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La de-costruzione delle prassi operative e la co-costruzione di nuovi strumenti di progettazione: gli esiti di questa esperienza.

Tab 3.1 “Il problema e le risorse disponibili”

3.6. La de-costruzione delle prassi operative e la co-costruzione di nuovi strumenti di progettazione: gli esiti di questa esperienza.

Attraverso le interviste somministrate, si è potuto ripercorrere con i professionisti della tutela minori del Comune e dell’ASL del territorio bresciano, le diverse fasi dell’esperienza formativa, raccogliendone gli esiti, di cui i partecipanti sono stati testimoni attivi, le criticità e gli spunti di riflessione, utili per mantenere costante nel tempo una tensione verso il miglioramento delle prassi operative del servizio.

Un primo aspetto dell’esperienza sul quale si è cercato di ragionare con gli intervistati, si riconduce alla prima ipotesi formulata all’inizio di questo lavoro di ricerca50, ovvero l’idea che in un

servizio in cui sono in atto dei cambiamento organizzativi o una rivisitazione delle prassi operative, l’approccio della ricerca-azione possa sviluppare nuovi apprendimenti e, in particolare, prendendo a prestito l’immagine descritta da Manoukian51, è stato chiesto se la de-costruzione delle proprie

modalità di lavoro finalizzata ad una co-costruzione di nuovi strumenti professionali, permetta ai

50

Cfr. § 3.

professionisti di “vedere” aspetti inediti del proprio lavoro e quindi possa stimolare il cambiamento in senso migliorativo.

La prima evidenza, rispetto a questa sollecitazione rivolta agli operatori, riguarda la differenza tra le due categorie professionali in relazione alla capacità di cogliere gli esiti e quindi di poter “vedere” nuovi aspetti del proprio lavoro attraverso questa esperienza formativa.

Si è colta infatti una maggiore resistenza da parte degli psicologi rispetto all’opportunità di cambiamento, offerta da questo percorso attraverso una “scomposizione” delle fasi di lavoro e una ri-costruzione condivisa di nuovi strumenti di progettazione. Tra gli psicologi intervistati è emersa una certa difficoltà a mettere in discussione le proprie prassi d’intervento e a contemplare nuove piste di lavoro basate su una metodologia che trae fondamento dalle teorie sulla progettazione e valutazione sociale. Gli operatori dell’ASL sembrano, da un lato, difendere l’esperienza professionale maturata negli anni nell’ambito della tutela minori e del lavoro integrato con gli assistenti sociali comunali per la gestione e progettazione dei casi, dall’altro esprimono un forte disagio relativo proprio alla gestione dei casi, specialmente per quanto riguarda i carichi di lavoro, la scarsità delle risorse, i rapporti con il Tribunale e con altri servizi specialistici. Una possibile interpretazione rispetto a tale difficoltà potrebbe essere il fatto che il de-costruire le prassi consolidate del proprio lavoro può ingenerare il timore di essere criticati e può far sorgere sentimenti difensivi, di disillusione e diffidenza verso nuove proposte (“tanto i problemi rimangono comunque”). Nonostante queste resistenze nel “vedere” aspetti inediti del proprio lavoro e nell’immaginare nuovi scenari per il superamento dei problemi organizzativi, comunque esistenti, gli psicologi hanno ribadito l’importanza e la necessità, avvertita da tempo, di aver usufruito di uno spazio di dialogo, confronto e condivisione con l’altro ente e in particolare con gli assistenti sociali. L’esperienza del percorso formativo, secondo gli psicologi, ha permesso di esplicitare, a livello collettivo, molte criticità rimaste in sospeso per parecchio tempo e che rischiavano, se non condivise, di rendere ancora più complesso il processo di integrazione tra i due enti nella presa in carico dei casi. A tal proposito essi hanno sottolineato l’esigenza di poter continuare, anche oltre l’esperienza formativa, ad avere momenti di confronto e di supervisione con gli assistenti sociali e con i rispettivi responsabili sulle prassi condivise e sulle criticità operative incontrate nella quotidianità del lavoro, affinché ci sia un coordinamento periodico in grado di salvaguardare i processi di integrazione tra i due enti.

Quest’ultimo punto rispecchia anche l’opinione degli assistenti sociali intervistati, per i quali il confronto con i colleghi dell’ASL è sembrato non solo un obiettivo raggiunto del percorso di ricerca-azione, ma anche un punto di partenza per ri-organizzare un sistema integrato di interventi sociali e socio sanitari nell’ambito della tutela minori.

