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2. La Progettazione e la valutazione nel sociale: aspetti teorico metodologici e dimensioni di processo.

2.2. Programmazione, pianificazione e progettazione: i tre termini della cultura programmatoria.

All’interno della cultura programmatoria attuale, come osserva Siza21, sembra permanere una certa

difficoltà nel definire i confini dei termini programmazione, pianificazione e progettazione.

Tuttavia risultano numerosi i tentativi di distinguere tali ambiti decisionali, attraverso varie definizioni che vale la pena precisare, al fine di individuare alcuni punti fermi che possono essere assunti come base di partenza per la costruzione di un linguaggio comune all’interno della cultura

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Ivi, pp. 25-29.

programmatoria e di cui ogni professionista del sociale, chiamato a svolgere attività di programmazione, pianificazione e progettazione, dovrebbe avere padronanza.

Per quanto riguarda l’attività di programmazione, si possono distinguere alcune definizioni più tradizionali che tendono ad accentuarne il carattere statico, come quella citata da Siza secondo cui «la programmazione è l’attività sociale od organizzativa deliberata, volta allo sviluppo di una strategia ottimale dell’azione futura allo scopo di conseguire un desiderato insieme di obiettivi e di risolvere problemi nuovi in contesti complessi, congiunta al potere e all’intenzione di impegnare le risorse e le attività necessarie per realizzare la strategia scelta»22. In questa prospettiva, di tipo

prescrittivo, i piani e i progetti che discendono dalla programmazione sono di tipo normativo, volti a realizzare quanto già definito a priori.

Negli ultimi anni, invece, si parla di programmazione strategica, prediligendo l’aspetto processuale di tale ambito decisionale, secondo un’ottica di governance locale, in cui attraverso una logica non prescrittiva ma dinamica e di incentivazione, vengono attivati processi di regolazione ex ante ed ex post e di costruzione di strategie che si integrano nel processo di indirizzo e controllo del comportamento degli attori. La programmazione sociale strategica deve far fronte ad alcune difficoltà provenienti dal contesto sociale ed evidenziate da Setti Bassanini23, quali ad esempio la

necessità di creare spazi di confronto tra diversi gruppi sociali, tenendo conto delle istanze, dei diversi paradigmi valoriali di cui ognuno è portatore e della possibile conflittualità tra gli stakeholders.

Un’ulteriore pressione ambientale con cui la programmazione strategica deve fare i conti oggi è la rapidità con cui avvengono i mutamenti sociali che sfida sempre di più la capacità prognostica, rispetto all’evoluzione di un sistema sociale, di chi deve programmare una politica sociale. Bassanini inoltre rileva che programmare nel sociale significa anche confrontarsi con problematiche dai confini non sempre netti e sulle quali può esserci un diverso grado di consenso, rispetto agli obiettivi e alle tecniche per affrontarli e la cui soluzione dipende gran parte da scelte di tipo politico più che di razionalità tecnica.

A fronte di tali difficoltà l’autrice propone un approccio alla programmazione che si basa su una

logica di tipo incrementale ad andamento iterativo basata sul presupposto che la realtà si sviluppi

per piccoli passi, non è data una volta per tutte, ma si trasforma proprio nel corso dell’azione, su impulso dei diversi interessi di cui i soggetti coinvolti sono portatori.

Il modello di programmazione incrementale di cui parla Bassanini, trae origine da quello teorizzato originariamente da Lindblom negli anni ’60 e definito come incrementalismo sconnesso o

disarticolato, in contrapposizione ai modelli di programmazione di tipo razionale. Secondo questo

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Ivi, pag. 37.

approccio le scelte programmatorie non vengono prese sulla base di obiettivi prefissati ma per prove ed errori, spesso gli obiettivi vengono definiti a partire dai mezzi a disposizione e si procede prendendo in considerazione poche alternative, valutate in base al consenso espresso dai soggetti coinvolti. In questa ottica quindi le strategie di intervento derivano da processi di negoziazione reciproca finalizzati al raggiungimento di un consenso tra i diversi interessi in gioco. Come evidenzia Leone, l’incrementalismo sconnesso di Lindblom sembra più “una strategia per trattare i problemi che per risolverli”24.

Adottare oggi una programmazione strategica, basata su un modello incrementale, significa produrre piani e progetti incrementali, con carattere orientativo, la cui fase di elaborazione ed attuazione non sono separate ma caratterizzate da conflittualità e negoziazione continua tra i diversi attori in gioco. L’orientamento incrementale, di tipo iterativo, dà grande importanza, inoltre, ai percorsi valutativi periodici dei prodotti della programmazione. Lo scopo non è solo quello di misurare l’efficacia dell’attività programmatoria, ma di ridefinire gli ambiti d’intervento, gli obiettivi e le priorità, partendo dai risultati raggiunti, non necessariamente corrispondenti agli obiettivi iniziali e proprio per questo da valorizzare come mezzo per attribuire nuovo significato alla realtà sociale.

Da queste riflessioni sulla programmazione sociale strategica emerge l’esigenza, segnalata da De Ambrogio25, di annoverare tra le competenze del social planner non solo quelle strettamente

metodologiche ma anche quelle relazionali; chi esercita tale ruolo deve infatti possedere una certa dote di flessibilità ed essere attento ai processi di negoziazione e alle dinamiche contrattuali esistenti tra i diversi soggetti.

Per pianificazione s’intende l’intero processo concettuale e operativo di costruzione di una qualsiasi politica, attraverso lo strumento del piano e che va dall’individuazione del problema e degli obiettivi, fino alla valutazione dei risultati, lasciando ad altri soggetti la formulazione di progetti specifici, in linea con le strategie indicate. In un’ottica di pianificazione strategica, le dimensioni relative alla negoziazione, l’integrazione e la processualità assumono un ruolo di primo piano, infatti le scelte non vengono assunte da un unico pianificatore ma sono il prodotto di un’interazione con una molteplicità di attori. A tal proposito Faludi26 definisce il piano strategico

come «la registrazione temporanea degli accordi transitori raggiunti», per sottolineare il suo carattere orientativo rispetto alle azioni, quale sorta di bussola per i soggetti in campo.

La pianificazione, secondo Faludi, può essere articolata in tre fasi:

24 L. Leone, M. Prezza, (1999), op. cit., pag. 242.

25 U. De Ambrogio, Il social planner “all’incrocio dei venti”: fra competenze tecniche e sensibilità relazionali, in

“Prospettive Sociali e Sanitarie”, n°10-11/2006, pp. 14-16.

- planning: consiste nell’analisi e nella definizione del problema, per arrivare a precisare egli

obiettivi;

- programming: ossia la formulazione dei programmi e dei progetti operativi;

- budgeting: riguarda l’indicazione dei mezzi finanziari.

Dalle osservazioni di Siza27

si potrebbe aggiungere una quarta fase relativa alla costruzione del

disegno di valutazione che, come preciserò più avanti, dovrebbe accompagnare tutto il processo.

Il terzo termine della cultura programmatoria, ossia il progetto, le cui definizioni sono state analizzate nel paragrafo 2.1., può essere considerato quindi l’unità minima di programmazione, attraverso cui vengono implementate le funzioni di coordinamento e di promozione tipiche dell’attività di programmazione.

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