• Non ci sono risultati.

La progettazione individualizzata nella prassi tradizionale del servizio: punti di forza e limiti.

TAVOLA 1 “Minori in tutela”

3.4. La fase di avvio del percorso formativo per le équipe integrate.

3.4.4. La progettazione individualizzata nella prassi tradizionale del servizio: punti di forza e limiti.

L’équipe integrata del Servizio Tutela Minori dell’ASL di Brescia e dell’Ambito n. 1 del Comune di Brescia si attiva, per i nuovi casi, in due circostanze: quando arriva al servizio una richiesta d’indagine da parte del Tribunale (Ordinario o Minorenni), oppure quando riceve un decreto da parte della Magistratura.

La decisione di segnalare al Tribunale una condizione di pregiudizio relativa ad un minore, può partire, come hanno evidenziato gli assistenti sociali intervistati, dal Settore Prevenzione e Promozione del Comune, quando, dopo una serie di interventi messi in atto a favore di una determinata famiglia, si è valutato che questi non hanno dato gli esiti sperati. Tuttavia questa ipotesi sembra essere abbastanza residuale in quanto quel settore ha proprio la finalità di lavorare in senso preventivo rispetto all’instaurarsi di situazioni di rischio e pregiudizio per i minori. Altri servizi o enti che possono dare luogo ad una segnalazione sono la scuola, il pediatra, l’ospedale, il servizio di neuropsichiatria infantile, i centri aggregazione giovanili, anche se quest’ultimi cercano di mantenere un ruolo neutro nei confronti dei genitori, i servizi per le dipendenze, le forze dell’ordine, ecc.

I servizi prima di segnalare al Tribunale, solitamente verificano se il caso è già seguito dal Settore Prevenzione, il quale, eventualmente, se lo ha in carico, aggiunge una propria relazione alla segnalazione che verrà inoltrata all’Autorità Giudiziaria.

Gli assistenti sociali intervistati riportano che le problematiche di cui il Servizio Tutela si occupa, su mandato del Tribunale, riguardano prevalentemente casi di maltrattamenti verso minori con conseguente collocamento extrafamiliare, violenza fisica e psicologica assistita da parte dei minori, famiglie che hanno difficoltà a vedere i bisogni dei figli, famiglie con difficoltà di tipo economico dove, oltre ad una povertà materiale, si evidenzia anche una povertà di strumenti a gestire la genitorialità, quindi una subcultura che determina un malfunzionamento familiare ai danni dei figli, famiglie numerose dove i figli sono stati allontanati e in cui i genitori a loro volta hanno avuto esperienze di istituzionalizzazione durante la loro infanzia, con tutto ciò che questo vissuto comporta a livello psicologico nell’affrontare l’allontanamento dei propri figli.

In questi casi, su mandato dell’Autorità Giudiziaria, il Servizio Tutela Minori attua il collocamento extrafamiliare dei minori, che può essere in una comunità di accoglienza oppure presso una famiglia affidataria, oppure, sempre su indicazione del Tribunale, si può mantenere l’inserimento presso la famiglia d’origine ma con un intervento di educativa domiciliare.

La prassi operativa in uso presso il Sevizio Tutela Minori del Comune di Brescia e il Nucleo Tutela Minori dell’ASL, prevede che nel momento in cui arriva la richiesta d’indagine o il provvedimento del Tribunale, i due enti incaricano un operatore per la presa in carico. L’assistente sociale e lo psicologo definiscono quindi un progetto sulla situazione, nonché tempi e modalità operative.

Attraverso le interviste effettuate agli assistenti sociali e agli psicologi, è stato possibile raccogliere riflessioni e considerazioni rispetto alla prassi consolidata d’intervento e di progettazione sui casi, utilizzata dalle microequipe.

Le équipe integrate sono composte per la maggior parte dei casi, dagli stessi operatori, in quanto sia gli assistenti sociali che gli psicologi sono suddivisi per territorio e quindi l’assegnazione dei casi avviene, per lo più, su base territoriale (tranne nei casi in cui i Responsabili ritengano di bilanciare i carichi di lavoro dei propri operatori secondo criteri differenti).

Gli assistenti sociali hanno sottolineato come la collaborazione con gli psicologi ASL sia influenzata sia da un mandato istituzionale, ma anche dalla qualità dei rapporti interpersonali che si vanno costruendo tra gli operatori nel corso del tempo. La collaborazione tra i due professionisti, sembra essere sempre stata improntata verso una condivisione di tutto il percorso d’intervento, specialmente per i casi più complessi.

Questa modalità di lavoro e quindi di progettazione sui casi, secondo gli assistenti sociali, presenta dei punti di forza, quali ad esempio il fatto di lavorare in sintonia con il collega, condividendo passo passo ogni fase dell’intervento, tuttavia presenta anche delle criticità, in particolare il fatto che questo modo di lavorare comporti l’utilizzo di una grande quantità di tempo: per vedersi, per confrontarsi per sostenere colloqui congiunti con i genitori,ecc

Un’altra criticità rilevata dagli operatori comunali, rispetto a questa prassi operativa, riguarda il rischio di perdere un po’ di autonomia professionale, un assistente sociale infatti afferma: «andare

avanti così in simbiosi si rischia di farsi un po’ influenzare, di perdere un po’ la possibilità di avere più visioni del problema». In alcuni casi, al contrario, è stato sottolineato come i due operatori

fossero in difficoltà a condividere sia l’analisi del problema che, ad esempio, le conclusioni della relazione da inviare al Tribunale.