Negli assistenti sociali si può affermare che è trasparsa una motivazione più forte nel rivedere e ripensare alle proprie metodologie di lavoro, attraverso la proposta di un approccio partecipato, con una maggiore propensione a cogliere i potenziali vantaggi degli strumenti che loro stessi hanno co- costruito e che entreranno a far parte della nuova prassi professionale nella gestione integrata dei casi di tutela minori. Una spiegazione rispetto a questo diverso approccio, elaborata a seguito della conoscenza diretta di questi professionisti attraverso le interviste in profondità, sembra risiedere nel fatto che la responsabilità istituzionale nei confronti dei compiti di tutela dei minori è attualmente in capo al Comune, la funzione di case manager è rivestita dalla figura dell’assistente sociale. Questo aspetto, unitamente all’aumento del carico di lavoro, sta alimentando negli assistenti sociali sentimenti di impotenza e il rischio di cadere in burnout. Per questo motivi, quindi, si può supporre che essi siano più propensi ad individuare una nuova strategia di collaborazione con l’ASL in grado di realizzare una presa in carico maggiormente integrata.

È comunque importante sottolineare che entrambe le Responsabili dei due enti, hanno colto il valore di questa esperienza formativa in termini di possibilità di confronto e di occasione per mettere a nudo pratiche professionali rimaste nel “dato per scontato” per diverso tempo.

Dalle interviste somministrate alle Responsabili si è colto un autentico investimento, in termini di crescita professionale e di miglioramento della qualità del servizio, nei confronti degli strumenti co- costruiti, ovvero la Scheda sulla Progettazione Individualizzata dei Casi e le Linee Guida, per i quali nel 2012 è iniziata la sperimentazione su tutti i casi nuovi. Le Responsabili sono quindi consapevoli che è necessario sostenere, in modo costante nel tempo, questo processo di cambiamento delle prassi operative, che ha avuto inizio e impulso attraverso l’esperienza formativa, in quanto si tratta, come ha affermato una di loro «di farlo entrare nella consuetudine mentale degli

operatori», nonostante alcune resistenze che inizialmente si possono incontrare nell’utilizzo di

questa nuova metodologia di lavoro sui casi.

Rispetto alla seconda ipotesi che ha sostenuto la presente analisi, ovvero il fatto che per realizzare un’efficace integrazione sociosanitaria nella presa in carico dei casi di tutela minori, sia necessario un contesto di chiarezza di compiti istituzionali e professionali e di corresponsabilità nei confronti dell’obiettivo perseguito, nel rispetto delle reciproche competenze e autonomie professionali, si può affermare che le interviste svolte hanno confermato questa idea.

In particolare, per quanto riguarda il punto di vista dei Responsabili dei due enti, si può affermare che essi, riconoscendo la situazione di crisi, di malessere diffuso, vissuto negli operatori dei due enti che, non incontrandosi a livello collettivo da molto tempo, hanno colto l’importanza di dedicare, anche a seguito del percorso formativo, un’attenzione specifica a questi momenti di supervisione e di coordinamento Esse infatti hanno previsto di organizzare almeno due incontri annuali di

supervisione in cui tutti gli assistenti sociali e psicologi dell’Ambito 1 possano incontrarsi e rivedere le proprie modalità di agire professionale, scambiarsi opinioni, ritrovare e riconfermare un linguaggio comune. La formazione è stata vista come l’occasione per rilanciare un nuovo concetto d’integrazione, non solo basata sull’operatività delle singole équipe territoriali, ma anche a livello più ampio, tra ASL e Comune, favorendo in modo allargato momenti di dialogo e coordinamento. La discussione, avvenuta durante il corso, sulle criticità inerenti il rapporto tra gli operatori che si occupano di tutela minori e altri soggetti istituzionali, ad esempio il Tribunale o le comunità educative, ha permesso di esplicitare e quindi di rafforzare un concetto di integrazione che nell’ambito della tutela minori, deve necessariamente allargarsi ad altri soggetti (del privato sociale, del sanitario, dell’ambito giuridico, ecc), in quanto, come sostiene la Responsabile del servizio dell’ASL «la complessità delle situazioni richiede sempre più di essere governata attraverso una

pluralità di interlocutori e questo aspetto è stato alla base della costruzione dello strumento».

