla svolta neoliberista. È interessante, dunque, ripartire da alcune riflessioni operaiste, ma integrarle con una critica dell’economia politica più precisa e conforme al pensiero marxiano, senza la quale non si può comprendere la portata reale del sistema capitalistico e il suo possibile superamento. Ridurre la teoria marxiana alla politica di classe o di partito, come ha voluto l’operaismo, ha rischiato di diminuire anche la sua importanza teorica e le sue possibilità critiche. Infatti, sia l’autonomia del politico che quella del sociale, mettono in secondo piano l’analisi economica marxiana, finendo per credere nella possibilità di emancipazione dal lavoro mediante le tecnologie. È fondamentale, invece, ripartire dal processo produttivo: lo sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura ha luogo, innanzitutto, nella produzione. Se si vuole sovvertire il sistema capitalistico, bisogna cambiare, innanzitutto, il suo sistema produttivo, dato dalle sue specifiche leggi, logiche e tecniche. Anche per questo motivo, è decisivo riflettere su uno dei più grandi demeriti dell’operaismo, quello di aver abbandonato la riflessione marxiana sulla sfera produttiva, per guardare solo alle lotte operaie, lasciando da parte il rapporto

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con il capitale. Dal punto di vista politico, invece, è fondamentale continuare ad indagare su alcune questioni poste dall’operaismo e, anche ammettendo la sua parziale sconfitta, farlo in modo nuovo, evitando di restare fossilizzati sul passato. Per questo motivo, è necessario non pensare che si possa spiegare tutto a partire da concetti astratti e generali quali l’operaio massa o l’operaio sociale, che tentano di comprendere e dare forma alla variegata composizione di classe, ma finiscono per risultare troppo teorici e poco specifici. Quelle categorie, infatti, sembrano comprendere e, ugualmente, lasciare fuori un numero considerevole di lavoratori. In altre parole, non è pensabile racchiudere, in un insieme omogeneo, diversi gruppi di lavoratori, ma, analogamente, non è funzionale escluderne alcuni, o evitare di leggere la specificità delle loro problematiche. L’impressione, infatti, è che perlomeno inizialmente l’operaismo non sia riuscito a dar voce ad alcune fasce di lavoratori quali gli operai che emigravano dal Sud, i lavoratori domestici, quelli intellettuali e le donne.314 In ogni caso, risulta abbastanza evidente pensare che categorie onnicomprensive possano risultare inefficaci e finiscano per essere solo teoriche, svuotate di una possibile capacità pratico-politica, se pur tentino, in qualche modo, di perseguirla. La soluzione operaista sembra appunto voler individuare forzatamente un determinato soggetto politico in grado di sovvertire il sistema capitalistico, quando non è possibile, in un mondo globalizzato e multiforme, darne una precisa identità e caratterizzazione. Questo non significa che sia auspicabile rigettare in

toto l’idea di composizione di classe, ma che sia fondamentale trovare dei percorsi

differenziati per le diverse categorie di lavoratori, per poi, in seconda battuta, evidenziare gli elementi comuni e lottare per un miglioramento delle loro condizioni e del sistema. Le differenze esistono e sono da considerare. Per quanto riguarda un’analisi più teorica, si ritiene erroneo, anche dal punto di vista strettamente politico, lottare facendo riferimento soltanto al salario o all’eliminazione del lavoro. Il problema, infatti, non è il lavoro, ma il lavoro sussunto sotto il capitale. Per andare nella direzione di una possibile emancipazione, almeno nell’immediato, non si può rincorrere come fine la liberazione dell’uomo dal lavoro, ma dal sistema di produzione capitalistico e dal suo piano dispotico volto a subordinare a sé l’uomo come la natura. Questo progetto non è utopico, ma allo stesso tempo non può essere privo di organizzazione e lasciato in mano a idee quali la spontaneità e l’autonomia. Se il capitale pianifica, si organizza e ci organizza, allora una possibile risposta abbisogna di analisi, critica e strutturazione. Per analisi si intenda una

314 Si tenga presente, però, che proprio in seno all’operaismo sono nati alcuni movimenti femministi operaisti con M. Dalla Costa, L. Fortunati e A. Del Re.

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lettura non parziale, ma il più possibile integrale del sistema capitalistico, anche facendo uso dei testi marxiani (dal punto di vista metodologico, è riduttivo leggere solo il Marx dei Grundrisse, o ancora peggio, soltanto quello del Frammento); per critica, si tenga in considerazione, da un lato, una critica economica sistematica, che rifiuti ideologie, parta dall’ambito della produzione e guardi alla legge del valore, dall’altro, una critica totale, in senso francofortese, in grado di allagarsi, quando è necessario, anche ad altri ambiti; per strutturazione, si intenda, invece, una risposta attenta, partecipata e plausibilmente condivisa da tutti i soggetti politici in gioco. Per poter portare avanti un discorso di questo tipo non si può prescindere dal ridefinire, o perlomeno allargare, il concetto di cooperazione. Infatti, sarebbe utile guardare alla cooperazione come strumento politico, evitando di ridurre e schiacciare la sua analisi soltanto all’importanza che ha all’interno del processo di produzione capitalistico. In altri termini, la cooperazione potrebbe essere un’eventuale leva dalla quale ripartire per coordinare teorie ed azioni di lotta, tendendo ad un possibile superamento del capitalismo. La via che si prospetta è differente, però, da quella teorizzata dal post-operaismo, che vedremo meglio nel prossimo paragrafo. Si può affermare, invece, che l’operaismo degli anni Sessanta e Settanta non abbia cercato di puntare sulla cooperazione, ma al contrario abbia sempre privilegiato un soggetto politico o un’idea di antagonismo che non era in grado di dialogare con le diverse parti sociali esistenti. Si pensi, ad esempio, al Movimento Studentesco: non furono molti gli operaisti disposti a confrontarsi e a trovare un fronte comune con gli studenti. Questo modello, talvolta soggettivistico e autoreferenziale, non lascia spazio alla collaborazione, necessaria a livello quantitativo e qualitativo, per pensare ad un’alternativa. Dopo aver scoperto con Marx la fondamentale importanza della cooperazione (e del lavoro collettivo) non solo per la nascita del processo di produzione capitalistico, ma anche per la sua continua affermazione, si tratta ora di riscoprirla e di riappropriarsene, liberandola dalle catene del capitale. Infatti, il genere umano si è basato, e basa continuamente, la sua sopravvivenza e la sua conoscenza sul lavoro sociale. Se è vero che senza la collaborazione di più lavoratori (nello stesso tempo, nello stesso spazio, con gli stessi macchinari e sotto lo stesso comando) non sarebbe stato possibile trasformare radicalmente il sistema economico del mondo intero, allora, a partire dalla stessa facoltà della specie umana, è auspicabile generare un nuovo sistema, che sia rivoluzionario allo stesso modo, pur basandosi su premesse diverse. Se si vuole andare oltre al paradigma competitivo del neoliberismo, dove, nonostante si voglia far credere che ognuno è imprenditore di se stesso, la base della produzione e dello sviluppo economico è

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organizzata sul lavoro cooperativo, allora è necessario liberare la cooperazione dal dispotismo e dalle logiche tornacontiste del capitalismo. Ciò significa muovere una critica all’utilizzo capitalistico della cooperazione e pensare ad un possibile modello cooperativo alternativo. A tal proposito, è necessario guardare meglio ad alcune contraddizioni del presente e, successivamente, alle ambivalenze e alle antinomie che si nascondono dietro al concetto di cooperazione.