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Tab 3.1 “Il problema e le risorse disponibili”

3.5.6. La dimensione valutativa nella prassi del Servizio Tutela Minori di Brescia.

Attraverso le interviste somministrate agli operatori dei due enti e ai loro Responsabili, si è potuto analizzare il grado di familiarità dei servizi sociali, in particolare del Servizio Tutela Minori, con la funzione valutativa, impostata secondo una struttura metodologica che deriva dalla teoria sulla valutazione. Inoltre, il punto di vista esterno della formatrice, ha aggiunto a questa analisi altri importanti spunti di riflessione.

Quest’ultima infatti ha osservato come, durante l’esperienza formativa, uno degli aspetti su cui si è riscontrata maggiore resistenza da parte degli operatori, riguardava proprio il processo di valutazione del progetto sul caso, condotto tramite una metodologia che potesse rendere più oggettivo il giudizio espresso sull’andamento del progetto per un determinato minore.

Un assistente sociale intervistato a tal proposito afferma: «Io ho visto che le maggiori difficoltà

sono emerse nella parte della valutazione: quando c’era da compilare la scheda tutti avevano fatto la prima parte (definizione progetto, obiettivi,ecc) ma quando si è arrivati alla valutazione si è visto che non siamo abituati a chiudere con un progetto dicendo cosa è andato bene e cosa male, come andiamo avanti. La valutazione permette di riappropriarti del progetto, fare il punto della situazione rispetto ai tempi che ci siamo dati, cosa siamo riusciti a fare, che cosa resta da fare e cosa potremmo fare per andare avanti nel progetto. Questa scheda ci aiuta a fare questo ragionamento a cui solitamente non siamo abituati, forse per i tempi...la valutazione potrebbe servire anche per il tempo in cui mantieni un determinato intervento, che magari ha degli effetti

negativi se protratto, in questo caso il tempo non fa altro che peggiorare la situazione, oltre che rappresentare uno spreco di risorse, sarebbe utile fare un ragionamento in termini di valutazione degli esiti per riprogettare e rendere più efficace l’intervento».

Quello che emerge dalle riflessioni dei professionisti, è che nella prassi lavorativa essi svolgono una funzione valutativa sul progetto d’intervento, ma questa solitamente avviene attraverso un confronto in équipe integrata dove si va ad esprimere un giudizio, a livello generale, se il progetto sta andando bene o sta andando male. A volte, per la scarsità di tempo a disposizione, gli operatori fanno valutazioni attraverso uno scambio veloce di informazioni, anche tra i corridoi o al telefono, oppure, a seconda della complessità del caso, coinvolgendo anche i rispettivi Responsabili, ma in assenza di un’esplicitazione dei criteri, degli indicatori, dei fattori oggettivi, in base ai quali è possibile affermare se gli obiettivi del progetto sono stati raggiunti. La dr.ssa Guidetti, infatti, ha rilevato come all’interno del Servizio Tutela Minori di Brescia, la valutazione, come confronto rispetto all’andamento del progetto, al miglioramento del benessere del minore, sia comunque una prassi condivisa, pur essendo poco esplicitato “il come andare a guardare queste cose”. Essa ha sottolineato come, durante gli incontri in aula, in cui si è sperimentata la Scheda di progettazione sui casi portati dagli operatori, essi facevano fatica a dire concretamente quali erano gli elementi che si potevano vedere e che facevano dire che un progetto stava proseguendo positivamente o meno. Tale difficoltà è stata confermata sia dagli assistenti sociali che dagli psicologi, nonché dai rispettivi Responsabili, in particolare, per quanto riguarda la distinzione tra i criteri e gli indicatori. La scarsa familiarità con questi passaggi logici ha sollecitato, in sede di formazione, confronti e molte richieste di chiarificazione in quanto la tendenza era quella di confondere i due step del disegno di valutazione. Il rischio che può insorgere nel non utilizzare una metodologia di valutazione, a parere dell’intervistata, è quello di trasmettere, al Giudice, agli altri professionisti e, non da ultimo, agli utenti, un giudizio sul caso formulato come una percezione, come qualcosa di soggettivo.

Un altro rischio connesso alla mancanza di una prassi valutativa fondata su presupposti logici e metodologici precisi, all’interno del servizio analizzato, sembra essere quello di non riuscire a motivare dal punto di vista politico le scelte relative alla gestione del servizio stesso e dei casi, ad esempio se si tratta di aumentare la voce di spesa per un determinato servizio (per esempio l’educativa domiciliare, la mediazione culturale, ecc) oppure per un intervento a tutela di un minore (ad esempio quando si tratta di prolungare la permanenza di un bambino in una comunità di accoglienza). Un problema diffuso nei servizi, secondo la formatrice, infatti, sembra essere la difficoltà a mostrare e a rendere comprensibile, anche all’esterno, per esempio al Direttore Sociale di un’ASL, al Dirigente di un Comune, all’Assessore, quello che si sta facendo, perché si è avanzata una certa proposta anziché un’altra.