Un passo in avanti a seguito dell’esperienza formativa, in direzione di un consolidamento dell’integrazione sociosanitaria tra i due enti e tra questi e degli interlocutori esterni, può essere considerato il momento di incontro e confronto organizzato dal Responsabile del Servizio Tutela Minori del Comune con il nuovo Procuratore Capo della Procura presso il Tribunale per i Minorenni di Brescia per i propri assistenti sociali e a cui sono stati invitati anche gli psicologi ASL, oppure la programmazione da parte del Comune di altri momenti di confronto e di scambio di esperienze tra i due enti in merito al tema degli inserimenti di minori nelle comunità educative. Anche secondo gli operatori, in particolare gli assistenti sociali, questa esperienza ha rappresentato l’inizio di un percorso volto ad un rafforzamento dei livelli di integrazione sociosanitaria nella tutela minori, infatti, l’aver ragionato insieme, tra assistenti sociali e psicologi, sui vari passaggi che solitamente si compiono nella progettazione dei casi e sistematizzarli attraverso uno strumento come la Scheda, in un certo senso “costringe” gli operatori a fermarsi e a dedicarsi uno spazio mentale per pensare insieme agli obiettivi, alle azioni, ai criteri di successo del progetto, ecc, e quindi a costruire un pensiero progettuale comune sul caso, che non corrisponde ad una divisione rigida di competenze e di “cose da fare”, ma uno spazio in cui poter negoziare punti di vista sulla situazione, esplicitare che cosa si pensa e che cosa si vede per una determinata situazione e questo permette, come afferma Manoukian, di “risparmiare tempo nell’affrontare l’operatività, perché è più chiara e riconosciuta la lunghezza d’onda entro cui ci si raccorda”52, nonostante la fatica che questo

processo comporta.

L’analisi condotta sul percorso di co-costruzione di nuovi strumenti per la gestione integrata del Servizio Tutela Minori del territorio bresciano, ha preso le mosse anche da un altro presupposto

52

F. O. Manoukian, Re/immaginare il Lavoro Sociale. Appigli per una nuova progettualità, in “I Geki” di “Animazione Sociale”, Supplemento al n. 1/2005, Gruppo Abele, Torino, 2005, pag. 77.

di fondo, ossia la possibilità di creare, all’interno dei servizi per la tutela minori, delle “contaminazioni” tra teoria sulla progettazione e valutazione nel sociale e le prassi operative dei servizi. A tal proposito si è potuto osservare che da parte dei professionisti emerge un forte bisogno di sistematizzare ed esplicitare, secondo una logica dotata di rigore metodologico, i pensieri e le riflessioni che quotidianamente vengono fatte sui casi in carico e, in questo senso, il processo di co- costruzione della Scheda sulla progettazione individualizzata dei casi, accompagnata dalle Linee Guida, che fungono quasi da “libretto d’istruzioni”, ha risposto ad un’esigenza di maggior chiarezza rispetto ai ruoli delle due diverse figure professionali e al significato che sta sotto ai vari passaggi che solitamente vengono seguiti nella progettazione sul caso.

Lo strumento che loro stessi hanno creato, e che i ricercatori hanno tradotto in una forma che rispondesse a dei criteri di logicità, specialmente negli assistenti sociali, sembra aver favorito una ri- motivazione al proprio lavoro. Come ha affermato la ricercatrice/formatrice intervistata, si trattava di un gruppo di professionisti un po’ in crisi rispetto al proprio rapporto con l’ente di appartenenza oltre che nel confronto con l’altra istituzione, per una situazione di aumento dei carichi di lavoro e probabilmente per una situazione di scarsa comunicazione tra enti in merito alle rispettive competenze sulla tutela minori. Dalle interviste è emerso, da parte degli operatori, proprio un bisogno di fermarsi, ritrovare un linguaggio comune, che negli anni si era un po’ perso e ridiscutere insieme sul senso delle azioni, delle prassi operative da mettere in atto quando si deve realizzare un progetto d’intervento. La dr.ssa Guidetti infatti afferma: «Il maggiore apprendimento che è rimasto,

dal mio punto di vista, è stato il dare struttura ed esplicitare bene le pratiche di intervento che vengono realizzate, al di là dello strumento specifico e delle linee guida. Credo che principalmente sia servito a dargli l’idea che un confronto tra di loro, un confronto stabile e una riflessione continua rispetto al come si interviene possa essere utile per dare un inquadramento maggiore e quindi una maggiore oggettività a quello che si fa, ovvero che l’intervento del singolo professionista, assistente sociale o psicologo, nelle loro diverse funzioni siano sempre connesse a un metodo utilizzato dall’ente nella sua interezza».