Nella percezione degli assistenti sociali emerge che, nonostante si sia consolidata nel tempo questa modalità di collaborazione su tutte le fasi del percorso, la difficoltà più grande nella gestione congiunta dei casi riguarda la responsabilità di una presa in carico condivisa, nel senso che gli operatori del Comune a volte avvertono il peso e la fatica di avere una responsabilità legislativa rispetto alla tutela minori e, al contempo, percepiscono, da parte dei colleghi dell’ASL, più una collaborazione basata su una responsabilità professionale e su interventi di consulenza. A questo proposito due assistenti sociali affermano: «Si sente la fatica di una vera presa incarico condivisa,

di portare avanti il percorso insieme, l’ASL ha la responsabilità della presa in carico psicologica, ma a volte c’è proprio un rapporto di consulenza e, secondo me, a volte ci si sente un po’soli…», e

ancora: «E’ diverso lavorare con una persona che si sente parte del progetto e diverso è lavorare

con una persona che sente di dover intervenire su chiamata, di dare delle indicazioni rispetto a quel determinato problema, però poi, a livello di responsabilità c’è meno».

Questa situazione, secondo gli assistenti sociali, ha portato i due enti ad interrogarsi su che cosa era necessario fare insieme, da parte dei due professionisti e cosa era utile fare in autonomia e quindi individuare nuove modalità di progettazione individualizzata sui casi che permettessero di ipotizzare una vera e propria presa in carico condivisa che non necessariamente doveva equivalere ad una simbiosi tra i due operatori in tutte le fasi d’intervento.

Per quanto riguarda il punto di vista degli psicologi intervistati, si può affermare che la loro posizione converge con quella degli assistenti sociali, in primo luogo, sul ritenere che la collaborazione con loro sia tanto più efficace quanto più è connotata da una buona qualità di rapporti interpersonali, inoltre, gli psicologi, come gli operatori del Comune, ritengono che le criticità nella collaborazione siano legate al fatto di appartenere a due enti diversi, condizione che con il passare del tempo, secondo loro, ha marcato in modo sempre più netto una spaccatura tra

ASL e Comune, suscitando l’esigenza a livello istituzionale di rivedere le modalità di progettazione individualizzata sui casi di tutela, in questo caso attraverso il percorso formativo condotto da esperti esterni.

Tuttavia, se nella percezione degli assistenti sociali la diversa appartenenza organizzativa determina una diversa responsabilità nella presa in carico condivisa dei casi, negli psicologi emerge che questa diversa appartenenza organizzativa pone delle criticità più a livello operativo (due relazioni differenziate da mandare al Tribunale, équipe di supervisione distinte, ossia tra psicologi da un lato e tra assistenti sociali dall’altro con i rispettivi Responsabili, scarsità di tempo per incontrarsi, sedi diverse, ecc), ma in riferimento alla progettazione congiunta sui casi essi ritengono che l’esperienza professionale, maturata negli anni di lavoro, abbia consentito ad entrambe le categorie professionali di “integrarsi naturalmente” anche a livello di capacità progettuale sui casi.

Una psicologa infatti afferma: «la capacità progettuale, a mio avviso, viaggia più sulla relazione

personale e, lavorando da anni in questo ambito siamo tutti molto esperti, quindi lavoriamo su una capacità di linguaggio e di progettazione che è quasi “innata”. E’ da talmente tanto tempo che lavoriamo insieme che ci siamo integrati naturalmente».

Si può pertanto evidenziare che tra gli assistenti sociali sembra essere più forte la necessità di rivedere le prassi di presa in carico integrata dei casi, anche attraverso un lavoro di co-costruzione di uno strumento specifico di progettazione individualizzata sui casi, presumibilmente per una percezione di maggiore responsabilità sui casi derivante da un mandato istituzionale che conferisce al Comune i compiti di tutela sui minori.

Rispetto alle prassi in uso dalle équipe integrate, è stato chiesto agli operatori se solitamente utilizzano degli strumenti di progettazione e valutazione sui casi.

Dalle risposte fornite sia dagli assistenti sociali che dagli psicologi emerge che i due enti non hanno mai condiviso un unico strumento per progettare sui casi, ma eventualmente degli strumenti ad uso interno dell’ente e di tipo settoriale. Ad esempio, per quanto riguarda il Comune, è prevista una scheda per gli inserimenti in comunità, da inviare alla struttura nel momento in cui avviene l’inserimento del minore, per definire obiettivi e tempi, oppure un’altra scheda specifica per l’avvio del servizio educativo domiciliare, che dovrebbe essere firmata da entrambi i professionisti ma che di fatto, per praticità, veniva quasi sempre compilata e firmata solo dall’assistente sociale dopo aver concordato in modo verbale una linea d’intervento con lo psicologo.

La progettazione sui casi sembra quindi essersi consolidata nel tempo più su un livello implicito e poco formalizzato e, come ha definito una psicologa, «in modo automatico».

3.5. La co-costruzione di due strumenti innovativi: la Scheda per la Progettazione

Outline

Documenti correlati