Il disegno di valutazione è parso quindi, dal punto di vista della formatrice, ma confermato anche dalle opinioni espresse dagli stessi operatori, una fase complessa della progettazione in quanto presuppone una traduzione, in forma scritta, delle informazioni e del pensiero progettuale che si ha sul caso e richiede un notevole cambio di prospettiva rispetto alle prassi abituali di lavoro. Non utilizzando un assetto metodologico preciso, nella valutazione dei progetti individualizzati, e dando per scontati alcuni passaggi logici che portano ad affermare se quello che si è progettato è realmente servito, si rischia di leggere gli esiti degli interventi messi in atto in modo soggettivo. Le valutazioni di questo tipo risultano facilmente opinabili, in quanto poco ancorate alla realtà e ad aspetti concreti e misurabili, inoltre rischiano di essere scarsamente utilizzabili nel momento in cui si devono prendere decisioni in quanto si fondano su giudizi generici.

E’ stato chiesto alla ricercatrice/formatrice IRS in che modo un operatore può superare queste resistenze nell’avvicinarsi al processo valutativo, costruito attraverso passaggi metodologici volti a costruire un disegno di valutazione complessivo del progetto, ed essa ha risposto: «In tutto questo

tanto aiuta l’abitudine, la sperimentazione e l’utilizzo, il confrontarsi continuamente con questi progetti e la possibilità di modificarli nel momento in cui non ci si trova dentro. E’ chiaro che se uno strumento del genere ti fa sentire troppo legato a inserire delle informazioni che non ti interessano, che non sono rilevanti, poi diventa inutile. Invece, è importante avere la possibilità di dirsi “questo è uno schema base, dopodiché nel momento in cui non mi interessa individuare questa parte non la scrivo, non la riempio, e non succede niente”. Questo richiede un cambio di prospettiva, nell’idea di riuscire a codificare le informazioni e i pensieri che si hanno». Da queste

parole si coglie pertanto la necessità di favorire, all’interno dei servizi sociali, una scelta epistemologica che permetta ai professionisti di sviluppare quella che Manoukian definisce “una mente ospitale”, di cui più sopra si è parlato49

, in grado di accogliere le “ipotesi insature”, offerte ad esempio attraverso questo percorso formativo e sperimentando nuove piste di lavoro che consentano di innalzare il livello di qualità dei servizi offerti.

Rispetto all’approccio al tema della valutazione, si è ipotizzato che ci possa essere una qualche differenza tra le due culture professionali qui considerate, assistenti sociali e psicologi, dal momento che i secondi, per una propria impostazione professionale, nella prassi lavorativa utilizzano degli strumenti di valutazione, quali ad esempio i test, ed è stato chiesto un parere in merito alla formatrice. Essa ha confermato tale ipotesi specificando che gli psicologi hanno più dimestichezza nell’utilizzo ad esempio delle codifiche proposte, tuttavia, essi, afferma la formatrice,

«sono sui casi molto meno tempo rispetto agli assistenti sociali e questo crea un ostacolo dall’altra parte». Per gli assistenti sociali invece questi strumenti sembrano essere molto distanti, proprio per

cultura professionale, ad esempio, come sottolinea l’esperta, nel caso delle relazioni al Tribunale, queste vengono redatte quasi in forma di tema, dove per un Giudice, può risultare difficile cogliere in modo immediato i punti salienti e comprendere perché da una determinata osservazione deriva una certa proposta di intervento. Secondo la ricercatrice/formatrice, infatti, «nel momento in cui si

ha una Scheda come questa, anche redigere la relazione al Tribunale diventa più semplice, più snello, si ha già tutto il materiale, una traccia per metterlo poi in una forma più comprensibile».

Le informazioni e le impressioni raccolte con le interviste, hanno offerto degli spunti di riflessione sul valore aggiunto che una ricerca valutativa sul progetto d’intervento, condotta con questa metodologia, potrebbe apportare nel rapporto con i soggetti coinvolti nella situazione del minore. Per gli operatori avere ben chiaro in base a quali criteri e a quali indicatori si può comunicare alla famiglia se l’intervento ha più o meno successo, oppure si formulano nuove proposte progettuali, probabilmente faciliterebbe la costruzione di un’ “alleanza terapeutica” anche in un contesto in cui la domanda di aiuto non è spontanea ma conseguente ad un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. La trasparenza e la chiarezza delle informazioni infatti aiuta la persona ad entrare maggiormente in contatto con il proprio disagio e a sentirsi accolta in quanto non giudicata come persona, ma accompagnata in un percorso di cambiamento che ha come fine ultimo il benessere del minore.

3.6. La de-costruzione delle prassi operative e la co-costruzione di nuovi strumenti di

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