In questo strumento gli assistenti sociali intervistati hanno potuto ri-trovare e ri-vedere il proprio lavoro in tutta la sua complessità, quasi come osservatori esterni, scomposto in singole fasi che loro stessi sono riusciti ad esplicitare e ha permesso di darsi una nuova organizzazione del lavoro che salvaguardi comunque la specificità delle appartenenze professionali. Un assistente sociale a questo proposito ha affermato: «Questo nuovo strumento ci aiuta a definire meglio e dare più valore al

ruolo di ciascuno, l’esplicitare alcune scelte aiuta a non trovarsi davanti a qualcosa che non si sa a cosa sia dovuto, serve per dare maggiore sostanza al nostro lavoro, diventa una traccia per il nostro lavoro».

Un esito positivo, riconosciuto anche dalla maggior parte degli intervistati, rispetto alla “contaminazione” tra teoria sulla progettazione e la concretezza delle prassi operative utilizzate, riguarda le ricadute esterne dell’utilizzo di uno strumento specifico di progettazione congiunta sui casi. Saper utilizzare uno strumento in grado di codificare il lavoro svolto dal servizio, permette di comunicare con maggiore chiarezza ai soggetti esterni, quali il Tribunale, il proprio ente di appartenenza, il livello politico, ecc, tutti i passaggi che si stanno facendo con l’utente, incrementando quindi anche la “forza contrattuale” nei confronti degli altri interlocutori, quando si devono motivare delle scelte e delle decisioni.

Dall’analisi svolta è emerso anche che introdurre all’interno di un’organizzazione delle nuove metodologie di lavoro professionale non è certamente un passaggio automatico e indolore. La scarsa abitudine a confrontarsi con strumenti che “costringono” a dedicarsi uno spazio fisico e mentale di pensiero sul caso può infatti far percepire questa tipologia di strumenti come una “fatica in più”, nonostante tutti i partecipanti abbiano apprezzato e saputo capitalizzare l’esperienza del confronto vissuta durante il corso e l’importanza del “dirsi come si lavora”, esigenza nata anche dagli operatori stessi.

Dal confronto con la ricercatrice/formatrice IRS si è potuto cogliere che per far entrare a regime nuovi strumenti professionali, come la Scheda e le Linee Guida, in grado di accompagnare la progettazione e valutazione sui casi, è sempre necessario che il processo di cambiamento sia spinto sia dall’alto, come in questo caso stanno facendo i Responsabili dei due enti che credono fermamente nella validità di questo nuovo modo di lavorare nella tutela minori, ma anche dal basso, ovvero dagli stessi operatori che sperimentando e “allenandosi” con costanza nell’utilizzo di questi strumenti operativi potranno migliorare la qualità dei propri interventi, garantire una memoria comune all’interno del servizio e valorizzare anche all’esterno il prodotto del proprio lavoro

Conclusioni

In queste ultime pagine vorrei ripercorrere questa esperienza di ricerca ripensando agli intenti che hanno guidato il mio lavoro, per coglierne i principali apprendimenti, affinché possano rappresentare una valida strada da percorrere per re-immaginare i processi di progettazione nell’ambito dei Servizi per la Tutela Minori.

L’analisi dell’esperienza di co-costruzione di strumenti professionali per la gestione del Servizio Tutela Minori dell’ASL di Brescia e dell’Ambito n°1 del Comune di Brescia, rivolta agli assistenti sociali e psicologi e condotta dai ricercatori/formatori dell’Istituto di Ricerca Sociale di Milano, ha rappresentato la fase cruciale di questo lavoro in quanto ha permesso di verificare sul campo l’impatto nei servizi e negli operatori, di una modalità di lavoro in un’ottica progettuale, che nella gestione dei casi di minori con provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, si è ipotizzato possa rappresentare una valida modalità operativa per favorire l’integrazione tra i due enti, ASL e Comune, e per affrontare la complessità e le responsabilità che questo ramo del lavoro sociale comporta.

Il punto di partenza di questa nuova modalità di collaborazione tra le due istituzioni, è stata la stesura del Protocollo d’intesa tra ASL e Comune per la gestione del Servizio Tutela Minori, in cui, in sintonia con la normativa nazionale (legge 328/2000) e regionale (legge 3/2008), si sancisce la necessità di realizzare “interventi sociali e sociosanitari integrati in tutte le fasi del progetto individualizzato d’intervento”. La richiesta di consulenza esterna, da parte dei Responsabili dei servizi dei due enti, per favorire l’implementazione del Protocollo, sottolinea la valenza di questo atto formale nel processo di ridefinizione delle competenze istituzionali nell’ambito della Tutela Minori, anche se, come si è potuto evidenziare attraverso le interviste somministrate ai diversi soggetti che hanno partecipato al percorso formativo, il Protocollo, da solo, non può essere sufficiente per generare dei cambiamenti nelle modalità operative delle culture organizzative e professionali dei servizi.

Il percorso formativo rivolto alle due figure professionali che, nella presa in carico dei casi di minori soggetti a provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, all’interno dei servizi bresciani lavorano in équipe integrate, è stato impostato utilizzando una metodologia partecipata, ritenuta la più efficace per rispondere agli obiettivi generali della richiesta formativa proveniente dagli enti, che, come indicato nelle Linee Guida1prodotte erano:

- la riesplorazione di metodologie condivise tra assistenti sociali e psicologi, finalizzate alla costruzione di strumenti professionali comuni per realizzare dei progetti individualizzati d’intervento dotati di rigore metodologico e di verificabilità rispetto agli esiti prodotti.

- L’esame e la rielaborazione delle procedure d’intervento in sintonia con il Protocollo d’Intesa.

Rispetto al raggiungimento di questi obiettivi, si può affermare che l’esito dell’esperienza formativa è stato positivo, in quanto sono stati messi a punto, dagli stessi partecipanti, due nuovi strumenti: la Scheda per la Progettazione Individualizzata dei Casi e le Linee Guida per la gestione del Servizio Tutela Minori, in applicazione di quanto previsto dall’atto formale d’intesa tra ASL e Comune.

La prima considerazione che si ritiene utile fare rispetto all’applicazione della metodologia partecipata all’interno del gruppo di professionisti, riguarda il rischio e l’illusione, insite in questo metodo di lavoro e spesso presente quando, a livello interistituzionale, gli operatori sono chiamati a lavorare insieme su un obiettivo comune: come sottolinea De Ambrogio2, “non basta mettere i

soggetti attorno ad un tavolo perché si produca un lavoro realmente partecipato”.

L’elemento che sembra aver favorito una reale partecipazione e coinvolgimento degli attori del percorso in esame, è la motivazione al cambiamento e la disponibilità, come atteggiamento mentale, a mettere in discussione il proprio modo di lavorare al fine di migliorarlo. Gli operatori che più sentivano questa esigenza di confronto, dialogo e desiderio di cambiamento, anche rivedendo le prassi consolidate del proprio modo di lavorare, sono stati quelli che hanno creduto di più nelle potenzialità degli strumenti elaborati e che hanno sostenuto e incoraggiato anche altri colleghi nella sperimentazione e nella messa in opera di tali strumenti di lavoro.

La scelta dei ricercatori di agganciare gli schemi teorici, relativi alla progettazione e valutazione nel sociale, con il sapere professionale degli operatori derivante dai casi che loro stessi hanno portato durante la formazione e sui quali hanno potuto iniziare una sperimentazione dello strumento della Scheda per la Progettazione Individualizzata dei Casi che hanno co-costruito, ha favorito, inoltre, un processo di “riflessione nel corso dell’azione”, che secondo il concetto di “professionista riflessivo” elaborato da Schön3

, permette di valorizzare i saperi maturati sul campo rendendoli maggiormente “fruibili” durante la progettazione degli interventi, in quanto permettono di dar vita a nuovi apprendimenti. Il valore aggiunto che tutti i professionisti, compresi i loro Responsabili, hanno riconosciuto in questa esperienza di co-costruzione di nuove modalità di lavoro nell’ambito della Tutela Minori, non è stato solamente quello di riconoscersi come “professionisti riflessivi”, ma anche, per usare un concetto enucleato da Fabbri4 e richiamato da Merlini5, come “comunità

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